Due spettacoli di Fanny & Alexander a Bologna

Nella piccola sala nera del teatro delle Moline, prima dello spettacolo apro il quaderno per prendere qualche appunto. Spunta un’immagine di Kafka, il volto intenso con le grandi orecchie a punta (è il retro del biglietto del Museo Kafka di Praga). Lo scrittore praghese racconta l’oppressione, fisica, ma soprattutto mentale e psichica dell’uomo e dei sistemi che crea sull’altro uomo. Qui siamo in un altro tipo di oscurità. Manson di Fanny & Alexander, drammaturgia di Chiara Lagani, regia di Luigi Noah De Angelis, ci presenta, con l’interpretazione intenta di Andrea Argentieri, Charles Manson, il mandante della strage attuata nella casa del regista Roman Polanski in cui persero la vita la sua giovane moglie Sharon Tate, incinta, e altri ragazzi, assassinati dagli adepti di un criminale che si definiva Satana.

Il buio si fa più denso, si riempie di suoni striduli, di rumori, di grida, di colpi. Sul fondo lampeggiano scritte che annunciano saremo di fronte alla vera storia di Manson: niente invenzione, tutto quello che sentiremo viene da sue dichiarazioni, risposte a interrogatori, interviste. Tutta VERITÀ. E noi aiuteremo a rivelare quella personalità disturbata: all’ingresso abbiamo ricevuto un foglio con numerose domande e una matita; dobbiamo chiedere, segnare le domande via via che vengono enunciate, per non ripetere mai la stessa. Le risposte sono appunto frasi di Manson: l’attore parla in inglese e noi possiamo seguire la traduzione grazie a proiezioni, mentre l’interprete diventa medium, si fa trasportare nella personalità esagitata, infuriata, ipercinetica fino all’epilessia, diabolicamente insinuante del criminale accusato di plagio, manipolazione, dominio sugli esecutori materiali della strage.

Manson, ph. Luigi Noah De Angelis

A poco a poco dalle risposte ne ricostruiamo la personalità: figlio di una prostituta sedicenne, cresciuto sulla strada, è sempre stato un emarginato che ha cercato di emergere dai bordi più infimi della società inventandosi come santone maledetto, giocando con le personalità di altri giovani, fragili, insoddisfatti, in cerca di esperienze che li facessero consistere. A un certo punto inizia a ripetere: io vi chiedo perché lavorare, a me bastano una moto e qualche ragazza, e voi, voi, non vedete il mondo che vi circonda, tutto l’orrore avviene nel vostro mondo di lavoro e normalità, dentro di voi, io sono uno specchio, io sono dentro di voi; il delitto, la manipolazione sono del vostro mondo, non del mio cerchio. Follia? Sì, ma con metodo; un metodo che peraltro mette a nudo in modo estremo caratteristiche del rifiuto hippie di quegli anni. 

Lo spettacolo si dichiara un’indagine sul male, ma è un male, appunto, molto differente da quello della macchina della tortura sociale che disegnava Kafka. Il Male qui proietta l’insoddisfazione sociale, l’emarginazione, in quella forma di delirio di onnipotenza che è il narcisismo, affezione (malattia e passione) del nuovo secolo, il nostro. 

Lo spettacolo più che colpo emotivo allo spettatore, con quella forma della domanda che produce testimonianza e scatenamento fisico dell’attore, mediato (straniato) dalla proiezione della traduzione, è una seduta di analisi che diventa autoanalisi, con quell’invito e accusa continua ai “normali” di guardarsi nelle profondità dello specchio.

Maternità, ph. Asia Ludovica Serpe

Un dispositivo analogo ritroviamo, nella sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole (siamo sempre in casa Emilia Romagna Teatro), in Maternità, dal romanzo di Sheila Heti (Sellerio), in scena Chiara Lagani, con la regia sempre di De Angelis. Qui una donna racconta il proprio rapporto difficile con la maternità, esplora casi di amiche, di madri, sogni e paure di donne, chiedendosi se i figli “si hanno” o “si fanno”, evoca la lotta di Giacobbe con l’angelo e molto altro, affrontando temi difficili, proiettandosi nel desiderio e nel rimpianto. Ma anche qui ogni snodo narrativo è determinato anche dal pubblico, che con un piccolo telecomando risponde a domande indirizzando, a seconda dell’opzione più gradita, i successivi passaggi narrativi. Per esempio: cosa conta di più per una donna, l’amicizia, il sesso, l’arte, l’educazione dei figli?

Anche qui, la scena è essenzialissima: solo pochi oggetti, un paio di forbici, un coltello e poi, in tutta la parte finale, una scavatrice giocattolo in proscenio, segno di un’assenza. L’attrice qui non si slancia in movimenti convulsi; il suo parlare è piano, discorsivo, e si accende di tanto in tanto in proiezioni oniriche (segnate da cambi di luce), per poi riportarci in terra, a definire il significato di cucciolo per esempio, di donna o di cane, e se viene scelto cane si chiede cosa farsene poi dei cuccioli, regalarli, venderli, affogarli… Oppure interroga sulla sovrappopolazione del mondo e sull’opportunità di generare ancora, o sull’impoverimento demografico italiano e su molto altro ancora.

Mette in scena dubbi – e non a caso la forma è quella della domanda e del sondaggio – e ci mostra, nel continuo coitus interruptus della storia, raffreddata dal meccanismo dell’indagine statistica, quell’intero cosmo che è il rapporto della donna con la scelta difficile o entusiasmante della maternità. Lasciando alla fine un’idea di desiderio montante raffreddato da mille pensieri e ostacoli, che trova le consolazioni dell’immaginazione, dell’incontro con una sensitiva o del dilagare inarrestabile di derive oniriche, di immagini e voci infantili che riemergono di continuo dalla crosta ragionevole della vita quotidiana.

Alla fine dello spettacolo l’attrice incontra scrittrici per discutere dei temi caldi che hanno affollato poco prima la scena. 

Maternità, ph. Asia Ludovica Serpe

Entrambi gli spettacoli fanno di tutto per non trascinare dentro lo spettatore: entrambi provano a coinvolgerlo in un altro modo, analitico, che spesso allontana, interrompe quel fluido che secondo alcuni dovrebbe dalla scena rapire il pubblico. Entrambi sono sfide alla nostra intelligenza, come capacità di problematizzare le realtà dell’esistenza.

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