Kismet: Barabba, il cinismo romantico di Antonio Tarantino 

Non so se è un caso che due artiste baresi, Licia Lanera (leggi qui) e Teresa Ludovico, allestiscano più o meno nello stesso giro di tempo testi di Antonio Tarantino. La scrittura dell’autore e pittore, nato a Bolzano e vissuto a Torino (1938-2020), debordante, dissacrante in cerca di sacro, piena di umori incontenibili in forme regolari, il suo gusto tra il ‘maledetto’, il drammatico e il cabarettistico, ben si adattano a un’idea (forse stereotipa) che possiamo avere di Sud esuberante, che grida, protesta, si ribella, e facendo tutto ciò si cerca, sempre con un fondo di umorismo tendente allo sferzante disincanto.

Ho visto a Teatri di Vita a Bologna Barabba del Teatro Kismet / Teatri di Bari, regia attenta e incisiva di Teresa Ludovico, interpretazione appassionata, carnale e nello stesso tempo, nei momenti opportuni, distanziata di Michele Schiano di Cola, una vera e propria debordante ‘macchina teatrale’ costretta in uno spazio scenico metallico, disegnato, come le luci immaginose che lo moltiplicano, da Vincent Longuemare. 

Scrive la regista nel programma di sala: 

Nel 1982 ho visto lo spettacolo Stabat Mater di Antonio Tarantino, interpretato da Piera Degli Esposti, e sono rimasta folgorata da quel potente flusso di parole fatte di carne. Una scrittura magistrale che mi affascinava e mi intimoriva. Quando, qualche anno fa, Marco Martinelli ci propose uno studio per la messa in scena de La casa di Ramallah, ebbi un tuffo al cuore: ero eccitata dalla proposta e impaurita dalla verbosità della scrittura. Allora ho avvicinato il testo lentamente, cercando di assorbirlo ritmicamente e quando mi sono lasciata andare tutto è stato più semplice. Lo stesso è accaduto poi nella preparazione di Namur, Cara Medea e Piccola Antigone. Questi personaggi, spesso portatori di mitiche ferite, chiedono all’attore di essere incarnati così come si presentano: nudi e crudi, senza nessun giudizio. Frequentando negli anni il Maestro ho compreso la sua necessità di scorticare le belle parole per trovare la voce, magari rauca, di quella umanità che ha paura dell’altro, che si sente continuamente minacciata e che vive di doppiezza. Le storie di Tarantino si svolgono in interni, in spazi chiusi, ma sono sempre il riflesso del fuori e della Storia. Con leggerezza e ironia riesce a coinvolgere lo spettatore in temi di grande impegno sociale. Un teatro politico?!

In una gabbia a due piani di lucenti traversine metalliche si dibatte Barabba, un corpo debordante, galeotto condannato in una Palestina evangelica che sfora verso i giorni nostri, con gente ristupidita sempre davanti alla televisione, con idee diverse su come trattare i detenuti, dove prevalgono quelli che vorrebbero “gettare la chiave”. Lo spettacolo cresce per disgusti, modulandosi in parlate regionali differenti, con accenti spiccati aggiunti al lussureggiante italiano parlato di Tarantino. Diventa una polifonia di voci in un solo corpo, sudato, piegato, costretto, che a poco a poco ascende nella gabbia e si ricopre di neri indumenti. Lentamente verso il reietto, Barabba, il ribelle, il terrorista, quello che il mondo non perdona; in lui che non può perdonare nessuno, ma solo fregare tutti, trapelano notizie sull’altro, quello che perdona il mondo, il male, e anzi si sacrifica gli uomini. Qualcosa di inconcepibile, uno scandalo, una pietra d’inciampo per le nostre ciniche convinzioni dell’essere umano lupo all’altro essere umano.

Si chiude così il bel testo, e vale la pena trascriverlo, quel finale:

Però, ora che se ne è andato se devo dire provo un certo qual rimorso, mi accorgo di essere quello che son sempre stato: un figlio di puttana, ma che ora però non sono più. Sarò stato salvato anch’io? Liberato dalle catene che mi vincolavano a una vita sciagurata? Ma non abbiamo detto che l’esistenza è una sciagura in sé stessa? C’è la speranza?

Lui è morto e io sono stato amnistiato: non mi prudono più le mani, il cielo sopra questa desolazione si è rasserenato e io forse avrò la peggio nella sempiterna lotta per bande che coinvolge tutta la città. Ma se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti.

Lo spettacolo è uno sprofondamento nel buio che cerca luce e nell’oscurità riprecipita continuamente cercando di risollevarsi. È carico di cinismo che si accende di romanticismo, dell’espressionismo della vita degli ultimi continuamente raggelato: ossimori, concerti di voci discordanti che, grazie alla bravura dell’interprete, alla forza dell’autore e dell’allestimento, conquistano.

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