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Nello specchio del teatro “politico” di Scarpellini

Chiaroscurale, il teatro “politico” di Attilio Scarpellini

Non è teatro politico, quello delle “cinque fughe teatrali” di Attilio Scarpellini. O meglio, non è solo teatro politico, quello di Storie, finzioni, pubblicato da hopelfulmonster editore nella collana “La stanza del mondo” con la prefazione di Graziano Graziani. Sono domande rivolte alla Storia, per implicarci di più in questioni che si riflettono sul nostro presente, forse sulle nostre opzioni e azioni, se crediamo (e non possiamo esserne sicuri) che le vicende del passato possano insegnarci qualcosa, evitarci qualche sbaglio, qualche ulteriore drammatica finzione. 

Quelle dello scrittore e critico romano, voce antelucana di Radio 3 nella prima trasmissione del palinsesto, Qui comincia, sono cinque brevi pièce che hanno per protagonisti la regista del nazismo, amica di Hitler, Leni Riefenstahl; un tenente italiano  nell’Africa orientale al momento della capitolazione agli inglesi durante la Seconda guerra mondiale, Claudio S., che scopriremo avere lo stesso cognome dell’autore, Scarpellini; un commissario francese, un agente di origini algerine e un dimostrante nel maggio 1968 parigino; un terrorista, Hans Joachim Klein, uno dei primi dissociati, luogotenente del fantomatico Carlos; e infine Vladimir Putin o uno dei suoi sosia. 

Siamo in un clima differente da quello prettamente esistenziale, tinto dei colori di una possibile apocalisse vicina e del desiderio di annullamento di un altro testo di Scarpellini, Figlio di cane, incentrato su un incontro a un bar nel 1979 con Vladimir Slepian, imprendibile personaggio del milieu culturale parigino, ebreo nato a Praga, vissuto in Russia ed emigrato in Francia, pittore e clochard, autore di un unico racconto, Figlio di cane appunto (leggi qui). Là siamo di fronte a una minaccia e un desiderio di sparizione. In queste cinque pièce entriamo in nodi della storia che evocano la memoria, e il nostro rapporto, anche familiare, con essa e con i suoi orrori, con l’azione e con i suoi errori, con le falsificazioni, i travestimenti, le omissioni. Incontriamo il volto feroce del colonialismo e quello disprezzato o costretto del collaborazionismo; ci inoltriamo nella domanda su come un intero popolo possa aver creduto alla follia nazista; percorriamo le strade tortuose del sogno o dell’incubo dell’insurrezione armata nelle società avanzate e quelle dell’idea di rivoluzione e la risposta con la repressione, tracciando legami, rispecchiamenti, ribaltamenti con il passato della Resistenza; siamo circondati da un’aria di menzogna, di finzione, che raggiunge l’acme nell’ultima pièce, dove un attore che interpreta Putin si ritrova vittima delle parole che, sostituendo il presidente russo, lui ha pronunciato, colpito da un attentato.

Africa Orientale italiana

Siamo sempre sul confine tra la falsità e una verità difficile da discernere, in folgoranti riflessioni che in Diva ci portano nei rifiniti documentari della Riefenstahl, interpretati da bambine zingare destinate alla morte nei lager o da neri di una bellezza classica, considerati esseri inferiori. In Africa 1941 troviamo un ufficiale italiano in fuga, un sottoufficiale etiope al suo fianco, che ricorda gli orrori dei nostri connazionali, gli stupri, le spose bambine, i gas, e poi siamo sbalzati in tempi più vicini a noi, quando i figli dell’ufficiale, con le stesse iniziali dell’autore e di sua sorella, ritrovano la pistola del padre e si proiettano in lui o si distanziano dalla sua avventura e dal colonialismo. 

A maggio fa quel che ti pare ci porta in un commissariato parigino con uno studente fermato di fronte a un commissario reduce della Resistenza che, con agnizione da melò, in lui riconosce il figlio di un collaborazionista dei tempi del nazismo. Con loro troviamo un altro collaborazionista, algerino, cui i compatrioti hanno strappato la lingua per connivenza col nemico: egli alla fine giustizia il commissario, in una tensione sadomasochista continua, con torture e sopraffazioni che si accendono e si nutrono nel ricordo del passato. In Angie entriamo nelle tortuose strade del terrorismo: qui non si parla più di collaborazionismo ma di dissociazione, ancora una volta togliersi una maschera o indossarne altre. E si finisce con Passaggio all’atto, testo metateatrale che rievoca la retorica dell’“operazione militare speciale” russa, con una girandola di personaggi che, in modo diverso, ancora una volta giocano sul confine tra realtà e finzione e sugli esiti dei loro imprevedibili cortocircuiti.

Come nota Graziani, se questo è teatro politico è teatro politico chiaroscurale, che più che condannare o assolvere apre questioni lancianti, costringendo a guardare in specchi che rimandano dei personaggi (e di noi che in loro in qualche modo possiamo proiettarci) immagini non esaltanti. Il tutto è sviluppato in una forma essenziale, forse in certi momenti addirittura troppo scarna, come una raccolta di exempla, con illuminazioni e salti surreali che, senza dissolvere le inquietanti ombre evocate, provano ad accendere qualche barlume di consapevolezza, filosofica, storica, politica. Umana.

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