Anatomia di un suicidio – lacasadargilla

Questa non è una recensione. È un appunto, una suggestione, un’ammirazione per Anatomia di un suicidio, il testo di Alice Birch in scena al Piccolo Teatro di Milano nell’allestimento di lacasadargilla (leggi la presentazione e una bella recensione). Qui sta la natura di questo blog: appunti, schizzi, folgorazioni e pure reticenze, su tutto quello che vedo e che non mi sembra meriti impegno di scrittura.

Lo spettacolo con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni e pure la scrittura originale di Birch, pubblicata da ilSaggiatore, si presenta come un pezzo di insieme d’opera: come in un concertato le diverse voci procedono sovrapponendosi contrappuntandosi contrastandosi, acquisendo senso dagli incroci che si creano tra tre vicende distanti nel tempo e presentate in contemporanea sul palco, raffiguranti le storie di tre generazioni di donne, la nonna, la madre, la figlia. Qui non ci sono virtuosismi canori: c’è solo la matematica del dolore di tre vite segnate da ricorrenti, differenti sofferenze profonde, di quelle che scavano la psiche e la rendono malata. Tutto si svolge in una casa che si trasmette attraverso le tre generazioni, resa in scena con tre porte spesso aperte su un vuoto bianco o illustrato con essenziali evocativi oggetti. Essa diventa luogo delle vite e poi dei fantasmi, dei ricordi che ossessionano, tra il sottile soffiare del vento tra foglie proiettate sui muri e l’incresparsi di acque, fiume e lago dei misteri del profondo e delle malattie del vivere.  Questa musicalità per intarsio contrasto e eccesso, con una magia rossiniana e un dolore verdiano, è lingua ferita d’oggi incisa nel corpo di tre donne che ripercorrono il dolore dell’assenza del vuoto delle vite, della pulsione al suicidio e all’autodistruzione nella tossicodipendenza, un’eredità che si compie, nel caso della nonna e della madre, con il drammatico togliersi la vita. Sarà la nipote a sfuggire radicalmente alla maledizione familiare attraverso il rifiuto di prolungare la specie attraverso la sterilizzazione. Nel concertato le attrici sono splendide protagoniste, sostenute con solida leggerezza di porteur dagli uomini, dagli attori, che innescano le crisi o vi assistono impotenti o semi indifferenti, in un testo che parla (grida) di infelicità senza rimedio, sociale ma anche biologica, e metafisica. In uno spettacolo dove stormiscono le foglie della vuota casa di campagna, dove forti e psicologici, drammatici, sono i contrasti delle atmosfere luminose, dove scorrono quasi impercettibili acque, dolcezza e bellezza è data dalle voci e dalle presenze dei bambini, dalla necessità di continuare la vita e dalla fatica, dalla sfida che ciò si tramuti in una semplice (im)possibile gioia.

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