Due. La seconda occasione. Trovare un altro, rompere la solitudine in due. Due che non si capiscono. Due che si tradiscono. Cercare un “due”, per ricominciare.
È difficilissimo scrivere di Capitolo Due di Neil Simon, nella traduzione e versione scenica di Massimiliano Civica, una produzione del Metastasio di Prato, in scena al teatro Fabbricone fino a domenica 26 gennaio. Perché, come ha scritto Attilio Scarpellini su doppiozero (leggi qui), è uno “spettacolo perfetto”. Ed è difficile spremere da quello spettacolo perfetto più di quanto non abbia tratto Scarpellini in quella recensione perfetta.
Allora vado avanti per sprazzi. Al protagonista, uno scrittore, George, è morta la moglie. Un fratello, Leo, più esperto di vita e di amori, traditore seriale della moglie, cerca di rimetterlo in sesto. Ma è il caso ad aprire una nuova vita: George vorrebbe telefonare a un’anziana bibliotecaria, ma sul retro del foglietto col numero il fratello ha segnato il telefono di una sua amica appena divorziata. E George scambierà i numeri. In uno degli splendidi dialoghi al telefono del mago della commedia brillante americana (A piedi nudi nel parco, La strana coppia) lo scrittore e Jennifer decidono di lasciarsi intrappolare da quel caso (o destino, se volete chiamarlo così) e di incontrarsi. E l’incontro sarà fulminante: nel giro di due settimane, non senza i dubbi del fratello esperto del mondo e dell’amica Faye, i due si sposano e partono per la luna di miele. Sarà un disastro: si sa che per allontanare l’influenza dei morti bisogna sacrificare qualcuno o qualcosa, e sembra che i due vogliano sacrificare quel loro fuoco d’amore. Intanto l’amica Faye tradisce il marito con Leo, pensando possa scatenarsi l’amore, per scoprire che lui è un adultero infinito e per essere sorpresi da Jennie nella sua casa, che ha lasciato a disposizione di Faye.

Questa la trama. Ma raccontata la storia, sottolineato il fulgore dei dialoghi, manca quasi tutto. Manca il senso di incertezza, di paura della vita, sia di George che di Jennie, bloccati in figure rigide, impaurite, bruciate da vuoti (la moglie morta, il marito da cui si è separata lei dopo anni di freddezza); e, di contro, la ribalda sfrontatezza di Leo, gli slanci e i dubbi di Faye.
Manca lo spazio, duplice, a vista, disegnato da Luca Baldini: due divani accostati, due telefoni, uno bianco uno rosso, due tavolini. I personaggi si parlano da lontano e sono seduti a fianco, separati da muri e strade invisibili. Entrano in scena seguendo rotte bizzarre, senza mai naturalisticamente puntare al luogo d’arrivo, strade tanto geometriche da sembrare labirintiche (cosa sono i sentimenti se non percorsi intricati, con Minotauri in agguato?). Si lasciano andare a entusiasmi da bambini, pugni agitati freneticamente, gambette sollevate per dare baci. Due: la vicinanza che è distanza, l’intreccio difficile di vite che basterebbe un nulla per sovrapporre, per far combaciare.

Amore dominato dal senso della morte, ma soprattutto dalla sensazione dell’inutilità, dello spreco che apre voragini.
Manca, inoltre, dalla trama, la grana degli attori. Strepitosi. Irrigiditi ad arte nei costumi quotidiani di Daniela Salernitano, per mostrare una riottosità alla vita, un’inedia spirituale, soprattutto George (Aldo Ottobrino) e Jennie (Maria Vittoria Argenti); irruente il Leo di Francesco Rotelli, “scafato”, capace di rimetter in moto quelle bambole rotte, trasformandosi nella rete che spinge e cattura detta destino. Corazzata la Faye di Ilaria, all’inizio, per rivelarsi fragile, romantica.
E manca il gran finale, alla trama, al copione, e questa è grande invenzione di regia, che fa di questo spettacolo un capolavoro. George e Jennie sono vicini, ognuno sul proprio divanetto: dopo aver provato a separarsi hanno capito che non possono vivere l’uno senza l’altra e l’altra senza l’uno. Due. Stanno nelle loro case, sui loro divani, parlandosi al telefono, ma questa volta tenendosi per mano, oltre quell’invisibile muro che li separa. E parte una musica, nota, stranota, famosa, arcifamosa, che ha visto sognare generazioni, nei salotti con una chitarra, o su cento spiagge.
Dove vai quando poi resti sola?
Il ricordo, come sai, non consola
Quando lei se ne andò, per esempio
Trasformai la mia casa in un tempio
[…]
Come può uno scoglio
Arginare il mare
Anche se non voglio
Torno già a volare
Le distese azzurre
E le verdi terre
Le discese ardite
E le risalite
Su nel cielo aperto
E poi giù il deserto
E poi ancora in alto
Con un grande salto…
Tutta, tutta, con quel recitativo, il “ponte”, il ritornello, la dolcezza, l’amarezza, la nostalgia degli amori perduti o ritrovati di ognuno degli spettatori. Intanto i due sono fermi, commoventi, e la luce, del mago Gianni Staropoli, una bolla su loro due che si tengono per mano, lentamente, molto lentamente, lentissimamente, impercettibilmente cala.

Le foto sono di Duccio Burberi