Sulle acque mobili di un lago: il Čechov di Liv Ferracchiati

Nel Gabbiano di Čechov pulsa un sordo rancore, un sentimento di inadeguatezza devastante che rende gli attimi, i giorni, i rapporti, le vite sprecati. Parla di noi, di questi tempi senza qualità e spesso senza orizzonti, fluidi, come l’acqua del lago sul quale si svolge la storia.

Liv Ferracchiati ne porta in scena un’originale riscrittura al Teatro Studio del Piccolo di Milano, intitolata, seguendo una suggestione di David Forster Wallace, Come tremano le cose riflesse nell’acqua. Ha affidato la parte di Kostja a Giovanni Cannata, un attore appena diplomato all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, rivelandoci un talento giovane di notevole spessore. Definisce lui, come gli altri personaggi, solo con la funzione, in questo caso Figlio, aggiungendo subito una caratterizzazione: “uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura”. Aggiungo – in questi che ricordo sempre sono solo appunti, e non una recensione – che lui, il giovane scrittore arrabbiato contro un ambiente asfittico, prova a realizzare il motto del Vangelo di Giovanni, “In principio era il Verbo”, nel senso che la parola – crede – può creare la realtà. Quando capirà che ciò non è possibile, che il dolore della nascita difficilmente si può emendare, la farà finita. 

Di fronte a lui sta un’attrice di esperienza e bravura come Laura Marinoni, definita “Madre, una grande attrice forse in declino”. È una donna che quel figlio lo abbandona per narcisismo, per seguire la propria carriera e i propri amori. A lei rivolgerà un lungo straziato monologo finale il Figlio: “mamma / non rispondi / non senti / non senti che vi odio / che io vi odio per la vostra disinvoltura nei confronti delle cose più banali / sapete sorridere e abbracciare / sapete ballare se inizia una musica / i vostri corpi si muovono / disinvolti / mentre vi guardo / nudi nel ballo / e la mia rabbia esplode / io mi odio mentre vi guardo ballare disinvolti / mi disprezzo / vi disprezzo / mi vergogno per la mia magrezza / per le mie spalle curve”.

E di fronte a lui sta Nina, l’unica con il nome, “una che vuole fare l’attrice o la rivoluzione” e che si perderà nel fascino maturo del Romanziere legato alla Madre, “uno a cui piace pescare, ma deve scrivere”. Nina fuggirà dai paesi sul lago, andrà in città dietro al suo mito e tornerà bruciata, con il ricordo di un figlio morto piccolissimo, una carriera abortita e una consapevolezza bruciante: “Adesso so che l’importante non è la gloria, non il successo, ma saper soffrire, respirare, sudare”. Nina è Petra Valentini, morbida, febbrile, illuminata dalla giovinezza e poi disincantata; il Romanziere è Roberto Latini, distante come un dio arrivato e annoiato. Con loro, tutti efficacissimi, ora svagati, ora consunti, ora incalzanti, ora sfiniti dalla delusione, Nicola Pannelli, Zio, “uno che voleva essere, ma non è stato”; Marco Quaglia, Dottore, “uno sazio della vita”; Camilla Semino Favro, Vicina, “una che porta prugne e il lutto per la sua vita”; Cristian Zandonella, Maestro, “uno a cui tocca camminare”. 

In queste caratterizzazioni sta la trama e si scorge il modo in cui Liv Ferracchiati ha avvicinato a noi il testo di Čechov, un lavoro che si presta benissimo a interpretare i nostri anni di vite incerte e spesso sprecate, tanto che molte sono state, in tempi abbastanza recenti, le interpretazioni che ce lo hanno avvicinato, da quella del 2003 di Arpad Schilling, con gli attori in jeans a stretto contatto con pochi spettatori, a quella recente, intensissima, di Leonardo Lidi, tutta rivolta in modo frontale al pubblico-lago.

Nella messinscena di questo nuovo testo di Liv Ferracchiati diventano coprotagonisti lo spazio, specchio e pozzo dei movimenti d’anima dei personaggi (scene di Giuseppe Stellato), e l’alternanza tra luce e buio (luci di Emiliano Austeri), tra socialità e intimità o solitudine dolorante. Inizialmente il lago appare mobile e luccicante con le sue acque sullo sfondo, avvolto dai colori del tramonto, mentre la casa disegna una cucina stanza da pranzo e studio di grandi dimensioni. Poi si cancella la mobilità dell’acqua e lo sfondo diventa soprattutto una vetrata sul buio, oltre la quale sappiamo esserci il mobile elemento: e ciò avviene quando entriamo nel dramma dei desideri che non riescono a incrociarsi, dei fallimenti, dell’impossibilità, per il Figlio, di farsi riconoscere come scrittore. Questo è uno dei nodi: l’avanguardia, la ricerca, la sperimentazione di strade nuove, per un’arte legata alla vita, capace di cambiare la vita, implica una devozione assoluta, un investimento totale, come ben sappiamo dalla vicenda di tanti nostri artisti radicali. Il naufragare di queste aspirazioni di fronte a un sistema conservatore, insensibile, attaccato ai propri privilegi e alle proprie consuetudini rovina le vite. E qui lo scontro tra vecchio e nuovo è incarnato, in modo ancora più lacerante, in una Madre e nel Figlio (con un ruolo secondario affidato al Romanziere). Il giovane, dopo l’insuccesso del suo testo visionario, implora e minaccia, prima di strappare i fogli dei propri scritti: “ti faccio paura, mamma? / ho bisogno di pace /della tua placenta / solo un istante mamma / fammi entrare / come se mi risucchiassi / nuotare nella tua placenta / rosicchiare il tuo utero / le tue viscere come casa\”.

Nel finale i mobili vengono portati via e rimane solo un piccolo tavolo scrittoio lontano di fronte al fondale, nel semibuio., mentre i personaggi si ritrovano dopo alcuni anni dispersi in quello spaqzio ampio di naufragi. Il lago scompare del tutto e la scena si sfonda, riservando un bianco abbagliante all’ultimo incontro tra Nina e il Figlio, nel luogo dell’impossibilità dell’amore e del cambiamento, con un monologo finale rivolto alla madre del ragazzo rimasto solo, ancora con parole di preghiera e di strazio, fino a uno sparo nel buio.

Uno spettacolo bellissimo, in scena fino al 25 febbraio a Milano.

Le fotografie sono di Masiar Pasquali

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