La tragedia greca è un oggetto lontano, difficile da interpretare, da far rivivere. Dal Novecento in poi l’abbiamo vista affidata agli strepiti e ai soffi dei mattatori, in interpretazioni ruggenti, patetiche, empatiche, che facevano presto a diventare enfatiche. L’abbiamo vista politicizzata, come nell’Antigone di Brecht e del Living, come nell’Orestea di Peter Stein, o borghesizzata, analizzata e distanziata, come in Ronconi, trasformata in vertiginosi giochi teatrali come in Santa estasi di Latella, svuotata dei furori e introiettata nella quotidianità o spinta verso l’analisi strutturale. Edipo, poi, è diventato sinonimo del famoso complesso enunciato da Freud, demolito da grecisti antropologi come Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet nel saggio Edipo senza complesso.
Andrea De Rosa, nel riprendere per Torino Piemonte Europa l’Edipo re allestito l’anno scorso (ma lo spettacolo è in tournée quest’anno, in questi giorni), ne affida la traduzione e una discreta riscrittura a Fabrizio Sinisi, il nostro drammaturgo più acuminato e capace di densità stilistiche e interpretative.

Ne sortisce uno spettacolo nuovo, veloce (settanta minuti) in cui Edipo non si presenta come il tyrannos, sicuro di sé all’inizio, che sarà lentamente smontato nel corso dell’azione dalla scoperta di essere l’impuro, l’assassino del padre e lo sposo della madre, il violatore del tabù primigenio, il capro espiatorio da espellere per salvare la comunità.
Qui tutto dipende, più ancora che nell’originale, da Apollo: Tiresia e i vari messaggeri di sventura, quelli che permettono l’agnizione della colpa del re e sostanzialmente la sua identificazione col suo proprio vero sé, sono affidati a un unico attore e resi controfigure di Apollo, quel dio che non è solo il luminoso ma è anche il Lossia, l’ambiguo, l’arciere della peste, il figlio della lupa, il simile alla notte, a ricordarci che la conquista della razionalità per i Greci si svolge sull’orlo di un burrone di tenebre, di orrore, dove sempre è possibile precipitare, come bene avevano intuito i poco olimpici Hölderlin, il visionario, il pazzo, e il Nietzsche, cantore dello sforzo di portare le forze cupe verso la dimensione estetica alle fondamenta della tragedia.

L’oscurità del rovistare nei meandri più misteriosi del sé è allora la cifra dello spettacolo. Edipo e Giocasta sono già spersi dentro l’orrore della peste all’inizio, mentre due donne sostituiscono il coro, con parole ma soprattutto con lamenti di uccelli feriti in volo.
A poco servono a mascherare la verità i lustrini dell’abito e il glamour impacciato di una Giocasta dall’incongruo accento francese (costumi di Graziella Pepe), mentre il suo sposo e ancora incognito figlio si contorce verso l’inevitabile scoperta della propria, inconsapevole colpa. Tiresia e i messaggeri diventano voci di quell’ambiguo dio, che promette e tradisce, che mette di fronte alle crudità della vita. Mentre Edipo (Marco Foschi) si esplora interiormente e si contorce, fino a un finale in cui i toni enfatici vincono sul pulsare empatico, coinvolgente (trionfo della tragedia e dei suoi stilemi, per abbandono alla tradizione interpretativa, per destino quasi, come per Edipo?); mentre Giocasta (Frédérique Loliée) si perde smarrita fino alla scena del suicidio; mentre quello che resta del coro ci mette come di fronte al correlativo oggettivo del dolore stigmatizzato in vocalità laceranti e strida di avvoltoi (Francesca Cutolo, ma soprattutto Francesca Della Monica, maestra di voci e suoni, che richiama la lezione di Gabriella Bartolomei), spiccano nel suo dire senza inflessioni il Tiresia e i messaggeri interpretati da Roberto Latini, voce profonda della terra e del destino, Apollo, l’oscuro luminoso, il vivificatore distruttore.

Tutta la tragedia si svolge in una scena (di Daniele Spanò) piena di ombre, illuminata (o meglio oscurata) in modo espressionista da Pasquale Mari, tra trasparenze di lastre di plexiglas che rivelano e celano (per esempio gli occhi di Tiresia e il volto dei messaggeri) e sfondi che richiamano latomie, fenditure oscure nella roccia, prigioni, o metalli luminosi e abrasivi, quelli di cui sono fatte le armi che tolgono ragione, luce, vita.
Spettacolo visto all’Arena del Sole di Bologna; in tournée al teatro Bellini di Napoli (5-16 febbraio), al Piccinni di Bari (20-23 febbraio), a Lugano (25-26 febbraio)a Carrara (1-2 marzo) al vascello di Roma (4-9 marzo)
Le fotografie sono di Andrea Macchia