Non vuole nevicare. Cade acqua neve, per le strade di Bologna. Sembra infittirsi, poi rallenta. Fa appena in tempo a bagnare scarpe e piedi, e si scioglie subito.
Per vederla fioccare bianca, tanta, magica, su una lastra di ghiaccio quasi azzurra, bisogna entrare nell’Ateliersi di via San Vitale e farsi trasportare dalla scena teatrale e dall’immaginazione nella fredda Russia degli anni venti, Nell’impero delle misure, come dice il titolo dello spettacolo firmato da Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi.
Ci sono uno schermo, un pianoforte, un tavolino con una candela, varie serie. Viene scoperta una macchina per misurare le pulsazioni dell’unico attore, Sismondi, e delle attrici, Menna, Angela Baraldi, che presta la sua bella voce roca ad alcuni Lieder e a una. struggente, sognate sua canzone, Francesca Lico che accompagna l’azione al pianoforte, Margherita Kay Badillon. È lei intabarrata sotto quella neve da favola, mentre la macchina proietta pressione arteriosa, battiti cardiaci di qualcuno. poi di tutte, sullo schermo. È una pièce delle emozioni e delle visioni interiori, questa, emozioni e visioni fuori norma, tanto grandi da volere cambiare il mondo intero con la poesia, con l’arte, senza arrendersi alle condizioni date, al freddo di guerra e della rivoluzione, esterno e interiore, alla burocrazia, agli affetti lontani. Una poesia che sogna il mare, di dirlo preciso com’è e di scovare quello che gli corre sotto, segreto.
La poetessa russa Marina Cvetaeva viene riflessa nelle voci di tutte le interpreti e di Sismondi, creando un turbine che tocca la fame, la felicità, la voglia di vivere, le scarpe rotte, l’esilio, il ritorno in patria e l’invecchiamento, nel 1940: sembra decrepita, ma basta poco per accendere una luce, una trasfigurazione, nel suo volto. La poesia contro ogni norma, ogni misura, in uno spettacolo delicato, inerme a tratti, con gli attori sdraiati sul palco, in luci crude come soggiacenti a una sventura. A una minaccia, un lavoro di atmosfere molteplici, sonore, visive, illuminate tutte soprattutto dai versi della poetessa.
NOTE DEGLI ARTISTI
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L’opera si concentra sulla relazione tra vita quotidiana e attività creativa, una dimensione centrale nell’universo emotivo di Cvetaeva che intercetta questioni cardinali come la gestione del tempo, la definizione delle priorità esistenziali, il confine tra il mondo interiore e la realtà esterna. È un percorso che pone in relazione il XXI secolo con il ‘900 a partire dalla nostra repulsione per alcuni aspetti di quest’ultimo ormai esausti, dal fascino per la densità delle relazioni che ha saputo generare e dal desiderio di esaurirlo fino in fondo, alla ricerca di una risposta alla domanda ancora aperta sull’effettività della sua fine.
Marina Cvetaeva a partire dal 1922 ha vissuto in emigrazione in stato di povertà e spesso di vera emergenza. In quelle condizioni ha scritto moltissimo, “braccando il giorno come una bestia selvatica”. Partendo dalla relazione tra peregrinazione, povertà e creatività, ci interessa portare avanti una riflessione sul valore e sullo spreco. Per farlo, partiamo dal cuore di chi pronuncia i suoi versi.