Stare da soli. Per intreccio di casi, per costrizione, per scelta. Essere rinchiusi nella «cella insopportabile» di cui scriveva Pavese o scegliere la solitudine come strumento di lavoro per affinare l’arte, di scrivere, di immaginare, di dipingere, di comporre, di guardare nel fondo invisibile delle cose. Essere tallonati dalla solitudine, come in una canzone della cantante francese Barbara, perché «per quanto la depisti lei ti fa da scorta, ti segue passo passo, non te ne liberi più. Essa ritorna. È qua».
Non è un romanzo, questa volta, e neppure una sceneggiatura o un podcast, scritture che Grazia Verasani frequenta negli ultimi tempi. Solitudini è un libretto di riflessioni su quella che l’autrice nel sottotitolo definisce non una malattia, ma uno “status del XXI secolo”, ripercorrendo pensieri, scritture, esperienze di artisti che quell’affezione, quel sentimento l’anno vissuto, l’hanno subito, l’hanno scelto.
Sono appena 43 pagine, divise in capitoletti essenziali (costo 11 euro). Sono state pubblicate da Oligo, una casa editrice mantovana che fa del poco, dal greco “ólígos”, la sua cifra, citando Seneca, «non multa, sed multum», non tante cose, ma profonde.
Lo presenta oggi, venerdì 24 marzo, alle 18.30 alla libreria Coop Ambasciatori nell’ambito della serie «Il venerdì con lo psicanalista», dialogando con il critico Alberto Sebastiani e con l’analista Filippo Marinelli.
Tante solitudini scorrono nelle dense pagine: dall’«ognuno sta solo sul cuor della terra» di Salvatore Quasimodo, alle passeggiate solitarie e alla morte nella neve, senza nessuno intorno, dello scrittore Robert Walser; dalle lunghe camminate di Gianni Celati, uno dei maestri di Verasani, allo scrigno di versi scritti tra le mura domestiche da Emily Dickinson, ai brani di diario, scrittura della solitudine per eccellenza, annotati in sanatorio da Katherine Mansfield, alle provocazioni nichiliste, intinte di pessimismo cosmico, di Emil Cioran, come questa: «Senza l’idea del suicidio mi sarei ucciso subito». A quella solitudine in paesaggi privati di figlie e affetti, piena di fantasmi, che è la vecchiaia come la narra Luigi Pintor nel Nespolo. Fino alle sconsolate parole finali della Solitudine del satiro di Ennio Flaiano, uno dei maggiori e più laterali interpreti del nostro Novecento: «Noi non sappiamo chi siamo, noi siamo passeggeri senza bagagli, nasciamo soli e moriamo soli». Appare anche un vecchio di Manlio Sgalambro, così isolato da apparire «monumentale»: «Il vecchio dunque è monumentale. Monumentale è la sua lontananza. Egli infatti è sempre lontano. Cosa che chiunque l’avvicini avverte». La vecchiaia e la solitudine rifugiata nei ricordi precipitano nell’incapacità di comprendere le paure e gli slanci delle nuove generazioni: «Mi chiedo se in questo tipo di amarezza non c’entri l’imbarazzo di essere passati, di essere vissuti senza cambiare le cose che volevamo cambiare, ritrovandoci un nugolo di ideali smorti, briciole delle nostre rivoluzioni mancate, delle nostre passioni politiche».
Molte sono le riflessioni personali di Verasani stessa, sul suo bisogno di silenzio, di concentrazione, sul suo ritrarsi. Con un finale molto intimo, che chiama in causa gli affetti più forti, le persone più care, perse per sempre, in una svolta che rende questo prezioso libretto uno squarcio d’anima di una delle nostre più sensibili scrittrici.