Bisognerebbe stravolgere le scene scarne che usano i Quotidianacom, materializzando la rete di parole che pronunciano. Indicare i piani di senso con fili di un colore, quelli narrativi con altri di colore diverso, quelli di riflessione sui precedenti con un altri ancora, utilizzando sfumature di colore per indicare i salti da un livello all’altro, e altre tinte per i qui pro quo, i giochi di parole, i calembour, le contorsioni, gli orizzonti aperti e quelli richiusi, le scatologie, ossia il precipitare nel linguaggio basso per poi risalire. La scena allora sarebbe riempita da una fitta ragnatela, che indica l’andamento rizomatico dei loro spettacoli, con gli snodi di cambio di direzione non sempre univoci, evidenti.
L’ultimo spettacolo, A casa, bambola, visto al teatro delle Moline di Bologna, rappresenta nella loro produzione un salto: non più solo discorsi quotidiani, intorno al desco familiare, magari impegnativi, magari sulla morte, ma confronto con un testo classico, Casa di bambola di Ibsen. Messo, naturalmente, nel tritasassi del loro teatro a ragnatela. Assistiamo, infatti, a variazioni continue dalla cronaca delle reazioni del pubblico della prima rappresentazione nel 1879 alla reazione femminista di Nora, che alla fine della storia va via da casa, rifiutando il ruolo di “scoiattolino”, ad altre considerazioni sul testo, al dialogo intorno al tavolo di casa dei due attori e autori, con tende di plastica sullo sfondo pronte a diventare color sangue o color piombo, o ad aprirsi per una proiezione, o a rappresentare la strada per andare dallo psicologo (terapia di coppia?).
All’inizio lui, Roberto Scappin, si mostra di terga nudo, sporgente da quella tenda. L’uomo è nudo, di fronte alle rivendicazioni femminili? Ancora di più sarà scorticato dal dialogo con l’altra, Paola Vannoni, Lei (lui è naturalmente Lui come personaggio). Ma questi primi piani dello spettacolo, Ibsen e la coppia (con psicologo incombente ma invisibile), non sono gli unici: entrano Archimede con il suo Eureka, per spiegare l’euristica della disponibilità, equivoci, lezioni di musica con Beethoven e Bach, con la coscienza, ribadita continuamente, che siamo in una finzione, che può aprire ogni tipo di porta mentale. Una finzione che sembra veramente vera, traduzione casalinga, domestica, italiota se volete, ma anche intellettuale, quasi “radical chic”, di una tensione di genere che non si placa, allusa anche ricorrendo a un pelouche, un tigrotto un po’moscio.
I Quotidianacom parlano, parlano, si insidiano con la parola, dicono tutto il possibile, come un televisore, anzi due televisori sempre accesi su programmi diversi, che a tratti riescono a marciare in accordo. E il loro parlare è azione, relazione spaziale, riproduzione di un mondo che è il nostro e che il nostro provoca. Riproducono in chiave di commedia corrosiva le tensioni della nostra vita di tutti i giorni, proiettata in un universo filosofico che viola l’aura regola di Wittgestein, di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Qui è scoppiata, intanto, come una kermesse simile a una guerra la società dello spettacolo: le bocche sono aperte, come nel nostro quotidiano blaterare. Ma questa rete, ragnatela, labirinto, alla fine, dopo molti sorrisi e pure risate scatenate, ci lascia consumati da quanto ci siamo rivisti intrappolati, noi spettatori, sperduti proprio al centro di quel labirinto.