Attrici & Attori

È forse un po’ pretestuoso aver unito spettacoli di vario genere e temperatura sotto il titolo Focus lavoro come ha fatto Emilia Romagna Fondazione. Ma alla fine il percorso risulta stimolante, perché questa rassegna non-rassegna apre sguardi di differente spessore e tramatura su un tema nodale oggi, non troppo frequentato in teatro e in genere nelle arti. Ho già parlato in questi appunti del blog del bel Capitale di Kepler-452 e del non troppo convincente Pendulum di Marco Martins. Se quei due lavori erano accomunati dalla presenza di vere lavoratrici e veri lavoratori, in Le serve di Genet e in Scandisk di Vitaliano Trevisan, visti a Bologna, rispettivamente nello spazio grande dell’Arena del Sole e nella raccolta sala delle Moline, siamo nel teatro d’autore e d’attore che rappresenta il lavoro.

ph. di Laila Pozzo

Il primo testo, riletto dalla regista Veronica Cruciani con sensibilità e acume, è addirittura un classico, che si rivela oggi abbastanza impolverato, perché dal 1946 in cui è stato scritto è stato variamente interpretato, tanto da rendere i suoi meccanismi risaputi e un po’ ammaccati. Cruciani lo rimette in vita snellendolo e sottolineandone i valori metateatrali, rivelandolo, prima che come una lotta di classe tra le due cameriere sorelle e la padrona, come una sfida contro un’icona, quella della Signora, un fantasma realissimo che incarna in sé tutto il Potere, soprattutto immaginario, tanto da incombere continuamente, perfino quando non è presente, nei crudeli giochi di ruolo di Claire e Solange: una delle due di volta in volta la impersona imperversando ferocemente sulla sorella, mentre l’altra esprime tutto il proprio disagio, odio, e tutto il desiderio di eliminarla.

Non è questo il luogo per un’analisi approfondita dello spettacolo, per la quale rimando alla bella recensione di Mario De Santis su “Doppiozero”. Rilevo che tutto rimanda al teatro, ancora di più che nel gioco di travestimenti e specchi di Genet, con una scena fatta di bauli teatrali, di quelli che si usano per trasportare i materiali illuminotecnici, che aprendosi rivelano armadi, letti, esuberanti barocchi arredi di fiori finti. Le due attrici, inoltre, all’inizio si presentano per quello che sono, interpreti che stanno per indossare i personaggi e dare corso al loro reiterato rito sado-masochista.

Le attrici: qui sta la forza dello spettacolo. Claire e Solange sono affidate a due interpreti, Matilde Vigna e Beatrice Vecchione, giovani ma di rara potenza e maturità espressiva. Dalla prima, già insignita di un paio di premi Ubu, siamo stati folgorati da quando nel 2016 interpretava Clitemnestra in Santa Estasi di Antonio Latella, viaggio negli orrori familiari della tragedia greca. E l’abbiamo seguita fino al recente Chi resta, da lei scritto e interpretato per Ert (leggi la recensione di Francesca Saturnino qui). L’altra non la conoscevo ed è stata una bellissima sorpresa. Sanno indossare i labirintici giochi di travestimento proposti da Genet, asciugati dalla regista in una struttura quasi geometrica, senza mai perdere di intensità e di verità, riuscendo nei loro scambi di ruolo ad allargare il nostro sguardo alle infinite declinazioni del desiderio, ad allarmarlo fino ai crepacci dell’odio, a spingerlo nelle praterie imprigionate del bisogno di uscire da ruoli prefissati. La impassibile Eva Robin’s, la Signora, è al confronto di questi due esseri pulsanti, crudeli e indifesi, una statua, perfetta come respingente contro cui ogni sogno, di riscatto sociale e psichico, si infrange. 

ph. di Laila Pozzo

Una nuova generazione di attrici sta emergendo. Segniamo questi due nomi nel taccuino, insieme a quello delle scatenate interpreti di Wonder Woman di Antonio Latella: Maria Chiara Arrighini, Beatrice Verzotti, Chiara Ferrara, Giulia Heathfield Di Renzi.

ph. Giulia Agostini

Tra i cuscinetti a sfera, nel ritmo del Nord Est

E segniamoci questi altri nomi: Jacopo Squizzato (anche regista), Mauro Bernardi, Beppe Casales. Hanno interpretato Scandisk, un testo scritto dal Vitaliano Trevisan alla fine del secolo scorso, compreso nel volume Wordstar(s). Trilogia della memoria, “discendente diretto della lezione di Samuel Beckett, Thomas Bernhard e Michel Butor”. La pièce è brevissima: mette in scena gli umori, affaticati, violenti, ribellistici di tre magazzinieri di una ditta che produce cuscinetti a sfera, nel laborioso, stremante Nord Est. Essi nelle pause, con un caffè o una clandestina sigaretta in mano, sognano evasioni di ogni tipo, fino a progettare una rapina, per dare una svolta alle loro vite senza orizzonti. Siamo in un ambiente scandito dal rumore di un muletto che continuamente solleva bancali, scomponendo e ricomponendo ‘torri’ di quegli elementi, con un retrobottega dal quale provengono i tre. Il testo racconta esperienze vissute dall’autore veneto, morto nel 2022, che al lavoro ha dedicato altre opere, come il romanzo Works, rievocazione dei lavori fatti da giovane, segnata dalla maledizione della religione della produzione e dalla necessità di fuggirne. La pièce durerebbe appena mezz’ora: perciò in questo allestimento, stimolato da Ert, è preceduto da una registrazione con la voce dello stesso Trevisan e concluso con un monologo da un’altra opera narrativa dello scrittore, I quindicimila passi

Lo scandisk è una pulizia del disco rigido di un computer. È un mettersi davanti al proprio io di Trevisan, che ricorda il lavoro servo, la produzione senza orizzonte e il bisogno di aprire altri mondi, mentre compie quell’altro lavoro, auratico ma tanto più precario in realtà, quello di scrittore.

L’inizio e la fine rappresentano un omaggio a lui, all’autore. Ma potrebbero benissimo non esserci. La vitalità di questo spettacolo sta nel lavoro degli attori, che si danno forza con l’azione concreta dello spostare i bancali e poi di respirare sognando, spogliandosi dei grembiuli da lavoro, maledicendo i capi, osservando come gli uccelli fuggano da quell’inverno dell’anima che sono i loro territori di una città diffusa, migrando in zone più calde. Essi ci ‘invadono’: irrompono contro il lavoro, verso di noi, come forze della natura costrette in maglie difficili da rompere, in divise di cui è difficile spogliarsi, se non a parole, con un desiderio che prova a frantumare le regole. Sognano qualcosa che interrompa il ritmo avvilente, della ripetizione. E all’interno di una stessa partitura donano varietà alle loro figure, indossate perfettamente e insieme distaccate da sé: dagli interpreti e dai personaggi stessi, che scandiscono il tempo glaciale e frastornante di una continua alienazione.

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