(Testo di un intervento al convegno Ripensare Grotowski, tenutosi presso l’Università di Lecce dall’1 al 5 ottobre 2025)
Come la critica giornalistica accoglie Grotowski, nel 1967 a Spoleto, alla sua prima apparizione italiana, con la rappresentazione del Principe costante? Come continua a seguirlo? Ho scelto il metodo dei «carotaggi», ossia il prelevamento di campioni di materiale per definire la natura di un suolo, ovvero il raschiamento di piccole porzioni di intonaco in una sala per verificare la presenza di affreschi.
Ho scelto scritti di critici con diverse ispirazioni, che conoscevo e che avevano raccolto le loro recensioni in libri, dando quindi una veste meno occasionale, più memorabile, ai loro interventi di cronaca.
Parto con quello che è stato nel dopoguerra un decano della critica, Roberto De Monticelli, ancora non approdato al «Corriere della Sera», ma cronista teatrale per «Il Giorno», il nuovo quotidiano voce dell’Italia in trasformazione industriale voluto da Enrico Mattei. Il titolo è già significativo: Sospesi sulla fossa dei serpenti per 60 minuti[1].
In un salone del Teatro Nuovo, su al terzo piano, in un salone chiuso a chiave dal di dentro nel momento in cui lo spettacolo si inizia (chi c’è, c’è; peggio per chi arriva tardi, la porta non si aprirà) uno steccato di legno marrone, alto un paio di metri, che delimita uno spazio rettangolare, un’arena, una fossa, un pozzo? In questo spazio è posata una bassa tavola, che può essere insieme un’asse per la tortura e la superficie inclinata d’un catafalco. È l’unico elemento scenico. Gli spettatori, seduti su panche, si affacciano all’orlo dello steccato e guardano giù. Entrano quattro persone, due uomini e due donne, con toghe e stivali. Una delle due donne ha la cascata dei capelli rovesciata sul volto che non le vedremo mai per i quasi sessanta minuti che lo spettacolo dura. Uno degli uomini porta in testa la corona. Trascinano un prigioniero vestito solo d’una camicia bianca e d’un paio di braghette dello stesso colore. Lo stendono sulla tavola e cominciano a torturarlo. Ogni gesto risponde ai termini di un rituale preciso, calcolato al millimetro.
[…]
Abbiamo sommariamente accennato al tema dello spettacolo presentato al festival di Spoleto dal Teatro-Laboratorio di Wroclaw, diretto da Jerzy Grotowski, spettacolo tratto dal Principe Costante di Calderon de la Barca, secondo l’adattamento del poeta polacco I. Slovacki esponente del romanticismo ottocentesco. È un testo popolarissimo in Polonia. Grotowski lo conosce a memoria dagli anni dell’infanzia. Ed è un peccato che, a integrare le forti sensazioni provocate in noi da questa rappresentazione, non possiamo parlare del testo, che qui ha un’importanza notevolissima, come afferma lo stesso Grotowski, a riprova del fatto che il teatro non sarà mai puro e semplice gesto ma avrà sempre bisogno della parola (e della parola significante).
[…]
Ritorneremo su questo spettacolo perché ne vale davvero la pena ma intanto dovremo almeno registrarne la suggestione fisica, così lanciante da suscitare quasi una nausea; nausea purificatrice, moderna versione della catarsi posta al culmine della tragedia greca. Seduto sulle nude panche, i gomiti appoggiati sull’orlo dello steccato, lo sguardo affondato nel pozzo, in cui si agitano quei nudi maschili dilaniati fra le ombre ataviche della Prevaricazione e della Regola, lo spettatore non sa di sottoporsi a una seduta psicanalitica che lo sconvolge e lo libera. E le urla ritmate di Ryszard Cieslak, il protagonista, la vittima, che nudo lecca il pavimento dando il tempo, così, alla danza dei suoi carnefici, lo tirano giù, nel pozzo, con lui, col vincitore inerme, col trionfante San Sebastiano[2].
Elio Pagliarani, uno dei poeti del Gruppo 63, con una sensibilità per la ricerca e l’avanguardia, inizia così la sua critica:
Allora questo nostro corpo umano l’adoprano proprio come arpa, clavicembalo, strumento musicale donde cavano modulata in canto ogni piega della carne; allora del corpo umano fanno arte plastica e rassegna, corpo sofisticato e umbratile del Greco, corpo ottimo e nodoso del Cristo morto del Mantegna. Ciccia come sono bravi! (Anch’io però non ho scherzato mica tanto: si notino l’andamento sinuoso, le due coppie di qualificativi, la rima. Rimalmezzo? no, non rimalmezzo: peccato.) (Faccio lo spiritoso a buon mercato, e loro non lo meritano perché sono proprio bravi.)
Ma difettano di ironia, almeno nel Principe Costante (Calderón mediato dal romantico Slowacki): dove non mancano invece di sottolineare l’ambiguo, morbido rapporto sensuale che s’instaura, dicono, fra vittima e carnefice […][3].
Sembra forte un interesse, ma anche una certa presa di distanza, in questo caso rappresentata con il tono ironico e il virtuosismo verbale. Nel caso di De Monticelli con la segnalazione dello scandalo di essere chiusi nel teatro e con quello sporgersi da un luogo inusuale.
L’impressione è che almeno inizialmente non ci si interroghi sulla scelta della riformulazione dello spazio scenico, non la si consideri essenziale dal punto di vista estetico, etico, conoscitivo; che il tono diventi piccato per aver deviato dalle consuetudini teatrali.
Potrei citare moltissime cronache in cui si definisce Grotowski «santone», i suoi lavori mistici, con evidente presa di distanza da parte di un laicismo datato e scentrato. Poi gli sguardi agli spettacoli sono precisi, spesso acuti, e via via che è assorbita la sorpresa si faranno sempre più precisi e acuti; ma si avverte sempre un senso di imbarazzo per quel violare regole consolidate. Il teatro può essere un’avventura conoscitiva oltre le norme?
Per «Rinascita» più dialettico sembra l’approccio di Bruno Schacherl in La quinta parete di Grotowski:
[…] dopo la recente consacrazione del Théâtre des Nations, Spoleto gli ha consentito di presentare anche da noi un suo spettacolo, il Principe costante, e di scatenare su questo una discussione destinata certo a continuare a lungo per la vastità, la ricchezza, la complessità, delle questioni che coinvolge, ma anche per la profonda suggestione che la sua creazione esercita sugli spettatori. Importante mi pare, però, che questa discussione non prenda le mosse dalla teoria, che Grotowski e l’intelligente critico aggregato al suo gruppo, Ludwik Flaszen, sono capaci di alimentare con un fiume ininterrotto di acutissimi ragionamenti, ma dall’esperienza concreta dei suoi Teatro-laboratorio di Wroclaw e dei singoli spettacoli.
[…]
Ma il punto sta proprio qui. Che senso, che valore generale e di prospettiva ha un’operazione di questo genere, indubbiamente esemplare per l’alta lezione di stile, nel teatro contemporaneo? Grotowski, pur professandosi laico, teorizza il ruolo del teatro come una nostalgia del rito comunitario, un recupero di valori archetipi di fronte all’integrazione delle civiltà massificate, della violenza e dell’anonimità a cui queste costringono. Nello stesso tempo, però, con grande abilità inserisce questa sua «utopia» nelle teoriche più recenti, civettando con la «scientificità» del mondo con cui quel recupero viene perseguito, con riferimenti all’interdisciplinarietà tra teatro, psicanalisi, sociologia, antropologia culturale, ecc. C’è qui una contraddizione non sciolta i cui approdi artistici possono finire con l’essere – e talora infatti sono – tanto il barocco mistico ammantato di scientismo quanto, all’opposto, il naturalismo del voyeur – e poco importa se la quarta parete è diventata ormai la quinta. E più a fondo, a me pare che non basti contrapporre alla massificazione dei moderni mezzi di comunicazione una concezione del teatro fondata sulla nostalgia del rito – che è posizione tipica di molte correnti culturali d’oggi, meno ferrate e vistosamente teorizzabili di questa, ma non meno diffuse, che esprimono lo sgomento dell’uomo di fronte al rapido e talora mostruoso sviluppo della vita collettiva – laddove il ruolo del teatro potrebbe proprio essere non un ritorno alle origini ma una conquista di coscienza, di valori autonomi e nuovi fondati su una fiducia nella ragione, nella storia, nella libera scelta dell’uomo. Opporre alla massa «televisivizzata» il rito arcaico, può voler dire solo una reazione uguale e contraria, altrettanto irrazionale e apocalittica[4].
Qui approdiamo a una discussione mossa da un razionalismo che guarda a Brecht e che ugualmente oscura lo sguardo rispetto alla novità del teatro di Grotowski.
Meriterebbe un’altra sezione la descrizione del viaggio verso l’isola di San Giacomo in Palude, per la Biennale laboratorio del 1975. L’articolo di De Monticelli viene titolato (dalla redazione, probabilmente) Il santone Grotowski a lume di candela.
Riporto un pezzo di quella sua cronaca in punta di penna
Dopo la traversata sulla laguna, nella sera, il silenzio e il verde dell’isola di San Giacomo in palude. C’è un’aria di accesso a un rito segreto fin dal pontile di sbarco, minuzioso controllo di biglietti, consegnare borse e apparecchi fotografici. Si arriva a una bassa costruzione in muratura, grandi cartelli in tre lingue spiegano cosa dovrà fare, chi vorrà, per accedere agli stages grotowskiani che cominciano in ottobre. Qualcosa come: «Dicci, scrivendo, qualcosa di te dopo lo spettacolo: ne parleremo». Si entra in una stanza rettangolare, già una fila di spettatori è seduta in cerchio, intorno a uno spazio vuoto in cui giacciono, fingendo di dormire, sdraiati sul fianco o pancia a terra, quattro uomini e una donna. Mi tocca un posto in seconda fila, accanto a due riflettori posati sul pavimento, che proiettano una luce forte verso l’alto.
La gente scivola nella stanza a poco a poco, filtrata da un vaglio rigoroso e un po’ sospettoso. È intimidita e ferocemente curiosa, qualcuno è anche un po’ irritato per un cerimoniale che gli sembra eccessivo; e in fondo lo è. Siamo assai più dei cento eletti cui doveva essere riservata – secondo un annuncio dato dall’ufficio stampa di Grotowski – questa «prima» italiana di Apocalypsis cum figuris. Saremo centocinquanta, se non di più. Lui, il Santone o Stregone o Mago è seduto in prima fila, accanto alla porta che fronteggia quella d’ingresso. Ha il busto un po’ inclinato e quindi il volto proteso in vanti, il mento appoggiato sul palmo, l’indice sul labbro: sembra un simbolo figurato del Silenzio[5].
A questi «attacchi» effettistici, di colore, delle recensioni seguono in genere confronti accurati con l’opera. De Monticelli registra che «tutto ciò ha lasciato il pubblico freddo» e lo desume dal fatto che alla fine non ci sono stati applausi; eppure, ricorda che «in questo tipo di teatro gli applausi non usano». E chiude con un’ulteriore presa di distanza:
Dirò per concludere che, a parte l’interesse naturalmente connesso a questa testimonianza del «teatro povero» (anche se essa risulta datata: anzi, proprio per questo) alcune immagini dello spettacolo restano pur sempre. Ma il Principe costante, visto a Spoleto tanti anni fa, era indimenticabile tutto. Sinteticamente, la risposta critica è qui[6].
Tra i vari approfondimenti su Grotowski ne ricordo uno di Gerardo Guerrieri, scritto dopo stage del maestro polacco a Mirano e a Roma. È un vero e proprio ritratto dell’uomo Grotowski, che ne definisce la personalità. Egli ha ormai abbandonato la rappresentazione e viaggia verso i territori del Teatro delle sorgenti, del Performer, di Actions. L’interesse per la sua figura la vince sulle sue attività:
Su Jerrzy Grotowski mi racconta un suo amico d’infanzia.
La sua famiglia: nobili (cavalieri), rimonta a undici secoli fa. I suoi hanno partecipato a tutti i moti d’indipendenza della Polonia. Nel Settecento, con Kosciuszko, poi nell’Ottocento: fallita l’insurrezione hanno perduto terre e tutto. Costretti a emigrare dalla Polonia occupata dai russi a quella occupata dagli austriaci. Lì hanno cominciato a lavorare nell’università. Cioè si sono trasformati in «intellighenzia». ( Mi fa notare una cosa che a noi può sfuggire, la classe intellettuale, che in Francia per esempio nasce dal terzo stato, in Polonia è stata prodotta dalla nobiltà spossessata: è questa che diviene «intellighenzia». Questo illumina anche una certa «tradizione» di Grotowski).
Grotowski considera una fortuna che i suoi abbiano perduto la terra, perché questo l’ha liberato da ogni possibile cattiva coscienza verso il popolo, che la sua famiglia non ha sfruttato. La tradizione della sua famiglia è quella di uomini di cultura, professori e scienziati. Suo padre: si è battuto durante la prima guerra mondiale con Pilsudski, contro russi e tedeschi; nazionalista fervente senza essere sciovinista; nella seconda guerra mondiale è fuggito da un campo di concentramento tedesco, ha raggiunto l’esercito della resistenza, alla fine della guerra non ha voluto tornare in Polonia a causa del sistema politico. È emigrato in Paraguay in pieno dissido con Jerzy, entrato giovanissimo nel partito: lo considerava un reprobo, un traditore, un agente bolscevico che distruggeva le tradizioni familiari. Ma sei mesi prima di morire, a 68 anni, gli invia una lettera in cui riconosce che è lui, Jerzy, il vero erede della tradizione familiare. E sua madre? Non volle abbandonare la Polonia: sentì che il suo posto era lì: «Nonostante» ha detto Jerzy «volesse bene a mio padre». Fu una grande tragedia familiare[7].
Mi sembra che questi punti: la diffidenza per un’innovazione sentita come radicale; la curiosità che diventa attenzione per l’impatto suscitato dagli spettacoli; la discussione su irrazionalismo e misticismo; il ritratto del personaggio siano tra gli atteggiamenti prevalenti nei confronti di Grotowski.
Poi riscontriamo un’attenzione più profonda, soprattutto in studiosi di ambito universitario o in critici e altre personalità che abbiano profondamente condiviso parti di cammino con Grotowski (si veda per esempio lo scritto di Ugo Volli nel libro La quercia del Duca[8]). Un interesse che rinasce quando la casa Usher pubblica i quattro volumi dei suoi scritti, a cura di Carla Pollastrelli, come riscontriamo in un articolo firmato da Attilio Scarpellini per l’uscita del primo volume[9]. Ma ritroviamo pure un ritorno su alcuni caposaldi della sua opera da parte di studiosi che si cimentano con un ambito più divulgativo: Antonio Attisani su «Doppiozero», in Rileggere Jerzy Grotowski[10] ripubblica, con un commento, Il Performer, sottolineando come «il Performer è testo, a mio parere, da riproporre periodicamente all’attenzione di chi non lo conosce», con l’aggiunta: «Penso a una lettura individuale, in qualche modo intima. Il breve commento finale è dunque del tutto facoltativo e da intendersi non come lettura esaustiva di questo documento monumentale, bensì come la sottolineatura di un suo solo aspetto: l’invito a un lavoro su sé stessi per superare il principale dualismo che ci affligge e il possibile svolgersi di questo lavoro nel campo dell’arte e del rituale».
Chiudo con le parole dell’uomo di teatro polacco, consegnate da uno degli ultimi suoi incontri pubblici, tenuto al Teatro Ridotto di Bologna nel novembre del 1997, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Dams. Inizia così, rivolto al pubblico principalmente di studenti:
«Dovete stare molto attenti a ciò che per voi è una tentazione essenziale. Se scoprite quella tentazione, ed è una sola, dovete seguirla. E quando dico cercare la tentazione essenziale potrei dire in un’altra maniera: ciò che vi interessa talmente che vi divora». Seguire la propria necessità, dopo averla scoperta; un ricercare che è già realizzare, perché «quando si cerca si realizza; se non si realizza la ricerca è solo mentale»[11].
Dopo la proiezione di Akropolys Grotowski, stanco affaticato, chiede di fargli alcune domande:
Come reagiva il pubblico agli spettacoli? «C’era un enorme silenzio durante tutta l’azione. Un grande silenzio dopo. All’uscita gli spettatori non parlavano fra di loro, alcuni piangevano, altri erano immobili. In tutti i paesi erano toccati: specialmente in Polonia, dove le esperienze dei campi di sterminio erano vicine e dirette, ma anche altrove. Il Teatro Laboratorio non serviva miele, ma la verità. E questo è duro. Nessuno applaudiva alla fine degli spettacoli». Qualcuno chiede quanto i gesti fossero fissati o improvvisati: «Tutto era assolutamente fissato. Ma quando gli attori vogliono fissare qualcosa cercano di fermare la forma esteriore. Al Teatro Laboratorio abbiamo sempre fissato il processo vivo che porta alla forma».
Quando arrivano le domande dirette, le risposte rovesciano ogni attesa: «Con quali occhi vede ora un lavoro che ha creato quando aveva 29 anni?». «Con i vostri occhi». «Perché mostrare Akropolys ora che ha abbandonato il teatro di rappresentazione?». «Forse lei guarda il teatro come qualcosa di molto passeggero. Si pensa che il teatro duri solo oggi e non anche domani. Io credo che se il teatro arriva ad essere un atto creativo reale allora non ha importanza se è stato fatto 35 anni fa. L’opera rimane presente, come i libri di Dostoevskij, scritti nell’Ottocento. Penso che sia utile per voi vedere una ricerca rigorosa, strutturata e rendervi conto che è stata realizzata prima che molti di voi fossero nati. Buttate nella spazzatura le idee che etichettano. Dicevano sempre del Teatro Laboratorio: non è teatro. Perché non era il teatro che conoscevano. Dopo anni e anni siamo stati comunque accettati. E a quel punto ho detto: noi non facciamo più teatro»[12].
E conclude con un monologo finale:
«Non ho rinunciato a fare spettacoli. Ho rinunciato alla relazione attore-spettatore. Ma forse esistono altre relazioni altrettanto importanti. Quello che mi ha sempre interessato sono state le cose ignote. Quello che ora fa il Workcenter non è spettacolo, ma è qualcosa che appartiene al campo delle arti performative. Voglio darvi un consiglio: lasciate perdere il bisogno di comunicare. Avete davvero qualcosa di così importante da dire allo spettatore? Quello che potete scoprire è quello che sta nella sostanza della vostra vita. Prendiamo l’esempio di Dostoevskij: quali sono le idee che voleva comunicare? Il potere sacro dello zar, la superiorità della religione ortodossa, che polacchi ed ebrei sono orribili. Per fortuna quando ha scritto i suoi romanzi non ha comunicato: ha cercato e scoperto cosa c’era tra lui e gli altri, tra gli esseri umani, tra lui e Dio. Era un viaggio di discesa nel profondo e di ascesa verso qualcosa di molto alto.
Oggi tutti vogliono comunicare e nessuno vuole più ascoltare. Siamo pieni di profeti che camminano per le strade. E ogni volta che si compra un giornale o si accende la televisione viene da vomitare. Cercate di non comunicare. Cercate qualcosa di reale, che avete scoperto o che potete scoprire nella vostra vita. Qualcosa di doloroso, da coltivare dolcemente»[13].
E poi, il cronista di «Mattina», dorso emiliano-romagnolo dell’«Unità», assiste a Actions e ne viene rapito. Riporto solo il finale della cronaca:
Qualcosa dei flussi di energia che non sei riuscito, effettivamente, a misurare, ti accorgi che passa in te. E quando fuggono fuori di corsa, dopo altri canti, metamorfosi, figurazioni, non ti sei accorto neppure che è stata ancora evocata la fine e il principio, la morte sulla croce e l’acqua, e il movimento rigeneratore.
Dopo si parla, ancora, davanti al tavolo. Si chiarisce che alcuni portano avanti la ricerca dall’inizio, altri arrivano al Workcenter, fanno un loro percorso, poi partono e portano nel mondo qualcosa dell’esperienza. Si parla ancora di lavoro interno e di esibizione.
E forse qui sta la chiave, l’utopia, il negarsi e il donarsi perché lo sguardo si sposti dall’esterno incombente all’ascolto sottile degli dèi che ci agitano. Ma la testa è già fuori [dalla sala], in quella nebbia che dall’inizio sapevamo ci avrebbe accolto, gelida[14].
Concludo con alcuni pensieri sull’immagine di Grotowski, esposti in un’intervista alla rivista «Hystrio» dal fotografo Maurizio Buscarino, ripresa online in «Ateatro»[15].
Ha fotografato anche Grotowski. In particolare le ultime repliche di Apokalypsis cum figuris, nel 1979 a palazzo Reale a Milano, quando ormai era stato annunciato lo scioglimento del Teatro Laboratorio.
Hystrio – Come nacque quel servizio?
Maurizio Buscarino – Negli anni precedenti avevo cercato altre volte di fotografare il lavoro di Grotowski, ma mi era sempre stato impedito. Tutti parlavano del regista polacco come di un punto di riferimento fondamentale. Erano tempi in cui, dopo l’impegno politico, dopo altri percorsi e altre confusioni, mi ero dedicato a guardare il teatro con la macchina fotografica. Questa arte mi incuriosiva e, allo stesso tempo, mi appariva lontana, estranea. E l’estraneità mi affascinava, la cercavo. Grotowski appariva allora il massimo della diversità, dell’estraneità. Rappresentava per me il paradosso dell’essere umano che si mette a giocare, che invera la vita nel giocare.
[…]
Hy – Cosa ti attraeva di Grotowski?
M.B. – La povertà. Mi affascinava il concetto di teatro povero. Perciò ho tentato in varie occasioni di fotografarlo. Per esempio alla Biennale di Venezia del 1975. Lavorava all’isola di San Giacomo. C’era un temporale, avevo affittato una barca privata perché ero arrivato tardi agli appuntamenti dei battelli che portavano gli spettatori al luogo dello spettacolo. L’acqua schizzava dappertutto, tenevo le macchine sollevate per non bagnarle… Sono arrivato col buio e prima di entrare nel piccolo capannone dove si rappresentava lo spettacolo mi hanno obbligato a lasciare l’attrezzatura fotografica. In cambio mi hanno dato una mela, con cui ho convissuto tutta la notte. Lì ho visto Apokalypsis, arrabbiato, affamato, infreddolito. Ecco, l’estraneità diventava anche fisica. Ma, in fondo, la guardavo con grande interesse quella estraneità, la cercavo, perché mi consentiva di legittimare quello che facevo, delle fotografie, che provavano a fissare il gioco, il movimento di queste persone. Era come se le guardassi dall’esterno di una campana di vetro.
Hy- Come sei arrivato poi a fotografare Apokalypsis a Milano?
M.B. – È passato qualche anno. Mi hanno chiamato dal Crt chiedendomi se volevo documentare le ultime repliche dello spettacolo. Con il Teatro laboratorio non avevo contatti. Però ho saputo che erano stati loro a chiedere che li fotografassi io. Dovevo riprendere alcuni brani dello spettacolo durante una prova, fatta sostanzialmente per me. Quando sono arrivato, Cynkutis mi ha spiegato che dovevo rimanere fermo, seduto in un angolo, senza chiedere nulla, senza dire nulla e senza muovermi. Racconto tutto questo per spiegare l’aura che circondava Grotowski. Quest’aura mi intimoriva, ma anche mi proteggeva.
Hy – E come è andata?
M.B. – Ricordo che ho provato una forte delusione e preoccupazione per la luce. Tutto si svolgeva nella semioscurità, tranne all’inizio quando due proiettori antidiluviani erano puntati a bassa intensità contro una colonna bianca. Riflettevano una luce bassa sullo spazio scenico. Poi la scena continuava solo con l’illuminazione di candele. Tutto era molto scuro.
Hy- E come hai fatto?
M.B. – Un po’ me lo avevano preannunciato che le luci erano molto basse. Avevo letto di un obiettivo, con una luminosità pari quasi a quella dell’occhio umano, costruito dalla Canon per riprendere la scena illuminata solo dalle candele di Barry Lyndon di Kubrik. Ho chiamato la casa fotografica e sono riuscito a ottenerne uno, ancora in fase sperimentale, che ho testato in questo servizio. Poi ho dovuto tirare allo spasimo la pellicola in camera oscura. Ne sono usciti fuori brandelli di immagini. Ho sviluppato e stampato di notte senza dormire qualche fotografia e il giorno dopo sono tornato con alcune stampe. Cynkutis prende le immagini con un fare freddo e burocratico che mi ricordava i funzionari del partito, le guarda, mi chiede di aspettare e le porta in un’altra stanza, dove erano gli altri.
Hy – Con Grotowski quindi non avevi parlato?
M.B. – Ma no, l’ho solo intravisto nell’ombra. È presente in un paio di scatti, ma è molto scuro, molto nero. Insomma, li ho sentiti parlare dall’altra stanza, e come spesso succede con una lingua straniera che non conosci e un po’ ostica, mi sembrava che imprecassero. Poi è tornato Cynkutis e ha detto: “Il signor Grotowski guardando queste foto ha capito che lei è uno di noi. Se vuole, questa sera potrà fotografare lo spettacolo con il pubblico, muovendosi liberamente nella scena”. Puoi immaginare… Ma questa nuova libertà contraddiceva la mia necessità di distacco. Non ne ho approfittato: mi sono mosso molto cautamente dietro il pubblico, forse mi sono inoltrato in scena in un solo momento. Ero molto intimidito. Continuavo a non capire, come del resto non capivo lo spettacolo.
Hy- In che senso?
M.B. – Continuavo a non vedere l’Apocalisse di San Giovanni se non in una specie di grande disperazione da ultimo giorno di Cieslak, agita, vissuta fisicamente. Quello che mi interessava erano le figure delle persone, i passaggi che facevano, la stranezza di ciò che facevano. Per me la macchina fotografica è come uno straniero, un visitatore, un antropologo che osserva l’agire di un estraneo, di un’altra cultura: non ne capisce nulla ma ne viene affascinato. Ecco, questo era per me Apokalypsis e in generale il teatro.
[…]
Hy – Delle immagini scattate ad Apokalypsis cosa ne hai fatto?
M.B. – Ho consegnato alla compagnia dieci-dodici stampe 30X40. Da allora, loro non li ho più visti. Ho incontrato qualche volta Cieslak a Pontedera o Grotowski al festival di Santarcangelo, dove gli ho scattato una fotografia di profilo mentre era seduto a un tavolino di uno dei bar della piazza. Quei negativi non li ho più usati, se non per un paio di immagini inserite nei miei libri, quella iniziale di Cieslak accucciato contro la colonna e quella finale, quando lui è per terra e gli altri gli incombono sopra con le candele. Un paio di anni fa, poi, ho iniziato a lavorare con gli scanner per digitalizzare il mio archivio e un giorno sono arrivato al servizio su Apokalypsis. E ho visto che scansionando i negativi ottenevo risultati difficili da conseguire in camera oscura. A qualcuno del Centro Grotowski in Polonia è venuta l’idea di fare una mostra per il decennale della morte del regista: ho digitalizzato 180 immagini e ne ho stampate 70 dello spettacolo e altre di laboratori di Cieslak, ritratti di Grotowski, immagini dei laboratori di Elizabeth. Con questi materiali è stata composta l’esposizione che si fa a Wroclaw.
Hy – Che immagine dell’artista Grotowski, dell’uomo Grotowski, riemerge da questo tuo archivio?
M.B. – La mostra l’ho intitolata «Polvere». L’immagine dominante è proprio quella della polvere, di esperienze e persone lontane, esistenze scomparse, questi esseri umani che hanno vissuto, che io ho guardato, che ho cercato di fissare e che ora non ci sono più. In realtà questa sensazione la ho ogni volta che guardo il mio archivio.
Hy – Dopo, Grotowski devi averlo incontrato più da vicino, perché gli hai fatto alcuni ritratti…
M.B. – Sì, è stato quando era tornato dagli Stati Uniti: si era rifugiato a Pontedera e lavorava al Workcenter con Thomas Richards e Mario Biagini. Mi ha chiamato Biagini per chiedermi se volevo fargli dei ritratti. Scherzando mi diceva che Grotowski li aveva chiesti «per il futuro, per la sua scomparsa». Mi chiedeva di non parlarne in giro, di mantenere la cosa riservata. Arrivo a Pontedera e non trovo nessun’altro: erano partiti tutti per una tournée in Sud America. C’erano solo loro tre. Ho preparato un piccolo set con un fondale nero e un paio di luci e ho atteso che Grotowski arrivasse. Non stava bene, si risparmiava molto e, forse, continuava un po’ a giocare con la sua aura. Insomma, l’incontro veniva rimandato di mezz’ora in mezz’ora, e sono passati un paio di giorni. Mi aveva fatto annunciare che si sarebbe potuto fermare solo una mezz’ora. E mi aveva chiesto come doveva vestirsi. Gli avevo suggerito di portarsi un paio di giacche. È arrivato dopo due giorni, con una valigia di abiti. E abbiamo iniziato a chiacchierare. Di Kantor.
[…]
Hy – Alla fine, come lo hai fotografato?
M.B. – Abbiamo aperto la valigia degli abiti e ha cominciato a provarli. La prima era una giacca nera, l’altra anche, l’altra ancora pure. E poi c’erano camicie, tutte bianche, e cravattini verdi o rossi, che nelle foto in bianco e nero vengono più o meno della stessa tonalità… Siamo andati avanti nel gioco delle prove e gli ho fatto vari scatti. Poi ho scelto quello che considero il ritratto più fedele di Grotowski, un’immagine in cui ha un’aria importante, la barba bianca, i capelli bianchi. È solenne, definitivo. Insieme a lui ho fotografato poi anche Thomas Richards: l’immagine serviva per la copertina del libro in cui lo nomina suo erede.
Hy – E sulle foto scattate a Cieslak, cosa puoi dirci?
M.B. – Posso dire di aver conosciuto bene Cieslak e di averlo molto ben voluto. Anche lui lo guardavo – posso dire – come un matto… c’era una specie di demone in lui, una sorta di disperazione. Un bisogno assoluto di fare teatro e una disperazione di non riuscire a farlo, specie dopo la chiusura del Teatro laboratorio. Si sentiva sperso. Si era reso conto di non essere un attore utilizzabile da altri tipi di teatro. L’unico a dargli una possibilità è stato Peter Brook. L’ultimo incontro che ho avuto con lui è stato proprio alla fine del Mahabharata. Sono andato in camerino a salutarlo con Vittorio Mezzogiorno. Siamo andati a mangiare una pizza. In seguito è partito per l’America e dopo non molto è morto. E poi è morto anche Vittorio Mezzogiorno… I componenti del gruppo del Teatro laboratorio oggi sono morti quasi tutti. […]
[1] R. De Monticelli, Sospesi sulla fossa dei serpenti per 60 minuti, «Il Giorno», 3 luglio 1967; poi in Id., Le mille notti del critico, vol. II, 1964-1973, a cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli De Monticelli, Bulzoni, Roma 1997, pp. 287-289.
[2] Ibidem.
[3] E. Pagliarani, Il teatro in contropiede, a cura di M. Marrucci, L’orma, Roma 2017.
[4] B. Schacherl, La quinta parete di Grotowski, «Rinascita», 1967, n. 27; poi in Id., Il critico errante. Anni Sessanta e dintorni a teatro in cerca di Storia, le Lettere, Firenze 2005, pp.187-189.
[5] R. De Monticelli, Il santone Grotowski a lume di candela, «Corriere della Sera, 30 gennaio 1974; poi in Le mille notti, cit., vol. III, 1974-1980, pp. 1558-1561.
[6] Ibidem.
[7] G. Guerrieri, Alle sorgenti di Grotowski, in Il teatro in contropiede. Cronache e scritti teatrali 1974-1981, a cura di Stefania Chinzari, Bulzoni, Roma 1993, p. 207.
[8] U. Volli, Teacher of Performer: Jerzy Grotowski, in La quercia del Duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989.
[9] A. Scarpellini, Un favoloso giovane, Jerzy Grotowski, «Doppiozero», 11 dicembre 2014, https://www.doppiozero.com/un-favoloso-giovane-jerzy-grotowski.
[10] A. Attisani, Rileggere Jerzy Grotowski, «Doppiozero», 3 maggio 2024, https://www.doppiozero.com/rileggere-jerzy-grotowski
[11] Appunti di chi scrive, in parte riversati nell’articolo M. Marino, Grotowski: «Non esiste un teatro dell’avvenire, ma molti teatri, «l’Unità due», 16 novembre 1997.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] M. Marino, Il teatro che non si guarda, in «Mattina», dorso emiliano-romagnolo de «l’Unità», 18 novembre 1997.
[15] M. Marino, Grotowski in bianco e nero, «Hystrio», anno XXII, n. 1, Milano 2009; poi in https://www.ateatro.it/webzine/2014/01/09/grotowski-in-bianco-e-nero/)