Gli spettacoli di Massimiliano Civica si svolgono spesso in un riquadro ben illuminato, circondato da una zona di buio dove stazionano gli attori che non sono in azione. Le scene sono austere, quasi inesistenti: pochi oggetti, una o due sedie e un tappeto qui, un tavolo in altri casi. La recitazione rifugge, di solito, gli effetti teatrali per concentrarsi in scarna essenzialità, che cerca di arrivare all’essenza delle relazioni e dei contrasti, riaiutando ogni inutile effetto spettacolare. Non fa eccezione a questo schema, di volta in volta irrorato di linfe diverse, La stoffa dei sogni, in scena fino al 29 al Metastasio di Prato e poi dal 2 al 5 febbraio al teatro Astra di Torino, e dal 7 al 12 all’India di Roma (produzione Metastasio).
Il testo, come altri messi in scena dal regista, è dovuto alla mano, allo stesso tempo leggera e incisiva, di Armando Pirozzi. Racconta una tesa notte in cui un padre attore va a visitare una figlia, ormai adulta, che ha abbandonato per seguire la sua arte quando quella era alle soglie dell’adolescenza. Con lui, nel corso della notte, appare un attore più giovane che lo considera suo maestro, quasi un padre. Carmine, l’attor vecchio, recita in continuazione, tra il clownesco e lo shakespeariano, e cerca di rimediare, goffamente, a un incidente che ha coinvolto il nipote adolescente e messo alle prove le finanze della figlia. Ma Barbara, la ragazza, si rivela una spettatrice impermeabile, secca, fredda, che ritiene il padre un guitto, un pagliaccio, e non gli lascia mai la possibilità di penetrare il muro che erige tra loro due. Con lei la sua recita non funziona. Diverso è l’atteggiamento di Rocco, l’attor giovane, affascinato dal carisma scenico dell’uomo, pronto a fare tutto per lui.
L’azione si svolge con molti depistaggi, che confondono realtà e finzione deliberata, o illusione di credere che la realtà sia in un modo piuttosto che in un altro. Gli attori, in questa veglia spinosa e alcolica, escono a volte di scena, a parte Carmine, e si rifugiano in quel contorno che ci sembra simile a una zona d’ombra psichica. Le molte recite dell’attore, comico, roboante, disarmato, patetico, simpatico, deduttivo, inefficace, saranno un tentativo continuo di ritrovare il tempo perduto, un mettersi in scena per farsi guardare dentro, per colmare a modo suo l’assenza di anni. Dal buio del ripostiglio delle tensioni degli affetti, dal rigoglioso moltiplicarsi della teatralità, dalla scoperta di quel nuovo figlio che fa da rivale a Barbara, dall’oltranzismo di una scelta, quella per l’arte, che ha sacrificato una parte di vita, alla fine si arriverà a uno scioglimento delle tensioni, a un’erompere del magma represso per anni, sciolto con un pianto e un abbraccio, semplicemente umano, commovente. Assai commovente, come un incontrarsi per provare non solo a superare le tensioni, ma per ritrovare nuovamente l’altro (l’altra) e sé stessi.
Una trama così sottile, in fondo, in cui la passione teatrale diventa anche metafora di scelte assolute che bruciano e trasportano, ha bisogno di interpreti capaci di modulazioni sottilissime e magistrali: al centro della scena c’è quel mago che è Renato Carpentieri, un Carmine che, senza mai strafare, fa sussultare, con ogni suo moto e invenzione, la sala. Una meravigliosa scoperta è la giovane, secca, respingente come il copione richiede, Maria Vittoria Argenti. Con loro, a fare da sensibile ago della bilancia, Vincenzo Abbate. Con il disegno luci di Massimo Galardini, il suono di Daniele Santi, gli oggetti di scena di Enrico Capecchi e Loris Giancola, i costumi di Daniela Salernitano.