Casa del popolo – il romanzo

Brulicano vari mondi nei verbali che si succedono per cento anni in Casa del popolo di Nicola Bonazzi, nel 2021 romanzo vincitore del premio intitolato alla memoria di quello scrittore ironico, attento a mille umori, che fu Luigi Malerba. Bonazzi ci porta nella storia di una casa del popolo emiliana, dove concentra tutti i tipi di un paese, ma anche una belala parte di storia del 900. 

Nato per il rimpianto di dover rinunciare a molti dei materiali raccolti nelle interviste realizzate per l’omonimo spettacolo del Teatro dell’Argine, assume rispetto a quello una propria autonoma fisionomia. Vediamo riempirsi la scena, da quel gennaio 1921: ci sono il verbalizzante, che è uno dei pochi che sa scrivere, in un italiano molto parlato, con slittamenti dialettali; il presidente, un logorroico, retorico medico condotto. Poi Etilico, e il nome dice tutto, sua moglie Speranzosa, timorata di Dio e disperata per il consorte, Delmo, il mattonzolo del luogo, la Sboldrona, che riscalda i cuori e non solo quelli di tutti i maschi della zona, Catuvèn, ossia portafoglio, e molti altri. 

Fondata la casa, bisogna trovargli un luogo e bisogna trovargli una ragione sociale. E qui il romanzo si fa polifonia, spesso sghemba, con le proposte, le interpretazioni, le suggestioni più svariate, che disegnano un universo di umori, di esperienze di vita, di voglia di divertirsi, di posizioni ideologiche: insomma una piazza di cervelli ognuno con i propri tic, le proprie propensioni, che però in quel 1921, lo stesso anno della fondazione del Partito comunista d’Italia, combuttano per un’impresa collettiva, smorzando per quanto possibile, dopo incredibili crescendo umoristici, le troppo personali idiosincrasie. 

Si inizia in osteria, con ritardo perché è prima ci si abbandona ai piaceri del luogo, e poi si costruisce la casa comune: ma l’edifico risulta strano, con una a porta che non si riesce ad aprire, cementificata forse, con la necessità di entrare, uscire o scappare dalle finestre.

Intanto la storia avanza, e in certi momenti travolge, con i mazzieri fascisti, le guerre di conquista, la guerra mondiale, i bombardamenti. Il nostro popolo è sempre più smarrito, asserragliato nella casa senza porta, nascosto in cantina, con qualcuno che raggiunge i partigiani in montagna e con tutti che, sempre, desiderano la Sboldorna. 

Poi arriva la liberazione, l’Italia si ricostruisce, intorno alla casupola di incerta fattura crescono i palazzi. E là dentro si finisce per giocare a tombolo, impegnarsi nei corsi di tango e nei balli di gruppo, bere e giocare a carte, sempre.

Tra un salto temporale e l’altro si aprono scene lunari, sul guardare lontano, sul cercare un orizzonte diverso da quello cui sono incollati, con la miseria e con le loro piccole personalità, le figura che popolano questo romanzo padano, straripante di comicità, di corpi, di desideri e di scontri con la realtà, piccola come quella del paese o grande come quella della storia che travolge. Passano le generazioni, quella bella ragazza che se la fa con l’ufficiale inglese è la figlia di una bella ragazza di qualche decennio fa, e poi diventerà madre e nonna di qualche altra bella ragazza. Intanto non si cessa di cercare orizzonti che mai si raggiungono, mentre i verbali si fanno più secchi, veloci, imprecisi, balbettanti. E la casa del popolo, come quell’idea di popolo, si dissolve, in un delirio di egotismi che fa perdere i sopravvissuti in metaforiche nebbie.

Il romanzo leggetelo: vi prende, vi rapisce, vi fa sorridere e ridere fragorosamente, vi fa pensare. E intanto snocciola, con densa leggerezza, la nostra storia di un secolo intero. 

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