“Io sono fra quanti pensano che la scuola di teatro è utile e necessaria. Ma questo non vuol dire che sia impossibile diventare attori senza aver frequentato una scuola. Sono molti i casi di attori diventati anche grandissimi senza aver frequentato alcuna scuola, agli inizi della loro carriera. Diciamo così, metà degli attori non viene dalle scuole e l’altra metà sì. Per quanto riguarda poi i risultati complessivi di una carriera, comunque, la differenza la fa il talento, non la scuola”. Giorgio Strehler, in “Teatro in Europa” n. 14/15, 1995, L’educazione teatrale. Intervista a cura di Nicola Fano e Giorgio Ursini Ursic.
Fra scuola e talento, fra apprendistato d’accademia e mestiere trasmesso in compagnia, di padre in figlio o da primattore ad attor giovane, è scoppiato il ‘Sessantotto’.
Differente appare la situazione della trasmissione e della pedagogia teatrale prima dell’esplosione dell’ ‘avanguardia’ e dopo.
La costituzione di regolari scuole di teatro in Italia è abbastanza recente; tradizionalmente il mestiere di attore si imparava in compagnia. Se nella prima metà dell’Ottocento abbiamo alcune scuole private, la prima accademia moderna per attori è quella creata da Luigi Rasi a Firenze nel 1881. Un corso di recitazione risulta annesso, agli inizi del nostro secolo, al Conservatorio di musica di Santa Cecilia: Boutet dal 1908 vi insegna Storia della letterartura drammatica e Teoria dell’interpretazione scenica; nel 1923 prenderà il suo posto Silvio D’Amico, che poi fonda nel 1935 l’Accademia d’Arte Drammatica, la scuola nazionale di teatro. Ma gran parte della trasmissione avviene con l’apprendistato in compagnia.
Nel dopoguerra accanto all’Accademia, che sempre di più si precisa come luogo di formazione di attori per il teatro dell’autore e del regista, troviamo numerose scuole private e, più tardi, centri di formazione che nascono all’interno dei teatri stabili (la più famosa è quella sorta in connessione con il Piccolo Teatro di Milano di Strehler e Grassi, poi Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”).
Tutte le categorie previste da queste scuole, specchio del nostro teatro del secondo dopoguerra, entrano in crisi con quel movimento che giunge a maturazione alla fine degli anni Sessanta: il teatro dell’autore si rovescia nel nuovo concetto di scrittura scenica; al teatro del regista viene contrapposta l’idea di regia collettiva; la compagnia privata viene criticata in nome del lavoro collettivo, che trova nella cooperativa senza fine di lucro una prima nuova forma organizzativa; al teatro stabile si contrappone l’idea di gruppo, insieme nomade e radicato in un territorio.
Entra in crisi il teatro del testo, interpretato dal regista, con un attore funzionale al disegno dell’autore e della regia.
Entra in crisi il teatro come finzione, rappresentazione, svago.
Grotowski: “Solo gli avventurieri e gli anarchici sono venuti da noi, quelli che non erano stati accettati dagli altri teatri”.
Il Living attraversa varie volte l’Italia e L’Europa. E’ una collettività non solo teatrale, ma politica ed etica: gruppo che sperimenta modi diversi non solo di fare il teatro, ma di affrontare la relazione con il pubblico e con la società, ampliando lo spettro delle risorse dell’attore a tecniche non teatrali, ma extraquotidiane (yoga, danza, tai chi, ecc.), rifiutando peraltro di esaurire il teatro in un insieme di artifici rappresentativi.
Musica, cinema, arti figurative, happening e performance entrano nelle creazioni di artisti come Bene, Quartucci e de Berardinis. Come, in modo diverso, nella poetica e nel lavoro di tutta l’avanguardia romana degli anni Sessanta-Settanta.
“Il terzo teatro vive ai margini, spesso fuori o alla periferia dei centri e delle capitali della cultura, un teatro di persone che si definiscono attori, registi, uomini di teatro senza essere passati per le scuole tradizionali di formazione e per il tradizionale apprendistato teatrale, e che quindi non vengono neppure riconosciuti come professionisti. Ma non sono dilettanti. L’intero giorno è per loro marcato dall’esperienza teatrale, a volte attraverso ciò che chiamano il training, o attraverso spettacoli che debbono lottare per trovare il loro pubblico”, Eugenio Barba, Terzo Teatro, in Aldilà delle isole galleggianti, Milano, Ubulibri, 1985, p. 219.
Da una parte c’era il teatro della rappresentazione, che trasmetteva i modi per fingere. Pur nella differenza di metodi lo scopo era all’incirca quello di rendere sceniche opere dell’immaginazione poetica concentrando in esse un’impressione di verità, una veri-simiglianza, un qualcosa che allontanasse dalla durezza della realtà ma che allo stesso tempo la richiamasse come un’eco sublimata. Il teatro, come l’arte, si configurava come isola di evasione, come mondo autonomo e piuttosto sereno.
Dall’altra parte si contrappone un rifiuto. Innanzitutto a considerare il teatro uguale solo al teatro, continente separato, che si riproduce dall’interno, per partenogenesi. “Cambiare il teatro per cambiare il mondo”, è lo slogan che individua per questi anni Gianni Manzella nel suo articolo Maestri eretici, in “Teatro in Europa” cit. Quello che cerca il nuovo teatro, collegandosi alle esperienze radicali degli sperimentatori del Novecento, è una verità, un’esperienza che sia insieme dell’individuo e del gruppo, dell’individuo in relazione a un gruppo che si confronta con la vita e con la società. Teatro dell’esperienza, del vissuto, che si articola in forme capaci di parlare alla complessità dei sensi e delle facoltà dell’uomo, e di incidere nella società o, perlomeno, all’interno di altri individui. Diventa altrettanto importante del prodotto spettacolare il processo messo in atto nel gruppo di lavoro e il contatto con il gruppo degli spettatori.
Il teatro si dilata, rifiuta la contrapposizione a specchio platea-palcoscenico, si moltiplica in un gran numero di pratiche ed esperienze differenti, respingendo le relazioni consuetudinarie, dilagando nei più diversi ambiti sociali.
Di conseguenza vengono messi in crisi i contenuti e le forme della trasmissione tradizionale: la dizione, il mimo, le tecniche di recitazione imparate a scuola vengono ritenute insufficienti, in quanto stigmi di un attore borghese separato che mistifica la complessità della realtà dell’arte in prodotti medi e d’evasione. Non bisogna ‘imitare’ o ‘caratterizzare’, ma ‘essere’, creando una forma capace di spiazzare la visione abitudinaria.
Si eleggono i propri maestri, che possono essere vicini o lontani (per Barba erano da una parte Grotowski, dall’altra i depositari del grande sapere spettacolare orientale e Mejerchol’d).
Si frequentano stage, laboratori, seminari con artisti di grande esperienza, spesso portatori di tradizioni uniche, che accettano di rendere condivisibile il proprio sapere, ci si collega a modelli culturali o pratici ideali, ai maestri del Novecento. Si viaggia verso l’Oriente come verso la Danimarca, evidentemente non solo alla ricerca di un altro teatro, ma anche di un’altra sensibilità generale, di un’altra possibilità di vita.
La formazione diventa da una parte ‘pellegrina’, dall’altra un dialogo con assenti. Dall’altra ancora viene assunta su di sé dall’individuo artista e dal gruppo. Spesso si ricorre al teatro per esplorare la propria personalità, le proprie capacità relazionali ed emotive, per ricercare dentro se stessi.
Autoformazione, formazione permanente.
Nascono nuovi problemi.
Il declino di una generazione (o ondata) dell’avanguardia deriva anche dalle sue capacità di trasmettere un’idea di arte e di lavoro. Così gran parte della generazione dell’avanguardia romana sembra non aver lasciato nulla se non in modo indiretto. L’unico, fra quegli artisti, che crea una “scuola” è Leo, che si pone peraltro il problema della trasmissione pedagogica in una fase successiva, a Bologna a partire dagli anni Ottanta.
Manzella, nell’articolo citato: “Come si può trasmettere un’esperienza che non è fatta di testi o di tecniche espressive ma di processi, di modi di lavoro – poiché questi modi di lavoro cambiano continuamente negli anni, in una continua verifica sperimentale dei risultati che comporta ulteriori sperimentazioni”. Non c’è un metodo da codificare. La ricerca è eresia continua. Teatro è evento. Processo da reinventare ogni volta.
Molti cercano anche di reinventare la tradizione: si cercano i fili per ricollegarsi a patrimoni popolari, dialettali, a pratiche teatrali lontane o considerate marginali dal mondo ufficiale, ricostruendo, mettendosi a bottega, molte volte immaginando e ricreando.
Dalla fine degli anni Settanta alla metà degli Ottanta (ma anche oltre, fino a oggi) la metodologia di lavoro barbiana influenza molti gruppi che mescolano il sistema del training all’interno di un collettivo guidato da un regista con il rapporto con maestri con cui si sente di essere in sintonia, invitati a tenere stage o seguiti in particolari momenti di lavoro o workshop. L’università (o l’accademia) di questa costellazione internazionale di gruppi sarà l’Ista, con le sue sessioni di lavoro transculturale.
Un altro centro di formazione fuori dalle scuole, che ha disseminato saperi, tecniche, riflessioni e soprattutto artisti, è stata l’esperienza grotowskiana nelle sue diverse fasi, dal Teatro Laboratorio fino al Workcenter di Pontedera.
Negli anni Ottanta nascono altri gruppi, originali, eretici spesso anche rispetto alle scuole dell’avanguardia, o postavanguardia, o terzo teatro. Radicali. Essi saranno un’altra forza di propulsione per la trasmissione e la formazione di nuovi artisti, percorrendo strade ogni volta nuove, compiendo esperienze ogni volta diverse. La didattica non si perpetua sempre uguale a se stessa, ma nasce in relazione con numerose variabili: l’occasione, il momento particolare rispetto alla ricerca complessiva del gruppo, la relazione con coloro che partecipano, lo spazio, lo scopo (seminario, preparazione di uno spettacolo, lavoro nella scuola, scuola di ricerca o di formazione, ecc.).
Partiamo da questi ultimi gruppi, e dal legame con i più recenti fermenti teatrali. Le compagnie dell’ultima ondata anni Novanta dichiarano più volte di essere senza maestri. Se si guarda ai percorsi di formazione dei loro componenti si scopre che in realtà pochi di loro hanno fatto scuole di teatro, e quelli che le hanno frequentato sono nati al teatro distaccandosi da certi stilemi appresi a scuola. Ma molti hanno frequentato ambienti ad alti tassi di teatralità viva, humus fertilissimi.
Il caso Romagna è esemplare, forse singolare. Quanti dei nuovi attori sono passati attraverso le Albe, la Raffaello Sanzio o il Teatro Valdoca. Quanti altri hanno seguito loro esperienze, o frequentato scuole atipiche come la ‘Scuola Teatrica della Discesa’ della Raffaello Sanzio, alla quale si accede senza selezioni, non per fare gli attori, una scuola basata sul movimento naturale del respiro e sul battito del cuore. “Per questo non faccio provini – dichiarava la sua fondatrice, Claudia Castellucci, in un’intervista alla rivista ‘ART’o’ – non è questione di bravura, ma di quanto uno riesce a discendere, a lasciarsi andare nella via dell’esercizio. Non esiste un metodo, ma una metodica del cambiamento”. Altro si potrebbe dire sulla ‘Scuola pellegrina’ della Valdoca, o sulla ‘Non-scuola’ delle Albe. La prima è un’esperienza nomade, che cerca gli attori per gli spettacoli corali della compagnia cesenate, incontrando in situazioni di lavoro più o meno lunghe numerosi giovani. La seconda è un’attività che ha portato il teatro nelle scuole superiori di Ravenna, smontando e ricucendo i testi classici fino a renderli vicini ai ragazzi.
Ma più che parlare di metodi (o non-metodi), credo sia sufficiente dichiarare che questi tragitti pedagogici hanno germinato un gran numero di nuove realtà teatrali.
Altre esperienze nascono o si fortificano in quegli stessi anni, fuori dalla convenzione insterilita e fuori dall’avanguardia, cercando di collegarsi a tradizioni vive e alla necessità di ricercare sul linguaggio senza recidere il filo con lo spettatore e con la società. Incontriamo in questo ambito i ‘narratori’ come Baliani, Paolini, ecc., compagnie come Settimo, e il teatro ragazzi più consapevole. Le provenienze e i canali di formazione sono i più diversi, ma comune è la convinzione del primato dell’esperienza e la conseguente scelta di campo della ricerca personale o di gruppo.
La formazione, in ogni caso, diventa non un luogo separato di trasmissione di tecniche e di conoscenze, ma uno dei campi di una complessiva pratica artistica ed esistenziale.
Certo, se una nuova pedagogia teatrale si è fatta strada, essa si è formata proprio nel tentativo di ‘descolarizzare il teatro’, come possiamo dire in analogia con l’espressione di Ivan Illich, che voleva ‘descolarizzare la società’. Ma nasce subito un problema: questa nuova antipedagogia si è spesso esaurita nella piatta imitazione di modelli, magari ‘alternativi’, negando l’originaria ispirazione. E spesso si è andata costituendo come un modello economico e relazionale che va oltre la formazione del nuovo attore, per diventare un’attività di servizio o fine a se stessa.
In un saggio molto penetrante, pubblicato in un volume frutto di una ricerca promossa da Emilia Romagna Teatro con vari partner europei, In compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici e teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale, pubblicato a Modena in questo mese di ottobre 1999, Piergiorgio Giacchè esamina il nuovo fenomeno del grande consumo attivo di teatro, che fa del teatro stesso un settore atipico di attività, in cui spesso consumatori e produttori sono gli stessi. Nel nuovo teatro, argomenta lo studioso, conta il lavoro su se stessi come formazione permanente e riconferma dell’identità, e contano attività che si svolgono fuori dal teatro, di animazione, formazione, pedagogia, ricerca laboratoriale. Lo spettacolo viene alla fine. In questo mondo si inventano nuovi ruoli e occasioni: l’operatore nasce dal consumatore consapevole e desideroso di cimentarsi con uno strumento altamente fruibile ed efficace, dotato di un valore d’uso superiore a quello di scambio. Teatro spettacolo e teatro servizio sono in osmosi e in intersezione di ruoli e funzioni; il valore principale resta non l’esito ma la relazione.
“Se ieri (e ancora oggi) il teatro di tradizione contava sulla costruzione di un ‘suo’ pubblico di appassionati e prima ancora di mecenati, oggi (ma forse già da tempo) il nuovo teatro di ricerca scommette sull’approfondimento di un interesse attivo e di una collaborazione fattiva da parte dei più assidui spettatori, ai quali in definitiva è riservato il compito di diffondere e discutere i temi e i problemi di un’arte e di una cultura scenica che ormai li prevede e li comprende al suo interno” (p.52).
La formazione diventa “un settore di mercato che si riproduce indefinitamente”. Se ciò può aprire nuove vie, porta anche a una banalizzazione, a una trasformazione di una richiesta di più esperienza, processo, presenza, in una branca del mercato, in abilità da vendere anche senza tanti scrupoli, e trasforma il mondo dell’incontro, della fulminazione artistica attinta scoprendo con le proprie forze, in un altro mondo di cartone, in un labirinto in cui tutto è scuola, è attesa di realtà, e della realtà non si sente più neanche il lontano odore. “Non siamo capaci di vivere senza scuole, palestre, corsi, seminari, workshop”, nota un allarmato articolo di Vittorio Giacopini dedicato alla crisi e alle menzogne della scuola, apparso sull’ultimo numero della rivista ” Lo Straniero” (n.8, autunno 1999).
Il teatro nella scuola, il teatro materia scolastica, il teatro della terza età, del carcere, ecc.: hanno avvicinato il teatro ai luoghi degli scontri sociali, lo hanno diffuso in modo piuttosto capillare, hanno moltiplicato le possibilità di crearsi una professionalità che dia da campare e che resti vincolata ai bisogni; ma pure in alcuni casi hanno reso l’arte scenica meno abrasiva, più inefficace. Anche se il cerchio si può chiudere in molti modi: il teatro applicato alla società ha reso evidenti, nota Giacchè, quanto sia malata di assenza di relazioni la nostra vita associata, e ha fatto conoscere e valutare il teatro d’arte da un maggior numero di persone, anche tradizionalmente lontane dal suo mondo.
Tornando alla trasmissione del mestiere del teatro: le rivoluzioni hanno influito anche sulle scuole. La Civica Scuola “Paolo Grassi” durante la direzione di Renato Palazzi mandò all’aria la tradizionale trasmissione, basando i propri corsi principalmente su seminari con artisti, nell’idea che non esistevano più ‘uno stile’, ‘un teatro’, ma diverse esperienze e molti teatri. Un maggior numero di voci oggi si leva a chiedere nuove concezioni e nuovi edifici teatrali dove si possa produrre e formare, in stretta connessione con una pratica scenica. All’insegnante si deve sostituire la difficile (da trovarsi) figura del maestro, e l’esperienza.
Come possono rapportarsi scuole (e non scuole) con il problema di una formazione che può avere diversi livelli e durare diversi anni? Notava Renata Molinari, in “Teatri in Europa” cit., come le scuole pubbliche formino dai gradi elementari fino a quelli finali, vale a dire dalle ‘elementari all’università’.
Che funzione hanno le università nella trasmissione del sapere teatrale? Quale tipo di sapere? Che rapporto si può instaurare fra studio storico, teorico e pratico del teatro, nelle diverse sedi? Che funzioni hanno corsi ‘tecnici’ (come quelli del Cimes di Bologna) che sempre di più si sviluppano accanto alla formazione universitaria? Perché alle università dove si studia teatro (tipo i vari Dams) si iscrivono molti giovani che vogliono farlo, non studiarlo, il teatro?
Questi e altri sono i problemi che dovremo affrontare.
Accanto ai problemi ci saranno le testimonianze, di alcuni fra i protagonisti del cammino che ho cercato, schematicamente, di delineare.