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Il poeta d’oro, La casa Usher, 2022
Il volume racconta la storia e le opere di Giuliano Scabia (1935-2021), uno straordinario poeta, drammaturgo, narratore e affabulatore tra il Novecento e oggi. Dagli inizi degli anni Sessanta del Novecento Scabia ha rotto i canoni della tradizione teatrale, dilatando la scena, praticando un teatro a partecipazione che è andato nei manicomi, in paesi della montagna e della pianura, in quartieri periferici e centri storici di città, in festival internazionali. Scabia ha avuto un ruolo molto importante anche nelle azioni di Franco Basaglia degli anni Settanta, che hanno condotto alla chiusura dei vecchi manicomi con la legge 180 del 1978. Infatti portò a Trieste la sua idea di Teatro Vagante, che incontra e coinvolge il pubblico nelle strade e nelle piazze. Insieme ai ricoverati nell’Ospedale psichiatrico triestino fece nascere il Marco Cavallo. È un grande animale di cartapesta, che in una domenica di sole uscì nelle strade di Trieste accompagnato da un corteo entusiasta e invincibile di «matti», dottori, infermieri, volontari, studenti, abitanti di Trieste in una grande festa. Ha insegnato per più di trent’anni al Dams di Bologna, mettendo alla prova nei suoi corsi testi e convenzioni teatrali (il libro Scala e sentiero verso il paradiso, pubblicato postumo nel 2021 da La casa Usher, documenta questo percorso). È autore di numerose opere teatrali, poetiche e di narrativa, in gran parte pubblicate da Einaudi.
Prologo
Ventidue maggio 2021, basilica della Santissima Annunziata a Firenze. Una bara è davanti all’altare, e questo avviene di frequente. Meno consueto è quel grappolo di bianchi colli di oche di cartapesta col becco arancione che sembrano schiamazzare allegre in questa solenne e luttuosa circostanza. Così come poco usuale è stata l’esposizione in casa del corpo dell’anima che è volata verso i Campi Elisi, quello di Giuliano Scabia, il Poeta d’oro di cui parla questo libro. Era circondato dal cantastorie di una delle sue azioni teatrali, quello del Gorilla Quadrumàno («Egli è nato in una notte / che era buia e tempestosa / ma appena è apparso lui / è uscito fuori il sole»), dagli starnazzanti animali da cortile di cartapesta di Nane Oca, uno dei suoi romanzi, da un nugolo di ridenti burattini che sbucavano da una grande cesta di vimini. Lui stava dentro la bara, disteso, placido, col suo maglione rosso di lana grossa, la sciarpa ugualmente rossa che indossava per tutto l’inverno, il ciuffo bianco e i pantaloni di velluto, «da cacciatore» diceva: immagino da cacciatore di storie.
Interno chiesa. Siamo alla vigilia della Pentecoste. I paramenti del celebrante sono rossi, il colore del fuoco, dello spirito, della rivelazione, della trasformazione. Incendiato è stato il domandare, il ricercare per infiniti cammini vaganti, di-vaganti, di colui che ci ha abbandonati per intraprendere un nuovo avventuroso viaggio.
L’omelia non è trascinante e neppure troppo affettuosa. Normale amministrazione diremmo. Ma poi, terminata la celebrazione, si alzano dall’assemblea, fitta, in epoca di pericolo Covid appena scampato o solo attenuato, donne e uomini. Prendono la parola, davanti all’altare, allievi e semplici conoscenti: «Lui era sempre ridente. Imprevedibile. Girava per il quartiere a piedi o in bicicletta. Si fermava a parlare con tutti, a lungo, sempre gioioso…». Qualcuno lo ricorda come poeta luminoso o come esploratore di teatro. Una donna, capelli biondi e azzurri, col pianto appena trattenuto promette di continuare la sua opera di artista innamorato della vita. Lampi di ricordi, primi tentativi, col magone in gola, di far capire l’importanza della sua opera e della sua figura.
Passano uno o due giorni e Elena Guerrini, attrice e autrice, la donna coi capelli biondi e turchini, inventrice di un festival di teatro in Maremma dove si paga il biglietto barattando cibi o oggetti con l’entrata allo spettacolo, lancia l’idea di una chat su Whatsapp: «…anch’io come voi allieva del caro maestro e poeta. Siamo in tanti e distanti, ognuno per la propria strada ma ognuno di noi brilla della propria creatività e del proprio lavoro, come lui ci ha insegnato. Mi piacerebbe creare con voi un gruppo wa […] per condividere il ricordo, articoli, pensieri, celebrazioni, e mantenere la memoria ma anche farlo conoscere a chi non ha avuto come noi la fortuna di formarsi con lui». Contagio di vitalità. Coscienza di un’eredità grande. Affetto. E Bruno Tognolini, poeta e suo antico studente, subito invia il link a un post che cita un commento di un’altra sua ex allieva, Roberta Sanna: «E se ricordiamo quanto fu duro il Settantasette bolognese, ancor più dobbiamo essergli grati. Per come col suo sorriso seppe sollevarci e guidarci nei territori luminosi della poesia e del teatro. Con la sua serena saggezza seppe ricucire pian piano quello strappo doloroso con la città, divenuta per noi violentemente oscura e nemica».
E molto altro si può leggere negli oltre trecento post di questo gruppo che comprende, nel momento in cui scrivo, sessantuno membri, ex studenti, amici, giornalisti, scrittori e scrittrici, studiose, teatranti, persone che variamente hanno incontrato Giuliano Scabia.
Questo che state leggendo non è un capitolo di una storia del teatro e neppure, nonostante l’inizio, un album dei ricordi. È la storia di un uomo, un artista, che ha attraversato la poesia, il teatro, la narrazione, la pedagogia, la coscienza civile e politica della fine del Novecento e dei primi anni Duemila, intonando ogni volta una nota particolarmente originale. È una storia dal teatro, composta di domande rivolte soprattutto alle grandi questioni del nostro tempo e alla sua “lingua”, al brulichio delle voci e dei gesti portati dai corpi, ai corpi diffusori di luce e oscurità.
Scabia è stato innanzitutto un poeta che ha fatto i conti con la poesia esplosa di fine secolo. Per trent’anni è stato autore di testi teatrali e di azioni che forzavano i limiti della scatola scenica, in un’avventura ardita, unica, che ha cercato di mutare radicalmente il panorama dello spettacolo. Dagli inizi degli anni Novanta ha iniziato a pubblicare romanzi, raccolti in due cicli: quello dell’Eterno andare, un viaggio familiare nel Novecento, una autobiografia fantastica; quello pavano, dialettale, favolistico di Nane Oca. E queste sue storie è andato a raccontarle egli stesso in molti luoghi.
Soprattutto è stato capace di affascinare con la sua vitalità tutti coloro con i quali è entrato in relazione. Sarà questo un canto a un incantatore che con docile, sghembo sberleffo, un po’ brechtiano, insegnava a cercare l’anima, l’animale, il bosco in sé. E a non lasciarsi sedurre.
Mentre compongo queste frasi, la mia scrivania e un divano intero che sta al suo lato sono coperti dai suoi libri e dagli opuscoli stampati in proprio. Il teatro per Scabia è stato scrittura: tentativo di decifrazione del mondo che si traduceva in esperienza delle cose e delle persone da rilanciare attraverso le forme della parola scritta, dalla concretezza degli incontri trasformata in theatro, luogo nel quale si guarda e si è guardati, per guardarsi dentro.
Nella sua casa-archivio d’artista in via delle Conce a Firenze sul pavimento del soppalco, sopra la stanza con più di quattrocento faldoni che documentano il suo lavoro, sono stesi tutti i Quaderni di Drammaturgia. Raccontano trentatré anni di attraversamento dell’università e dintorni fuori da ogni schema accademico. Occupano tutto il pavimento come un lago di pensieri e immagini, di ricerche, come una foresta di dialoghi con giovani studenti a interrogare il teatro, la città, la politica, la natura, l’immaginazione, l’esistenza. Vita, teatro, ricerca trasformati in scrittura.
Sembra che le parole di questo prologo servano a non incominciare, a non porre ladomanda fondamentale: chi era Giuliano Scabia, questo che possiamo chiamare, con parole sue, consegnate a un testo teatrale di metà anni Ottanta, il «Poeta d’oro»? Provo a rispondere innanzitutto con una nota sintetica.
Giuliano Scabia (1935-2021), uno dei padri di Marco Cavallo, fantoccio gigante che rappresenta la liberazione dai manicomi realizzato all’Ospedale psichiatrico di Trieste diretto da Franco Basaglia, è una figura risplendente nel panorama culturale e artistico italiano. È stato prima di tutto un poeta in viaggio continuo nelle trasformazioni della lingua. Ha sperimentato senza sosta in vari campi: il teatro, la narrazione, l’intervento politico e sociale, la comunicazione, l’animazione di comunità piccole e grandi, la pedagogia partecipativa, l’insegnamento universitario… Ha costituito il proprio mondo espressivo intorno all’idea di arte come relazione e come visione, immaginazione gioiosa di mondi misteriosi, amorosi, sacri, guidato dal motto dello scrittore polacco Witold Gombrowicz: «Coloro insieme ai quali canti modificano il tuo canto».
C’è però da fare attenzione. Scabia il luminoso, il sempre in cerca degli altri, l’inesausto dialogante, era filosofo di formazione, segnato dall’impegno sociale e politico di gioventù, e perciò continuamente agitato dalle domande. I suoi lati d’ombra li scopriremo meglio proseguendo la storia. Quello che qui voglio rimarcare, per mettere in guardia il lettore, è che Scabia era un seduttore: non a caso indossò in uno dei suoi spettacoli più famosi i panni e la maschera del Diavolo e ne impugnò il forcone.
Era un seduttore all’apparenza mite, affabile, gioioso. In realtà insidioso: portava in mondi che vorremmo possibili, mettendoci nello stesso tempo in guardia contro l’illusione. Ci lasciava soli, alla fine, di fronte alle responsabilità difficili dell’immaginario, a come orientarci tra immagini necessarie per nutrirci la vita e immagini che ci bombardano tutti i giorni fino a farci perdere. La lingua poteva, doveva essere la salvezza: il trovare cosa dire, come dirlo, in quale posizione rispetto al mondo, per essere noi stessi, per guardarci negli occhi con gli altri.
Il teatro, la narrazione, l’azione, la poesia di Scabia costituiscono un teatro mentale, capace di affascinare, di legare a sé magicamente, indissolubilmente. È un teatro immaginario, carico di immagini e capace di produrle, di indurle, che può più di quello corrente, perché aiuta a rovistarsi dentro e a esplorare il mondo. È suono, segno, sogno che si interroga sulla sua capacità di incidere la realtà, trasfigurandola o progettandola diversa. È esercizio interiore e gioiosa macchina narrativa: ha dentro di sé gli umori del corpo e trascina per foreste psichiche, facendo ridere, facendo gioire e godere, aprendo le strade segrete del confronto con i fantasmi, con le figure più profonde che ci agitano e ci agiscono. Segnala la possibilità di smarrirsi in quella fascinazione, in quei boschi pullulanti di vita.
Andiamo a incominciare il racconto.

Il teatro di questi anni raccontato attraverso le recensioni e gli approfondimenti pubblicati su “doppiozero”, seguendo il teatro di ogni giorno, ponendo questioni di politica e di prospettiva teatrale, tracciando ritratti di artisti, andando a scavare nella memoria della scena dei nostri anni, indietro fino ad alcuni capisaldi del Novecento. Cercando di allargare lo sguardo alle altre arti e alle intersezioni con la società, discutendo di quanto siamo vittime della rappresentazione, dello spettacolo come travisamento e illusione; provando a dimostrare come non sia un’alternativa l’appiattimento sulla cosiddetta realtà, effettuale o politica che sia. Con l’incanto per quel cerchio di luce della scena, che disegna altri mondi in un buio artefatto, simile a quello nostro interno.
“Insomma, il tutto alla fine potrebbe sembrare una specie di piccolo manuale del teatro dei nostri giorni, con padri e fratelli maggiori. Non lo è: ma sicuramente è un piccolo prontuario del mio teatro e del mio modo di guardare la scena per ragionare sulle nostre fragili esistenze, come si rivelano sotto le lenti d’ingrandimento delle scatole magiche dei teatri”.
https://www.doppiozero.com/ebook/massimo-marino/il-teatro-e-indistruttibile
Premessa
Ho raccontato per otto anni su “doppiozero” il teatro che vedevo su grandi e piccoli palcoscenici, fuori dei luoghi deputati, nelle città, in siti anomali, perfino in carcere. Ho provato a registrare invenzioni e ad annotare disgusti tra stagioni e festival, a seguire poetiche, esaltazioni, pedagogie e pene di attori, registi, scrittori, organizzatori, soprattutto di quelli che esorbitano dai confini che assegniamo abitualmente alle arti della scena. Ho cercato di capire cosa può orientare lo sguardo oggi, che cosa si può chiedere di essenziale a un teatro che non sia solo intrattenimento, ma sia viaggio nel mondo, nell’immaginario collettivo e all’interno di noi stessi. Ho provato a misurare il presente che le scene registravamo e rivelavano con la memoria, cercando di riannodare perlomeno i fili della storia che ci sta immediatamente alle spalle e che tendiamo a dimenticare con grande facilità.
In questo registrare, analizzare, raccontare lungo otto anni ho scritto per “doppiozero” quasi duecento articoli, tra recensioni, interviste, ricordi, pezzi che non riguardavano propriamente argomenti teatrali ma che in qualche modo alle arti della scena guardavano. In molti di questi interventi ho provato a discutere quanto siamo vittima della rappresentazione, dello spettacolo come travisamento e illusione; in altri ho cercato di dimostrare come non sia un’alternativa l’appiattimento sulla cosiddetta realtà, effettuale o politica che sia. Ho sempre cercato, credo, di lasciarmi incantare da quel cerchio di luce che disegna altri mondi in un buio artefatto, simile a quello nostro interno: per lottare contro gli incantatori fasulli, quelli che vogliono vendere in modo occulto o comprare al loro inaccettabile prezzo; per provare a riscoprire il fascino rapinoso del vero incantesimo. Ho provato a smontare la macchina dal di dentro e a ricostruirla per osservazioni, intuizioni, prove ed errori.
In questa antologia è impensabile pubblicare tutti quei pezzi. Ho dovuto, con fatica e dolore, categorizzare l’ampio materiale e operare delle scelte. Le cose che leggete sono “esempi”: offrono da una parte un’idea del ventaglio di argomenti toccati e sono in parte le pagine in cui mi riconosco di più. Su certi artisti e certi argomenti molto di più troverete sulle pagine virtuali di “doppiozero”. Per esempio sui festival: ad ognuno di quelli evocati ho dedicato molti interventi. Oppure sulle periodiche crisi del sistema teatrale.
I tagli più dolorosi ho dovuto farli nella sezione che ho intitolato Ritratti. Ho deliberatamente scelto di riportare un solo articolo riguardante figure o compagnie sulle quali in realtà ho scritto molto, seguendole costantemente. Su Castellucci in realtà ho scritto sette-otto pezzi e così sulle Albe, su Scabia, su Punzo…
Ho pubblicato qui ogni articolo appena appena emendato di refusi, distrazioni, dati di stretta cronaca. Nel titolo però troverete un link che rimanda agli originali apparsi online. E in fondo i collegamenti agli altri miei interventi sulle stesse figure e argomenti. Nelle sezioni i pezzi sono disposti più o meno in ordine di apparizione: ma mi sono riservato la possibilità di mettere in testa o in coda alle parti stesse interventi particolarmente significativi.
Tengo particolarmente al capitolo Memore. Da Brecht a Bernhard (anche qui con la dolorosa rinuncia a riportare un testo più ampio e completo sull’autore austriaco, perché varie volte pubblicato), da Fellini e Totò agli anni settanta e ottanta, da Ronconi a Bobò si delinea una piccola storia del teatro dei nostri anni e di quelli immediatamente precedenti.
Tra le Memorie, gli scritti in exitu si ispirano alle sezioni analoghe del glorioso Patalogo di Franco Quadri, e in particolare all’ultimo speciale, contenuto nel n. 32, in cui attraverso il ricordo di donne e uomini di teatro da poco scomparsi (nel 2009) si ripercorrevano le “Altre idee di teatro” del novecento. In questo senso completano la sezione, ripercorrendo, con l’emozione che si prova nel momento del distacco supremo, i temi e le personalità che hanno agitato la discussione teatrale e il suo aprirsi sul mondo negli anni a noi vicini.
Insomma, il tutto alla fine potrebbe sembrare una specie di piccolo manuale del teatro dei nostri giorni, con padri e fratelli maggiori. Non lo è: ma sicuramente è un piccolo prontuario del mio teatro e del mio modo di guardare la scena per ragionare sulle nostre fragili esistenze, come si rivelano sotto le lenti d’ingrandimento delle scatole magiche dei teatri.

Teatro del Pratello. Vent’anni tra carcere e società. Testi processi, spettacoli (Titivillus 2019
Paolo Billi lavora in carcere dal 1999, prima con l’Associazione Bloom – culture teatri, poi con il Teatro del Pratello. Ha iniziato all’Istituto Penale Minorile di Bologna; poi ha portato le sue invenzioni nell’Area Penale Esterna Bolognese e verso le scuole e la cittadinanza; quindi nella Casa Circondariale della Dozza; più di recente a Pontremoli, a Reggio Emilia, a Firenze. Ha fondato, con altre compagnie, il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Ma soprattutto ha cercato di far entrare adolescenti, insegnanti, operatori, spettatori nei luoghi di reclusione, in contatto con ragazzi e persone affidate alla giustizia: la società civile che permette di rompere l’isolamento dei luoghi di pena, perché sia chiaro che i processi di trasformazione che vi si svolgono, quelli artistici come il teatro e quelli della normale amministrazione, sono patrimonio della collettività. Il carcere non può essere solo la pattumiera della società: il carcere siamo noi, i giovani reclusi si rispecchiano nei loro coetanei e viceversa; i detenuti e le detenute adulte sono anche uno specchio di quello che siamo, dei nostri pregiudizi, delle nostre esclusioni. Tutto questo racconta il libro che avete tra le mani: una meravigliosa avventura ventennale a provare a reinventare la vita dai luoghi del dolore e dell’emarginazione.
Epilogo
«Non c’è epilogo, non puoi esserci, i lavori del Teatro del Pratello sono in corso».
«E però tieni conto che ci troviamo di fronte al raggiungimento di un
traguardo simbolico, i venti anni di attività…»
«Già, ma perché usare questi frazionamenti di quell’entità astratta,
convenzionale, che è il tempo? Perché celebrare gli anniversari nella loro
cifra “tonda”, con quello zero che li chiude?»
«Forse perché la base di quella che chiami “cifra tonda” è il dieci, che è il
numero delle dita della mano, la base dei calcoli dall’epoca dei Babilonesi,
l’1 e lo 0, quindi l’inizio e l’annullamento della cose, la somma dei primi
quattro numeri – 1+2+3+4 – ossia una serie, uno sviluppo, che arriva a una
qualche compiutezza?»
«Un altro libro era stato realizzato per i dieci anni. Ma non sono stati
importanti, nella storia del Teatro del Pratello, anche gli otto anni, con
l’inizio dell’emergere della necessità di tessere reti, o i tredici-quattrodici,
con la crisi dell’Istituto Penale Minorile? Certo che venti anni sono un
bell’arco di tempo per osservare uno sviluppo, per cogliere il dispiegarsi
delle potenzialità di un’idea e capire come può svoltare nella maturità».
«Venti anni nella vita di un essere umano, quando le stagioni erano quelle
di una volta, erano quelli della crescita e dell’affermazione della personalità,
il momento di spiccare il salto. Si aveva diritto al voto, come attestazione
del raggiungimento della maturità, a ventuno anni».
«La storia del Teatro del Pratello l’abbiamo raccontata con una preistoria,
un inizio di studio e osservazione, una precisazione del campo e una sua
estensione. Come, in fondo, la crescita di un giovane. Oggi l’attività si è
moltiplicata, senza mai tradirsi. Pronta a quel salto nella maturità?».
«Ti faccio notare che ancora si tratta, molte volte, di un navigare a vista.
Ossia: il timone è saldo, la direzione è chiara, ma troppi elementi possono possono
impedire il cammino o portare la nave verso inaspettate derive…»
«Fuor di metafora?»
«Sarebbe utile una risposta più continua da parte delle istituzioni. L’attività
di teatro in carcere ancora è aleatoria, non per volontà degli artisti ma per
la difficoltà di farsi strada in un sistema che non offre continuità come
dovrebbe, e che chiede, a chi dall’esterno vuole operare nel carcere, cose
diverse. Qualcuno ancora si accontenta di un’opera simile a quella che
potrebbero prestare assistenti sociali; molti hanno riconosciuto la bontà
dell’intervento principalmente artistico, che se sviluppato con inventività
e capacità di sentire e trasformare l’ambiente, porta anche, come effetto
secondario, risultati di altro tipo».
«Una cosa importante ha affermato Billi in questi anni: che il teatro in
carcere (ma tutto il teatro, potremmo dire) è fatto anche dallo sguardo dello
spettatore, che spesso arriva pieno di attese che in molti casi assomigliano a
veri e propri stereotipi, a pre-giudizi».
«La lotta dell’artista è far cadere i veli attraverso l’incontro. Opera di
difficoltà doppia in carcere, e nel carcere minorile in particolare, perché
bisogna operare anche sugli stereotipi e i pre-giudizi dei ragazzi reclusi, che
vengono portati a esibirsi in scena, ossia a cimentarsi con qualcosa che mai
si sarebbero sognati di fare, con tutta la fatica di staccarsi da sé, uscirne e
indossare altri ruoli».
«Ma l’arte, si sa, è questo: fatica, in certi casi tormento a inventare, in sé,
nel mondo, qualcosa che ancora prima non esisteva. O semplicemente
disciplina a pulire gli occhi, gli sguardi, i comportamenti, la disposizione
verso gli altri, per permettere il salto, la scoperta, se va bene la rivelazione».
Sento, alla fine del percorso, qui, due voci dialogare, forse contrastare, forse
confondersi. In realtà a questo punto l’autore del racconto, da cui sembrano
scaturire queste due diverse voci, dopo tanto parlare di maschere e smascheramenti,
deve provare a capire che faccia abbia. Quante facce abbia.
«Vuoi dire che finora hai mentito? Hai confuso le carte? Che la narrazione
che abbiamo ascoltato non è veritiera?»
«È veritiera e non veritiera, come è vero che io sono uno che guarda i fatti
dalla distanza di venti anni, e tu sei quello che li ha testimoniati nel corso
del loro farsi. Ma io sono anche quello che è andato a cercare altri documenti,
testi, dichiarazioni, comunicati stampa, libri, articoli di giornale,
mentre tu ti sei esaurito nello sguardo, nella scrittura, nella registrazione
delle cose mentre avvenivano».
«Ne sei sicuro? Guarda che i confini tra me e te non sono così definiti.
Forse sei tu quello che si è intricato nel bosco durante le stagioni, credendo
di esserne fuori, in una ideale palla di vetro della distanza, e a volte si è
smarrito, e io quello che ti guarda dall’alto o su qualche mappa mentre mi
consumo nell’istante dello sguardo».
«Fuor di metafora?»
«Senza maschera?»
«Senza maschera e senza voglia di smascherarsi non è possibile vivere. Fare
storia, né cronaca…»
«Fare cronaca, né storia».
«Questo racconto è fatto di testi e frammenti di testi, testimonianze,
sguardi, che di volta in volta, in quei presenti che ora costituiscono il
passato, venivano scritti e pubblicati in varie sedi. I miei su giornali come
«l’Unità Emilia Romagna», il «Corriere di Bologna», sul blog «Controscene
» del «Corriere di Bologna», su «Doppiozero.com», «Left». Concorrono
alla scrittura brani già rielaborati per il libro dei dieci anni, articoli
apparsi su varie riviste o brani di relazioni tenute a convegni. Tutta la mia
memoria del Teatro del Pratello, che ho cercato di recuperare, cogliendola
col sapore di quando era ritratto dal vivo. Ci sono i copioni di Billi, che
erano scritti pensando a come dirli, con frasi tutte maiuscole per enfatizzare
un passaggio, cascate di punti esclamativi, una punteggiatura a volte
veloce, a volte “orale”, con inserti dei ragazzi, più o meno rielaborati…»
«…io invece ho guardato tutto da fuori, ho ricollegato, fuso, dato un ritmo,
con leggeri interventi di mera ortografia ho provato a rendere i copioni di
scena testi da leggere e ho estratto brani dai testi per illuminare il racconto.
Ma ho anche deciso di rubarti quegli schizzi fatti dal vivo, senza rivelarne
sempre le fonti, presentandole come mie memorie, per non appesantire la
narrazione, perché anche questo libro, e questi venti anni, fossero insieme
sentimento presente e sguardo retrospettivo, dall’esterno…».
«E io spesso, quando annotavo e poi scrivevo, nel calore delle situazioni,
confrontavo, cercavo antenati, immaginavo prospettive, cercavo di pensarmi
fuori dal bosco, sull’altura. Dentro e fuori dai fatti, dalle maschere, con la
coscienza che quella parola che abbiano evocato qualche battuta fa…».
«Quale parola?»
«Dilla tu…»
«La verità?»
«La verità è fatta di memorie, oblii, ricordi, deformazioni, tentativi di
recuperare tracce in parte labili, in certi casi ancora vive, o addirittura
incise nella carne, nel DNA, di chi continua ad agire. Ed è dentro i fatti,
gli atti, e fuori, nella distanza».
«La storia prova a riconnettere, revisionare, dare forma condivisibile… A
disfare e a ritessere i fili…»
«… a riguardare la cronaca, a smussare anche tutto ciò che era troppo figlio
del tempo…»
«… quello che viveva della sensazione, che era forma d’azione o di tempestivo
rendiconto…»
«… prova a riguardare dall’alto del monte…»
«… per riprodurre la sensazione di abbandono, smarrimento, pienezza dei
sensi, paura di quando attraversavi la foresta… il momento…».
Le due voci ora si ricompongono in un finale, nel quale dovete immaginarle
sovrapposte, ma ancora lievemente sfasate, a poco a poco, come in un unisono
che improvvisamente, inevitabilmente, devia verso il canone, in cerca di armonie,
sempre con contrappunti e dissonanze.
«Scrivere dei venti anni del Teatro del Pratello è anche una forma di
autobiografia dello sguardo e dei modi di raccontare».
«Passaggio per passaggio, nei diversi tempi».
«Oggi»
«per ricostruire questa storia ho dovuto ripercorrere anche un mio cammino»
«che va dagli appunti agli articoli allo sguardo retrospettivo alla storia»
«passando dal taccuino, dalle note prese nell’incerta luce della sala teatrale o
in piedi negli spettacoli itineranti alla carta stampata, e poi al web, rivedendo»
«nelle parole consegnate alla memoria scritta»
«quelle immobili a stampa o quelle modificabili dei blog o dei post sui
social media»
«certe volte il momento in cui entravo nella sala»
«o ne uscivo»
«con l’attesa, la fatica o la gioia, la delusione o l’emozione»
«e poi quando ricreavo sotto la luce della lampada, sul teatro del computer,
fatti, atti, intenzioni, pensieri, volti, corpi…»
«Rivedere, ripensare, narrare di nuovo, testimoniare, da un’altra
prospettiva…»
«Immaginare ancora, per fare ancora immaginare».
«Spero che anche qualcosa di quest’altra storia traspaia dalle pagine che
avete letto».

TEATRO DELLE ARIETTE
La vita attorno a un tavolo
Massimo Marino
Istruzioni per l’uso
di Massimo Marino
La Camerateatro della Morara. È uno dei primi nomi misteriosi e segreti
che il lettore troverà in questo libro. Era uno spazio sopra un bar in periferia
nella Bologna tra anni ottanta e novanta. Là, le (allora) ragazze del
Baule dei Suoni ospitavano spettacoli nuovi, esperimenti, giovani compagnie.
Si assisteva alla rappresentazione, poi si beveva un bicchiere, si mangiava
qualche tarallo, si discuteva con gli artisti e tra gli spettatori. Un teatro
conviviale, che aveva bisogno di incontrare, di dialogare, per spiegare
ragioni estetiche e, in quei tempi, molto spesso politiche.
Questo libro racconta ciò che successe dopo la Morara a Paola Berselli,
Stefano Pasquini e ai loro compagni di viaggio, cioè il Teatro delle Ariette,
una piccola comunità che non ha mai abbandonato l’idea che rappresentare
spettacoli voglia dire incontrare altri intorno a storie, preferibilmente
vere, piene di vita, perché così sono più credibili, e che fare teatro debba
essere anche una forma moderna del convivio. Perché intorno a un tavolo
non si consuma solo, in fretta o lentamente, un pasto, ma si scambiano
esperienze, gioie e perfino dolori.
Vogliamo che l’andamento di questo libro sia narrativo: i testi delle Ariette,
integrali o a sprazzi, sono accompagnati da miei racconti fatti di materiali
differenti, pezzi di interviste, di recensioni, di presentazioni, riflessioni,
racconti di azioni, di spettacoli, di laboratori o di momenti di essi, di disegni
e respiri più ampi nei quali collocare le singole invenzioni.
Le Ariette, Stefano e Paola, saranno presenti attraverso le creazioni poetiche:
dialoghi, monologhi, lettere, pezzi di diario, menù dei cibi offerti
durante gli spettacoli. Io proverò a ricostruire tutto quello che sta sotto,
dietro, intorno a tutto ciò, e quindi il momento in cui terminata l’esibizione
di sé, la messa in scena autobiografica (questo è il centro dell’ispira

Introduzione
Questo libro nasce da un’esperienza concreta, realizzata a partire dall’anno accademico 1998-99 nei laboratori di critica teatrale che ho condotto presso il Centro Interfacoltà di Musica e Spettacolo (CIMES) dell’Università di Bologna, in collaborazione con il Dipartimento di Musica e Spettacolo[1]. Mi sono confrontato per vari inverni con gruppi di studenti, ogni volta diversi, per osservare, analizzare, raccontare lavori presentati nelle stagioni teatrali bolognesi. Li ho portati a misurarsi con i problemi dello spettacolo contemporaneo, quello che non è ancora storicizzato, quello che sfida la nostra diretta percezione cercando di interpretare i tempi in cui viviamo.
Il presente volume non intende descrivere, però, un’attività pratica in modo cronachistico: cerca piuttosto di disegnare i contorni di un laboratorio “ideale”, enucleando temi e problemi della critica teatrale, sintetizzando e montando riflessioni, materiali e spunti osservati ed elaborati nelle diverse edizioni di un percorso totalmente sperimentale. Enunciazioni, ipotesi, domande, resoconti, prove di critica sono intrecciati con documenti, storici e contemporanei, con considerazioni metodologiche e teoriche.
Ogni capitolo conterrà in chiusura, una sezione intitolata Il laboratorio in cui propongo al lettore esercizi di osservazione e di scrittura. Nel capitolo ottavo, nei paragrafi Dai laboratori, riporto alcuni esempi dei lavori sviluppati in questi anni. Nell’appendice documento un esito laterale e originale della didattica, calato in una situazione produttiva concreta: la realizzazione di un giornale quotidiano che ha accompagnato, per alcuni anni, il festival “Santarcangelo dei Teatri” avvalendosi dell’opera di critici e cronisti giovanissimi, formatisi nei laboratori universitari. Ha rappresentato un tentativo di sperimentare, in diretta, a ritmi convulsi come quelli di un vero giornale, in uno spazio-tempo concentrato ed eccezionale come un festival di teatro, le contraddizioni e le potenzialità della critica. Cercando di definire le possibilità attuali di una pratica essenziale, da molte parti dichiarata in gran difficoltà.
Un ampio spazio lo dedico ai problemi della critica teatrale, alla trasformazione storica della sua funzione e della figura stessa del critico. Essa è stata considerata a lungo una specie di sorella minore della critica letteraria, una disciplina senza un oggetto materiale e duraturo da analizzare, soggetta a slittamenti fra la cronaca giornalistica, il tentativo di analisi scientifica, la scelta di campo a fianco di artisti innovatori. Perennemente in difficoltà a causa della natura effimera, fuggevole, dell’evento teatrale. Ha sofferto nel corso della sua storia numerose crisi, parallele alle avventure di un’arte e di un artigianato, il teatro, radicalmente messo in discussione nel corso del Novecento dall’avvento di nuovi media e dalla mutazione dei sistemi di relazione sociale.
In Italia il ruolo che consideriamo si definisce compiutamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni nel Novecento. Il critico contribuisce all’affermazione di un teatro basato sul testo, che disciplina l’attore della tradizione “all’antica italiana”[2]. Seguirà con partecipazione l’avvento della regia e la sosterrà nelle sue battaglie volte a ridefinire lo spettacolo come atto creativo autonomo. Si ritroverà smarrito o diversamente galvanizzato di fronte all’esplodere dei nuovi linguaggi della scena e alla richiesta di un uso politico del teatro.
Gli anni a cavallo del sessantotto mettono in discussione molte certezze del teatro italiano: si parla di crisi dell’interpretazione, di rifiuto del personaggio, di negazione della parola, di esaurimento del ruolo del regista; si cerca di trovare una necessità politica, comunitaria, esistenziale al teatro. Più in generale, si richiede la trasformazione radicale di un’intera concezione delle arti della scena.
E il critico inizia a sentirsi a disagio: si riducono gli spazi sui tradizionali mezzi di diffusione dei suoi scritti, i quotidiani in particolare; vengono messi in discussione il suo modo di guardare e il suo ruolo di giudice, di Re-Censore. Gli si richiede di trasformarsi in “osservatore partecipe”, o addirittura in testimone parziale e schierato[3].
Oggi abbiamo bisogno di nuovi sguardi. Dopo le diverse “rotture” operate nel Novecento da artisti innovatori, via via definiti avanguardie, neoavanguardie, postavanguardie, sperimentazione e ricerca, l’arte del teatro tende sempre di più a superare i suoi limiti e i suoi tradizionali statuti disciplinari, affrontando territori di confine fra i linguaggi, fra differenti pratiche creative, fra realtà e rappresentazione. Lo stesso termine teatro, in realtà, riassume in sé esperienze, punti di vista, assunti poetici diversissimi, sì che a buona ragione possiamo usarlo al plurale e parlare di teatri, per indicare un’irriducibile molteplicità.
La vecchia critica ha ridotto le proprie pretese dal respiro dell’ampio elzeviro scritto in punta di penna, discendente della prosa d’arte del primo Novecento, al breve commento della serata; in molti casi è stata scalzata dall’intervista e dalla presentazione. Eppure nuovi compiti si possono aprire per chi voglia aiutare a comprendere un teatro sempre più inquieto, intento a scavare sotto le apparenze e le visioni rassicuranti.
Assistiamo pure ad alcuni fatti nuovi: a un interesse dei giovani non solo per la pratica delle arti della scena, ma anche per tragitti di studio che vogliono approfondire gli elementi dello spettacolo. Un segno è la moltiplicazione dei corsi di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS). Un altro è il proliferare di laboratori di critica teatrale presso teatri e istituti universitari (e anche di concorsi, in cui si propone a studenti di diversa età di recensire spettacoli di festival e stagioni teatrali). E’ evidente il bisogno di ritrovare mezzi per guardare, per analizzare, per capire l’azione degli artisti e per connetterla ai problemi del nostro tempo.
Da attività diverse e sempre più diffuse, da una sperimentazione incessante che da più parti si è sviluppata in questi anni, con l’invenzione di nuovi spazi nelle radio e in internet, con iniziative editoriali di compagnie, teatri, gruppi di critici e studiosi che hanno prodotto libri e riviste, con il moltiplicarsi di incontri e dibattiti, nasce una nuova considerazione della critica teatrale. Essa sembra diventare una possibilità, una risorsa, una passione più che una funzione in crisi. Le pagine che seguono proveranno a viaggiare, sulla scorta dell’esperienza dei laboratori, fra i suoi problemi, le sue pratiche e le sue prospettive .
Ringrazio Marco De Marinis, che ha voluto questo volume, e Gerardo Guccini, che ha seguito e propiziato tutto il percorso dei miei laboratori di critica teatrale, nel 1998 al “Festival della Terra delle Gravine” e poi al CIMES dell’Università di Bologna. I suoi preziosi consigli, inoltre, mi hanno aiutato a precisare il piano del libro.
Alcune delle idee in esso contenute nascono dalle lunghe conversazioni con Leo de Berardinis e Paolo Ambrosino, seguite all’apertura del Teatro Laboratorio San Leonardo (Bologna, 1995), da riflessioni ed esperienze sviluppate con Gianni Manzella e altri amici e colleghi, dal confronto con i laboratori condotti da Valeria Ottolenghi per l’Associazione Nazionale Critici di Teatro, dal dialogo con i tanti allievi di questi anni.
Ho debiti di riconoscenza di varia entità con Valentina Bertolino, Claudia Cannella, Elisa Fontana, Simona Nordera, Rodolfo Sacchettini, Vittoria Sardella, Giuliano Scabia, Mariateresa Surianello.
Questo lavoro ha assunto la sua fisionomia anche grazie ai suggerimenti e alla presenza affettuosa di mia moglie Rita.
[1] Tali laboratori, articolati in dieci-dodici incontri di due ore l’uno, si sono svolti fino all’anno accademico 2001-2002.
[2] La definizione è tratta da S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Rizzoli, Milano 1962 (poi Bulzoni, Roma 1985), un fortunato e importante volumetto sul sistema delle compagnie capocomicali italiane prima dell’avvento della regia.
[3] Vedi i contributi di F. Cruciani e F. Taviani alla sezione monografica La critica teatrale, in “Quaderni di teatro”, anno II, n.5, agosto 1979, pp. 3-95.
Introduzione
Questo libro nasce da un’esperienza concreta, realizzata a partire dall’anno accademico 1998-99 nei laboratori di critica teatrale che ho condotto presso il Centro Interfacoltà di Musica e Spettacolo (CIMES) dell’Università di Bologna, in collaborazione con il Dipartimento di Musica e Spettacolo[1]. Mi sono confrontato per vari inverni con gruppi di studenti, ogni volta diversi, per osservare, analizzare, raccontare lavori presentati nelle stagioni teatrali bolognesi. Li ho portati a misurarsi con i problemi dello spettacolo contemporaneo, quello che non è ancora storicizzato, quello che sfida la nostra diretta percezione cercando di interpretare i tempi in cui viviamo.
Il presente volume non intende descrivere, però, un’attività pratica in modo cronachistico: cerca piuttosto di disegnare i contorni di un laboratorio “ideale”, enucleando temi e problemi della critica teatrale, sintetizzando e montando riflessioni, materiali e spunti osservati ed elaborati nelle diverse edizioni di un percorso totalmente sperimentale. Enunciazioni, ipotesi, domande, resoconti, prove di critica sono intrecciati con documenti, storici e contemporanei, con considerazioni metodologiche e teoriche.
Ogni capitolo conterrà in chiusura, una sezione intitolata Il laboratorio in cui propongo al lettore esercizi di osservazione e di scrittura. Nel capitolo ottavo, nei paragrafi Dai laboratori, riporto alcuni esempi dei lavori sviluppati in questi anni. Nell’appendice documento un esito laterale e originale della didattica, calato in una situazione produttiva concreta: la realizzazione di un giornale quotidiano che ha accompagnato, per alcuni anni, il festival “Santarcangelo dei Teatri” avvalendosi dell’opera di critici e cronisti giovanissimi, formatisi nei laboratori universitari. Ha rappresentato un tentativo di sperimentare, in diretta, a ritmi convulsi come quelli di un vero giornale, in uno spazio-tempo concentrato ed eccezionale come un festival di teatro, le contraddizioni e le potenzialità della critica. Cercando di definire le possibilità attuali di una pratica essenziale, da molte parti dichiarata in gran difficoltà.
Un ampio spazio lo dedico ai problemi della critica teatrale, alla trasformazione storica della sua funzione e della figura stessa del critico. Essa è stata considerata a lungo una specie di sorella minore della critica letteraria, una disciplina senza un oggetto materiale e duraturo da analizzare, soggetta a slittamenti fra la cronaca giornalistica, il tentativo di analisi scientifica, la scelta di campo a fianco di artisti innovatori. Perennemente in difficoltà a causa della natura effimera, fuggevole, dell’evento teatrale. Ha sofferto nel corso della sua storia numerose crisi, parallele alle avventure di un’arte e di un artigianato, il teatro, radicalmente messo in discussione nel corso del Novecento dall’avvento di nuovi media e dalla mutazione dei sistemi di relazione sociale.
In Italia il ruolo che consideriamo si definisce compiutamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni nel Novecento. Il critico contribuisce all’affermazione di un teatro basato sul testo, che disciplina l’attore della tradizione “all’antica italiana”[2]. Seguirà con partecipazione l’avvento della regia e la sosterrà nelle sue battaglie volte a ridefinire lo spettacolo come atto creativo autonomo. Si ritroverà smarrito o diversamente galvanizzato di fronte all’esplodere dei nuovi linguaggi della scena e alla richiesta di un uso politico del teatro.
Gli anni a cavallo del sessantotto mettono in discussione molte certezze del teatro italiano: si parla di crisi dell’interpretazione, di rifiuto del personaggio, di negazione della parola, di esaurimento del ruolo del regista; si cerca di trovare una necessità politica, comunitaria, esistenziale al teatro. Più in generale, si richiede la trasformazione radicale di un’intera concezione delle arti della scena.
E il critico inizia a sentirsi a disagio: si riducono gli spazi sui tradizionali mezzi di diffusione dei suoi scritti, i quotidiani in particolare; vengono messi in discussione il suo modo di guardare e il suo ruolo di giudice, di Re-Censore. Gli si richiede di trasformarsi in “osservatore partecipe”, o addirittura in testimone parziale e schierato[3].
Oggi abbiamo bisogno di nuovi sguardi. Dopo le diverse “rotture” operate nel Novecento da artisti innovatori, via via definiti avanguardie, neoavanguardie, postavanguardie, sperimentazione e ricerca, l’arte del teatro tende sempre di più a superare i suoi limiti e i suoi tradizionali statuti disciplinari, affrontando territori di confine fra i linguaggi, fra differenti pratiche creative, fra realtà e rappresentazione. Lo stesso termine teatro, in realtà, riassume in sé esperienze, punti di vista, assunti poetici diversissimi, sì che a buona ragione possiamo usarlo al plurale e parlare di teatri, per indicare un’irriducibile molteplicità.
La vecchia critica ha ridotto le proprie pretese dal respiro dell’ampio elzeviro scritto in punta di penna, discendente della prosa d’arte del primo Novecento, al breve commento della serata; in molti casi è stata scalzata dall’intervista e dalla presentazione. Eppure nuovi compiti si possono aprire per chi voglia aiutare a comprendere un teatro sempre più inquieto, intento a scavare sotto le apparenze e le visioni rassicuranti.
Assistiamo pure ad alcuni fatti nuovi: a un interesse dei giovani non solo per la pratica delle arti della scena, ma anche per tragitti di studio che vogliono approfondire gli elementi dello spettacolo. Un segno è la moltiplicazione dei corsi di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS). Un altro è il proliferare di laboratori di critica teatrale presso teatri e istituti universitari (e anche di concorsi, in cui si propone a studenti di diversa età di recensire spettacoli di festival e stagioni teatrali). E’ evidente il bisogno di ritrovare mezzi per guardare, per analizzare, per capire l’azione degli artisti e per connetterla ai problemi del nostro tempo.
Da attività diverse e sempre più diffuse, da una sperimentazione incessante che da più parti si è sviluppata in questi anni, con l’invenzione di nuovi spazi nelle radio e in internet, con iniziative editoriali di compagnie, teatri, gruppi di critici e studiosi che hanno prodotto libri e riviste, con il moltiplicarsi di incontri e dibattiti, nasce una nuova considerazione della critica teatrale. Essa sembra diventare una possibilità, una risorsa, una passione più che una funzione in crisi. Le pagine che seguono proveranno a viaggiare, sulla scorta dell’esperienza dei laboratori, fra i suoi problemi, le sue pratiche e le sue prospettive .
Ringrazio Marco De Marinis, che ha voluto questo volume, e Gerardo Guccini, che ha seguito e propiziato tutto il percorso dei miei laboratori di critica teatrale, nel 1998 al “Festival della Terra delle Gravine” e poi al CIMES dell’Università di Bologna. I suoi preziosi consigli, inoltre, mi hanno aiutato a precisare il piano del libro.
Alcune delle idee in esso contenute nascono dalle lunghe conversazioni con Leo de Berardinis e Paolo Ambrosino, seguite all’apertura del Teatro Laboratorio San Leonardo (Bologna, 1995), da riflessioni ed esperienze sviluppate con Gianni Manzella e altri amici e colleghi, dal confronto con i laboratori condotti da Valeria Ottolenghi per l’Associazione Nazionale Critici di Teatro, dal dialogo con i tanti allievi di questi anni.
Ho debiti di riconoscenza di varia entità con Valentina Bertolino, Claudia Cannella, Elisa Fontana, Simona Nordera, Rodolfo Sacchettini, Vittoria Sardella, Giuliano Scabia, Mariateresa Surianello.
Questo lavoro ha assunto la sua fisionomia anche grazie ai suggerimenti e alla presenza affettuosa di mia moglie Rita.
[1] Tali laboratori, articolati in dieci-dodici incontri di due ore l’uno, si sono svolti fino all’anno accademico 2001-2002.
[2] La definizione è tratta da S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Rizzoli, Milano 1962 (poi Bulzoni, Roma 1985), un fortunato e importante volumetto sul sistema delle compagnie capocomicali italiane prima dell’avvento della regia.
[3] Vedi i contributi di F. Cruciani e F. Taviani alla sezione monografica La critica teatrale, in “Quaderni di teatro”, anno II, n.5, agosto 1979, pp. 3-95.
IL LIBRO
MASSIMO MARINO
LO SGUARDO CHE RACCONTA
Un laboratorio di critica teatrale
Indice
Introduzione
- Che cos’è la critica teatrale?
- La memoria dello sguardo
- Definizioni provvisorie
- L’osservatore smarrito
- La crisi del pubblico
- Con gli artisti, fuori del coro
- Le domande sperimentali del laboratorio
- Leggere il testo o guardare lo spettacolo?
- Fra cronaca e interpretazione
- Il programma di un teatro
- La scena del testo
- Le condizioni della critica
- L’avvento del regista
- Verso un nuovo teatro
- Il laboratorio: esercizi di descrizione
- Il lavoro del critico
- Come scrivere
- La vocazione
- Oggettività e soggettività
- Tipi e caratteri
- Storie di critici
- “Raccontare per far rivivere”
- Il laboratorio: esercizi di osservazione
- Le condizioni del racconto
- Cosa guardiamo a teatro
- Come guardiamo
- Dove guardiamo
- Dove scriviamo: il quotidiano e la rivista
- Trenta, sessanta, novanta righe e altre importanti minuzie
- “Scrivere” per la radio, per la televisione, per internet
- Il laboratorio: esercizi di confronto e composizione
- Materiali per lo sguardo
- L’opera e il contesto
- Le fonti dello sguardo
- I materiali delle compagnie e dei teatri
- Interviste e presentazioni
- Annuari, collane di teatro, riviste
- Rete critica: navigando su internet
- Il laboratorio: esercizi di ricerca
- Lo spettatore risvegliato
- Un prontuario per vedere lo spettacolo
- Liberarsi della recensione
- La complessità dell’atto vivente e lo sguardo
- Il critico come saggista
- Lo spettatore addormentato
- Il laboratorio: esercizi di approfondimento
- Il piacere e il rischio della scrittura
- Portare il lettore dentro l’evento
- Questioni di stile
- Il critico e il suo pubblico
- Dai laboratori: decaloghi per la scrittura
- Dai laboratori: lo spettacolo e l’artista
- Per tracciare nuove mappe
- Dalla scena verso il mondo
- L’opera e il pubblico
- Critici impuri, mutanti e altre specie nascenti
- Critici e storici
Appendice
Al lavoro in un quotidiano
Il “Quaderno del Festival” di Santarcangelo
Un gesto per inventare possibilità
Verso un “Quaderno” laboratorio
Il successo e i punti di crisi
Contraddizioni e consigli per non concludere
Bibliografia
Introduzione
Questo libro nasce da un’esperienza concreta, realizzata a partire dall’anno accademico 1998-99 nei laboratori di critica teatrale che ho condotto presso il Centro Interfacoltà di Musica e Spettacolo (CIMES) dell’Università di Bologna, in collaborazione con il Dipartimento di Musica e Spettacolo[1]. Mi sono confrontato per vari inverni con gruppi di studenti, ogni volta diversi, per osservare, analizzare, raccontare lavori presentati nelle stagioni teatrali bolognesi. Li ho portati a misurarsi con i problemi dello spettacolo contemporaneo, quello che non è ancora storicizzato, quello che sfida la nostra diretta percezione cercando di interpretare i tempi in cui viviamo.
Il presente volume non intende descrivere, però, un’attività pratica in modo cronachistico: cerca piuttosto di disegnare i contorni di un laboratorio “ideale”, enucleando temi e problemi della critica teatrale, sintetizzando e montando riflessioni, materiali e spunti osservati ed elaborati nelle diverse edizioni di un percorso totalmente sperimentale. Enunciazioni, ipotesi, domande, resoconti, prove di critica sono intrecciati con documenti, storici e contemporanei, con considerazioni metodologiche e teoriche.
Ogni capitolo conterrà in chiusura, una sezione intitolata Il laboratorio in cui propongo al lettore esercizi di osservazione e di scrittura. Nel capitolo ottavo, nei paragrafi Dai laboratori, riporto alcuni esempi dei lavori sviluppati in questi anni. Nell’appendice documento un esito laterale e originale della didattica, calato in una situazione produttiva concreta: la realizzazione di un giornale quotidiano che ha accompagnato, per alcuni anni, il festival “Santarcangelo dei Teatri” avvalendosi dell’opera di critici e cronisti giovanissimi, formatisi nei laboratori universitari. Ha rappresentato un tentativo di sperimentare, in diretta, a ritmi convulsi come quelli di un vero giornale, in uno spazio-tempo concentrato ed eccezionale come un festival di teatro, le contraddizioni e le potenzialità della critica. Cercando di definire le possibilità attuali di una pratica essenziale, da molte parti dichiarata in gran difficoltà.
Un ampio spazio lo dedico ai problemi della critica teatrale, alla trasformazione storica della sua funzione e della figura stessa del critico. Essa è stata considerata a lungo una specie di sorella minore della critica letteraria, una disciplina senza un oggetto materiale e duraturo da analizzare, soggetta a slittamenti fra la cronaca giornalistica, il tentativo di analisi scientifica, la scelta di campo a fianco di artisti innovatori. Perennemente in difficoltà a causa della natura effimera, fuggevole, dell’evento teatrale. Ha sofferto nel corso della sua storia numerose crisi, parallele alle avventure di un’arte e di un artigianato, il teatro, radicalmente messo in discussione nel corso del Novecento dall’avvento di nuovi media e dalla mutazione dei sistemi di relazione sociale.
In Italia il ruolo che consideriamo si definisce compiutamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni nel Novecento. Il critico contribuisce all’affermazione di un teatro basato sul testo, che disciplina l’attore della tradizione “all’antica italiana”[2]. Seguirà con partecipazione l’avvento della regia e la sosterrà nelle sue battaglie volte a ridefinire lo spettacolo come atto creativo autonomo. Si ritroverà smarrito o diversamente galvanizzato di fronte all’esplodere dei nuovi linguaggi della scena e alla richiesta di un uso politico del teatro.
Gli anni a cavallo del sessantotto mettono in discussione molte certezze del teatro italiano: si parla di crisi dell’interpretazione, di rifiuto del personaggio, di negazione della parola, di esaurimento del ruolo del regista; si cerca di trovare una necessità politica, comunitaria, esistenziale al teatro. Più in generale, si richiede la trasformazione radicale di un’intera concezione delle arti della scena.
E il critico inizia a sentirsi a disagio: si riducono gli spazi sui tradizionali mezzi di diffusione dei suoi scritti, i quotidiani in particolare; vengono messi in discussione il suo modo di guardare e il suo ruolo di giudice, di Re-Censore. Gli si richiede di trasformarsi in “osservatore partecipe”, o addirittura in testimone parziale e schierato[3].
Oggi abbiamo bisogno di nuovi sguardi. Dopo le diverse “rotture” operate nel Novecento da artisti innovatori, via via definiti avanguardie, neoavanguardie, postavanguardie, sperimentazione e ricerca, l’arte del teatro tende sempre di più a superare i suoi limiti e i suoi tradizionali statuti disciplinari, affrontando territori di confine fra i linguaggi, fra differenti pratiche creative, fra realtà e rappresentazione. Lo stesso termine teatro, in realtà, riassume in sé esperienze, punti di vista, assunti poetici diversissimi, sì che a buona ragione possiamo usarlo al plurale e parlare di teatri, per indicare un’irriducibile molteplicità.
La vecchia critica ha ridotto le proprie pretese dal respiro dell’ampio elzeviro scritto in punta di penna, discendente della prosa d’arte del primo Novecento, al breve commento della serata; in molti casi è stata scalzata dall’intervista e dalla presentazione. Eppure nuovi compiti si possono aprire per chi voglia aiutare a comprendere un teatro sempre più inquieto, intento a scavare sotto le apparenze e le visioni rassicuranti.
Assistiamo pure ad alcuni fatti nuovi: a un interesse dei giovani non solo per la pratica delle arti della scena, ma anche per tragitti di studio che vogliono approfondire gli elementi dello spettacolo. Un segno è la moltiplicazione dei corsi di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS). Un altro è il proliferare di laboratori di critica teatrale presso teatri e istituti universitari (e anche di concorsi, in cui si propone a studenti di diversa età di recensire spettacoli di festival e stagioni teatrali). E’ evidente il bisogno di ritrovare mezzi per guardare, per analizzare, per capire l’azione degli artisti e per connetterla ai problemi del nostro tempo.
Da attività diverse e sempre più diffuse, da una sperimentazione incessante che da più parti si è sviluppata in questi anni, con l’invenzione di nuovi spazi nelle radio e in internet, con iniziative editoriali di compagnie, teatri, gruppi di critici e studiosi che hanno prodotto libri e riviste, con il moltiplicarsi di incontri e dibattiti, nasce una nuova considerazione della critica teatrale. Essa sembra diventare una possibilità, una risorsa, una passione più che una funzione in crisi. Le pagine che seguono proveranno a viaggiare, sulla scorta dell’esperienza dei laboratori, fra i suoi problemi, le sue pratiche e le sue prospettive .
Ringrazio Marco De Marinis, che ha voluto questo volume, e Gerardo Guccini, che ha seguito e propiziato tutto il percorso dei miei laboratori di critica teatrale, nel 1998 al “Festival della Terra delle Gravine” e poi al CIMES dell’Università di Bologna. I suoi preziosi consigli, inoltre, mi hanno aiutato a precisare il piano del libro.
Alcune delle idee in esso contenute nascono dalle lunghe conversazioni con Leo de Berardinis e Paolo Ambrosino, seguite all’apertura del Teatro Laboratorio San Leonardo (Bologna, 1995), da riflessioni ed esperienze sviluppate con Gianni Manzella e altri amici e colleghi, dal confronto con i laboratori condotti da Valeria Ottolenghi per l’Associazione Nazionale Critici di Teatro, dal dialogo con i tanti allievi di questi anni.
Ho debiti di riconoscenza di varia entità con Valentina Bertolino, Claudia Cannella, Elisa Fontana, Simona Nordera, Rodolfo Sacchettini, Vittoria Sardella, Giuliano Scabia, Mariateresa Surianello.
Questo lavoro ha assunto la sua fisionomia anche grazie ai suggerimenti e alla presenza affettuosa di mia moglie Rita.
- Che cos’è la critica teatrale?
1.1. La memoria dello sguardo
La critica teatrale si esercita sulla memoria. Quando il critico scrive non ha più sotto gli occhi l’oggetto di cui sta trattando. Deve far tesoro del modo in cui ha guardato: il suo è un atto differito che tenta di riprodurre un’esperienza complessa – visiva, auditiva, sensoriale, emozionale, intellettiva – per rintracciarvi un senso. Tale esperienza può sfociare in un racconto, in un’interpretazione, in una contestualizzazione dell’oggetto osservato, in una sua valutazione, in una presa di posizione. Si manifesta per lo più in un atto di scrittura che conclude un articolato rituale sociale che ha il suo centro in un’esperienza artistica: apre successive possibilità di discussione, ridefinizione, trasformazione.
Il percorso inizia dalla scelta dello spettacolo da vedere (da recensire), dai contatti con il caposervizio del giornale sul quale si scrive, da quelli con l’addetto stampa della produzione o della struttura ospitante, eventualmente con artisti della compagnia che va in scena. Il rituale sociale si sviluppa nel foyer, con l’arrivo a teatro, l’acquisizione dei biglietti e di eventuali materiali sullo spettacolo (forniti dai responsabili dell’ufficio stampa), gli incontri con conoscenti, amici, altri critici eccetera. Poi, in sala, quando si spengono le luci e si apre il sipario (o in altri modi comincia lo spettacolo), si esercita lo sguardo. Infine, con una certa distanza, avviene l’atto di restituzione attraverso la scrittura: e qui il percorso può essere convulso ed è sempre piuttosto complesso.
La critica, definita “militante” per distinguerla da una riflessione con tempi più lunghi, si esercita tradizionalmente sui quotidiani[4]: fra il vedere e lo scrivere passa poco tempo. Più disteso può essere l’intervento su altri mezzi di comunicazione, come le riviste settimanali o i periodici specializzati, con cadenza di uscita mensile o trimestrale. Quanto più ampio, però, è il tempo che trascorre fra l’evento e la scrittura, tanto più lontana si fa l’esperienza e più intenso deve essere l’esercizio di memoria, che, in ogni caso, va nutrito con l’ausilio di documenti.
Il problema prioritario da affrontare per definire la critica militante è quello di capire cosa succede durante l’atto dello sguardo e quello del racconto. Senza dimenticare che precedentemente si compie un rituale sociale, che prima ancora si è svolto il lavoro artistico, che dopo la pubblicazione del resoconto ci saranno delle reazioni (o perlomeno questo è l’auspicio di chi scrive). E che intorno allo spettacolo si sviluppa un complesso sistema dell’informazione, della comunicazione, nel quale il critico agisce e che collabora a formare. In sintesi: cosa fa il critico? Come si confronta con le opere e con le loro modalità produttive? Cosa gli chiede o impone il sistema dell’informazione? Cosa si desidera o si pretende dalla critica?
Dichiariamo subito che ogni risposta univoca e ogni definizione corrono il rischio di risultare sempre troppo strette, perché la critica teatrale vive un momento di subbuglio, di riformulazione, di perdita di identità e probabilmente anche di senso. Si può procedere solo per approssimazioni successive, da verificare, smontare, riformulare continuamente nel corso della nostra discussione.
1.2. Definizioni provvisorie
Partiamo da lontano. I kritai erano dieci cittadini che nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo dovevano guardare le tragedie e, attraverso un complicato sistema di votazione, designare il vincitore degli agoni drammatici. Erano scelti per estrazione a sorte, uno per tribù, per garantire una rappresentanza di tutte le unità territoriali della città; probabilmente anche per evitare favoritismi nei confronti di drammaturghi di una determinata tribù. Le loro preferenze venivano inserite in un’urna. Da questa ne venivano estratte solo cinque: la vittoria veniva assegnata da un giudizio, ma anche da un concorso del caso, o del fato, forza che governava la vita dei greci.
Lo scrittore Giuseppe Pontiggia, presentando un convegno sulla critica letteraria organizzato dalla rivista “Letture” nell’ottobre del 1998, chiarisce le origini della parola “critica” e spiega i modi in cui questa attività si dispiega:
[…] la fonte della parola “critica” la si scopre nel pianoro omerico del verbo krino e offre una prima sorpresa, che si rivelerà poi una conferma, come sempre quando ci si imbatte in una verità: la fonte si dirama a sua volta in tre correnti, separare, scegliere e giudicare. […] Si comincia con una operazione necessaria quanto catastrofica, che è quella di dividere, disgiungere, distinguere. Per capire quanto questa operazione sia oggi impopolare basta pensare al mercato che tende alla operazione contraria, a mescolare, congiungere e confondere in un solidarismo fra patetico ed economico, fra velatamente commosso e occhiutamente finanziario. Al separare segue fatalmente un’altra operazione dolorosa, scegliere, quanto mai ripugnante a un’epoca come la nostra, che fa della non scelta, in ogni campo, la scelta cosiddetta vincente […].
L’ultima accezione del krino, giudicare, sembra la conseguenza inevitabile di separare e scegliere, ma proprio sul giudizio gravano i sospetti maggiori. Trascuriamo i più conosciuti (amicizie, alleanze editoriali, ammiccamenti politici). Si è cercato di sottrarre il giudizio all’impressionismo estetico e di fondarlo su parametri scientifici. La loro utilità però è inversamente proporzionale al valore delle opere: altissimo per le piccole, marginale per le grandi. La prospettiva storicistica, fondamentale per il passato, rischia di trasformarsi, se applicata al presente, in una ipoteca sul futuro, oscillante fra un sociologismo immaginario e un profetismo retrospettivo. Quanto al gusto, è lo stesso storicismo che ha insegnato a diffidarne, circoscrivendone la nicchia ecologica e la cornice temporale. Un uso eclettico delle diverse prospettive sembra essere la risorsa più proficua, almeno per la critica del presente, trasformando un punto di vista caleidoscopico in una angolazione unitaria[5].
Naturalmente, Pontiggia si riferisce all’ambito della critica letteraria. Possiamo adattare, però, alcune sue osservazioni al nostro campo.
Carla Benedetti, una studiosa di letteratura italiana, ci fornisce un’ulteriore interessante traccia per iniziare a comporre un quadro delle possibili funzioni e dei compiti della critica:
Della critica non si possono dare definizioni normative, come non le si possono dare della letteratura e di altre forme di arte. Ma se c’è una cosa che certamente non può esserle disgiunta è proprio l’attitudine a disfare le credenze, le finzioni e le illusioni culturali che in ogni epoca si costruiscono, con tutto il loro corredo di concetti manieristicamente riproposti all’autoconvalida, e che finiscono per fare da ostacolo al pensiero e all’azione[6].
Il procedimento analizzato da Pontiggia trova una materializzazione suggestiva in questo cercare di disfare concezioni pigre, “illusioni culturali”, finzioni spacciate per verità, applicando una gaddiana euresi[7] che rende il critico capace di rompere i recinti degli specialismi e di
[…] restituire alla visione critica tutto il polipaio vivente di relazioni (come le chiamava Gadda) di cui è fatta la realtà, tutte le sue “datità lancinanti” (come le chiamava Pasolini), tutto il peso dei corpi e della materia[8].
La critica dovrà considerare il sistema produttivo presente, quello che crea metalinguaggi normativi, rinnovare il proprio sguardo e rovesciare le concezioni accreditate, saper riconoscere e valutare l’opera di artisti che cercano di rompere le convenzioni. In questo senso il critico, come l’artista, deve essere anche un decifratore di visioni complesse, di prospettive estetiche e sociali inedite. Deve essere in grado di smontare i meccanismi della società dello spettacolo[9], di cogliere prospettive che dall’opera considerata rimandano a un confronto serrato con la realtà. L’osservazione di quell’arte vivente che è il teatro può riaprire le strade verso una realtà sempre più travisata dalle rappresentazioni dei media, resa sfuggente, inconoscibile, non trasformabile dai travestimenti ideologici, privata dell’esperienza e della memoria, ridotta a puro valore di scambio, costretta in comportamenti autoreferenziali e mistificanti[10].
1.3. L’osservatore smarrito
Se ci spostiamo a considerare, invece, i testi di critica teatrale prodotti a partire dagli anni sessanta, in concomitanza con quel fenomeno variegato definito “nuovo teatro”, che rifiuta la preminenza del testo drammatico, si ribella alla dittatura del regista, muta i modi di fare, produrre e fruire lo spettacolo, troviamo manifesti i segni di una crisi, non solo della disciplina ma soprattutto di chi la esercita.
In vari convegni, a partire da quello intitolato Situazione e funzione della critica teatrale, tenutosi nel settembre del 1969 a Ca’ Giustinian a Venezia, indetto dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro in collaborazione con il Centro Culturale Olivetti e con la Biennale, si discute del mutato ruolo del critico teatrale nel sistema delle comunicazioni di massa, dell’asciugarsi della critica da ampio pezzo con ambizioni letterarie a stringato resoconto, della riduzione degli spazi per l’approfondimento del teatro sui giornali[11]. Ma già nel 1967 il convegno di Ivrea, convocato da un gruppo di artisti e di intellettuali che stavano abbandonando la tradizione per sperimentare relazioni e forme di creazione diverse da quelle del passato, si era interrogato, fra i molti argomenti trattati, anche sul ruolo che stiamo considerando[12],
Il critico si è sentito sempre più emarginato sulle pagine di quei giornali dove era nato come cronista di un genere artistico e mondano centrale nell’Ottocento, dove si era accreditato come intellettuale di prestigio, analista e giudice, nel primo Novecento; dove aveva combattuto battaglie culturali, interpretando le novità apportate al teatro da nuovi autori e da attori capaci di abbandonare le approssimazioni per dedicarsi all’interpretazione dell’opera; dove, dopo la seconda guerra mondiale, aveva accompagnato con diffidenza o entusiasmo l’ascesa di registi che avevano affermato la centralità della composizione dello spettacolo come operazione critica.
Intanto il cinema, la radio, in seguito la televisione raccontavano storie con più agilità a un pubblico enormemente più vasto, meglio le inserivano in ambientazioni verosimili. Il teatro diventò una specie di salotto buono della società, un luogo dove ritrovare il profumo di una tradizione; oppure, al contrario, lo spazio ideale per fermare il frastuono dello spettacolo e aprire lo sguardo verso una realtà più profonda, meno apparente, meno falsificata. Luogo teso a dilatarsi, in coincidenza con le speranze di rinnovamento degli anni sessanta e settanta, aperto alla società, alla ricerca delle sue proprie radici di assemblea ideale (e conflittuale) della città, della comunità. Laboratorio disponibile a ogni sperimentazione linguistica, a ogni esplorazione di diverse ipotesi di relazione, di socialità, fino a mettere in crisi i propri stessi fondamenti.
Il critico che si era formato fra il primo e il secondo dopoguerra si trovò spesso smarrito in questa doppia mutazione: da una parte sempre più disconosciuto all’interno dei giornali, limitato nelle sue possibilità di espressione; dall’altra con difficoltà a capire i nuovi territori del teatro, incapace di adattare il proprio sguardo, la propria scrittura, i propri criteri al nuovo fervore di ricerca. Marcato da tre solitudini, come ebbe a notare Roberto De Monticelli nel convegno di Venezia del 1969, alla fine di un decennio di grandi conflitti e trasformazioni.
La prima è quella che il critico vive nel suo ambiente di lavoro giornalistico, che sempre di più gli chiede cronaca o colore, in cerca di
[…] un certo “scandalismo culturale” (o “terrorismo”, qualche volta) che si è diffuso in questi anni non soltanto nel campo del teatro […] sul quale il giornalismo, se gli capita (e chi gli può dar torto?) soffia a gole piene[13].
La seconda solitudine è quella nei confronti dell’ambiente del teatro: una distanza che – per De Monticelli – ha a lungo costituito la forza del critico, la sua indipendenza, più volte attaccata dall’invito alla “critica costruttiva” (sotto il fascismo, per esempio) o a “sporcarsi le mani”[14], ad abbandonare la distanza per partecipare più intensamente, come consigliere, come collaboratore, a un progetto di rinnovamento teatrale, sia quello dei teatri stabili o quelli, plurali, della ricerca. Infine, la terza solitudine è quella della separazione fra il critico e la cultura letteraria, “con la letteratura attiva, con l’ambiente degli scrittori, appunto, militanti”[15]. Sintomo di una più ampia divisione fra teatro e letteratura, testimoniata qualche anno prima anche da un’inchiesta della rivista “Sipario”[16].
La figura del critico, al termine del primo ciclo del nuovo teatro, appare sospesa fra molte tensioni, che sembrano costituire anche un po’ della sua natura polimorfica. Fra il giornalismo, l’ambiente del teatro, la letteratura.
Ferdinando Taviani, alla fine degli anni settanta, prova a fare il punto sulla situazione e sui problemi del nostro oggetto di indagine. Parla di natura “anfibia” necessaria al nuovo critico, che viene dalla scrittura e vive nel teatro, come il Wilhelm Meister di Goethe. Per risolvere il problema della posizione di chi osserva lo spettacolo, propone uno spostamento del critico e dello studioso in direzione di un più netto coinvolgimento nel lavoro teatrale, attraverso una “presenza sul campo” e una “osservazione partecipe” capaci di aprire il varco verso altri territori della critica: “non del ‘giudizio’, ma del distacco dal precedentemente conosciuto, della ricerca”[17].
Una sintesi dei problemi della critica di fronte a un teatro rinnovato, interdisciplinare, che estende il concetto di opera aprendolo a quello di processo, che trasforma la creazione in procedimento critico e metalinguistico, che pratica varie forme di dilatazione dei parametri spazio-temporali e delle procedure artistiche, è svolto da Marco De Marinis nella relazione introduttiva al convegno dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro tenutosi a Milano nel giugno 1980:
- In primo luogo la specializzazione del critico è troppo settoriale, poco aperta […] ad apporti pluridisciplinari e scarsamente interessata a cogliere i nessi sempre più fitti che, come si è visto, collegano fra di loro le diverse discipline artistiche;
- in secondo luogo, nell’intervento del critico il momento valutativo viene, in genere, eccessivamente privilegiato su quello analitico-interpretativo;
- per giunta, il giudizio assiologico continua a fondarsi quasi soltanto su criteri strettamente estetici, che, da un lato, appaiono di sempre più incerto e problematico fondamento (dato il moltiplicarsi delle tendenze, degli stili, delle poetiche e il diversificarsi di gusti e interessi fruitivi), mentre, dall’altro […] sono sempre meno in grado di cogliere l’intera (la vera) portata e la significatività reale di molti fatti che si danno oggi nel campo delle cosiddette “arti”;
- d) c’è poi la tendenza, più volte qui richiamata, a considerare soltanto l’opera, il prodotto finito, invece di seguire il processo di generazione del testo estetico in tutto il suo svolgimento, studiandone il “prima” e il “dopo”, oltre che il “durante”;
- e) la posizione del critico continua, perlopiù, ad essere una posizione di superiorità e di estraneità rispetto al lavoro artistico[18].
De Marinis rimarca la distanza del critico-giudice dai processi reali del teatro. Lo studioso avanza, nel seguito dell’intervento, la proposta di un’applicazione dei metodi della semiotica, magari in relazione con quelli della critica sociologica dell’attività teatrale, come una possibile strada per superare la crisi nella prospettiva di una “rifondazione teorica dello statuto della critica delle arti”[19].
- La crisi del pubblico
Allo smarrimento del critico corrispondono varie, parallele, perdite di coordinate. Mentre diminuisce lo spazio sui giornali non si sa più, neppure, se qualcuno le legga quelle poche e brevi recensioni che riescono a essere pubblicate, e che effetto sortiscano. Nel clima postsessantottesco si iniziano ad analizzare le condizioni produttive entro cui opera il critico. Lo scrittore Franco Cuomo osserva, nel convegno di Venezia del 1969:
Noi viviamo in una società di produttori e di consumatori, intendendo produzione e consumo in funzione del lucro. Ogni valutazione, di conseguenza, è in funzione del lucro. Il giornale, a questo punto, in una società siffatta, è strumento di informazione a condizione che possa contemporaneamente essere strumento di lucro.
E’ evidente allora che le notizie più consumate finiscano per avere più spazio – intendo proprio materialmente spazio – di quelle meno consumabili. Da qui sorge per la redazione l’esigenza di registrare, e perciò anche commentare, s’intende, con maggiore o minore rilievo a seconda dei casi, certi fatti invece di certi altri: in funzione della consumabilità di ognuno.
Ora, perché il critico teatrale dovrebbe sfuggire, in una società così congegnata, perché proprio lui dovrebbe sfuggire a questa regola?
Non sfugge[20].
Se le redazioni sono più interessate a interviste, presentazioni, articoli promozionali piuttosto che a documentate analisi, il pubblico si lascia ancora orientare dal critico? O compra il teatro come un qualsiasi altro prodotto, sedotto più dalle trombe pubblicitarie, dalle dichiarazioni a effetto, dai titoli che promettono scandali o esibizioni di attori accreditati dalla loro notorietà televisiva, piuttosto che dalle dissezioni dello specialista?
Un’altra interessante osservazione da Venezia 1969 è quella del critico Domenico Danzuso:
La verità è che nell’economia del giornale le nostre rubriche hanno un’importanza molto limitata. Poiché dei centomila spettatori, di fatto, pochi sono i nostri lettori. A chi ci rivolgiamo? Molta parte della borghesia non ci sente più vicini ai propri intendimenti: da oltre dieci anni non facciamo che contestare il teatro commerciale che è proprio quello che la borghesia accetta. Essa spesso ormai ci guarda o come traditori, o con curiosità, o con sospetto. Abbiamo acquistato lettori certamente; ci segue con attenzione una certa borghesia illuminata; ci segue una piccolissima élite di pensiero[21].
Il critico si va distaccando dal suo interlocutore tradizionale? La sua attività diventa “di nicchia”. Ma sappiamo che qui, nelle nicchie, in anni più vicini a noi, sarà da giocare la scommessa del rinnovamento: non esiste più un unico uditorio indifferenziato di appassionati, di frequentatori abituali, di potenziali “abbonati”, ma ci sono tanti segmenti di pubblico con interessi spiccati, che possono orientare un più vasto interesse. Anzi, il nuovo teatro si rivolge spesso a uno spettatore non teatrale, scatena incontri coinvolgenti facendo leva su urgenze politiche o espressive che ricorrono a diversi linguaggi contemporanei. Dalla scoperta di una comune necessità, la relazione si allarga per sconfinamenti e per contagi; spesso esce dai limiti stessi del teatro, come negli interventi artistici in situazioni di esclusione o di disagio sociale.
Spostandoci alla fine degli anni settanta, incontriamo ancora domande attuali. Ugo Volli, critico teatrale di “Repubblica” e docente universitario al DAMS di Bologna, in un articolo comparso sul citato numero di “Quaderni di teatro”, prova a effettuare una disamina feroce della crisi della critica, interrogandosi proprio sulle sue capacità di arrivare allo spettatore:
Qual è oggi la funzione della critica rispetto al circuito dello spettacolo? “Orientamento” del pubblico: pressoché nullo, soprattutto nei casi dei teatri affermati. Stimolo dei teatranti: supposto ogni tanto per cortesia, ma altrettanto scarso. Promozione di tendenze nuove e fenomeni poco noti: differenziato territorialmente e in calo. Informazione dall’estero: scarsa e solo in casi canonici. Abbellimento estetizzante dei giornali e dei periodici che li ospitano: letterariamente povero. Pezze d’appoggio per politiche di finanziamento del ministero e degli enti locali, oltre che per i circuiti provinciali: è la sola funzione reale, ma spossessata dalle mani dei critici; funziona piuttosto statisticamente e per testata[22].
La soluzione che, con molti dubbi, propone Volli è ancora quella di uno spostamento del critico dalla posizione mediana che costituiva il suo stato agli inizi del Novecento (fra attori e pubblico), e gli consentiva di accreditarsi attraverso il racconto, il commento e soprattutto il giudizio. Il critico – secondo il nostro autore – dovrebbe dislocarsi dalla parte del teatro, dentro o perlomeno più vicino ai processi di produzione di un’arte che tenta di abbandonare la levigatezze dei prodotti, degli spettacoli, per trasformarsi in una ricerca continua, vitale e soggettiva. Accettando tutte le contraddizioni insite nella difficoltà della situazione e della sua stessa proposizione, lo studioso conclude:
Si può tentare una sorta di antropologia del soggetto collettivo produttore di teatro […]: cercare di comprendere i bisogni, i desideri, le necessità che portano oggi a un’impresa “assurda” come il teatro. Si può insomma fare in qualche modo della biografia[23].
Una biografia del teatro (e soprattutto di chi lo fa) che diventa anche dialogo con quegli spettatori inquieti che iniziano a rifiutare il vecchio teatro, sentito come un immobile museo, e a cercare sulla scena, in relazione con la scena, una complicità capace di toccare e trasformare la loro propria soggettività. A partire dagli anni settanta, molti giovani si trasformano in frequentatori di laboratori, al seguito, anche solo per pochi giorni, di maestri più o meno illustri, o magari di allievi di maestri, o di allievi di allievi. Cercano non solo di vedere il teatro, ma di praticarlo personalmente, spesso non con scopi professionali: per “esplorarsi”, per “cercarsi”, per mettere completamente in gioco il proprio “vissuto”. Da questa forma di pedagogia diffusa nascono alcuni degli attori dei nuovi gruppi e molti “animatori” di diverse situazioni (teatro nelle scuole, in luoghi di disagio eccetera). Ma soprattutto si forma quel nuovo pubblico competente e partecipante tante volte invocato[24].
1.5. Con gli artisti, fuori del coro
Altre strade possiamo percorrerle in compagnia di alcuni artisti.
Leo de Berardinis, rispondendo a un’inchiesta del Patalogo 18 sul senso della critica, riepiloga gli scontri e gli scambi seguiti al convegno di Ivrea:
[…] la critica si divise decisamente in due fronti: uno sosteneva un teatro che chiamavamo ufficiale; l’altro, minoritario dal punto di vista quantitativo, si schierò per un rinnovamento del teatro italiano. Una parte della critica ebbe l’onestà di registrare il cambiamento già avvenuto sui palcoscenici, di confrontarsi con un processo che era in atto, sostenendolo e, in alcuni casi, incalzandolo.
Dopo, ricordo nottate di discussione tra noi artisti e alcuni critici, in cui si cercava di definire un nuovo modo di concepire l’evento teatrale. Arrivammo a ipotizzare la critica come atto poetico nei confronti della scena e l’atto poetico come operazione critica. Venivano cancellati limiti e confini[25].
Leo nota che quel fervore si è in parte spento, in una società che cerca di impedire, in generale, la mentalità critica. E lancia due idee, che artisti e osservatori dovrebbero perseguire insieme:
[…] si dovrebbero rivendicare spazi democratici all’interno dell’informazione e si dovrebbe lottare per creare nuovi spazi all’interno del sistema teatrale attuale, per rifondarlo. Gli artisti più consapevoli stanno già cercando di percorrere nuove vie di produzione e di distribuzione. La critica dovrebbe inventarsi, non per imitazione ma per analogia, le proprie “cantine” romane. Per fare questo abbiamo bisogno di lavorare insieme, senza confusione di funzioni, operando scelte, discriminazioni, ma anche coinvolgendo in un confronto non demagogico, non strumentale, i possibili politici “illuminati”, se esistono, cercando di non fermarsi al teatro ma di allargare il discorso a tutta l’arte scenica (l’opera lirica, la danza, eccetera)[26].
Un’altra strada è quella indicata da Romeo Castellucci, fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio, la compagnia più radicale del teatro di ricerca italiano:
L’idea che generalmente si ha della critica è quella di una riga tra due mondi non di per sé comunicanti: l’arte e gli spettatori. La critica è nata genealogicamente e psicologicamente soggetta all’arte, e ha dovuto preoccuparsi di farsi dialettica e orientarsi verso una direzione pontificale che finalmente avrebbe acceso un dialogo, seppur fittizio, tra le due parti. Ora, per il mio luogo di provenienza – il teatro – e per la metafora che qui evocherò, associo la critica al ronzio del Coro nella tragedia attica; al suono sordo del suo sforzo muscolare per comunicare l’osceno (l’incomunicabile) e la “scena della crisi”. […]
Il Coro si muove nel gioco estenuato del pendolo demagogico le cui estremità risuonano come l’arte e la città. […]
Il Coro, con il suo discreto ingresso e con il suo stare appartato – appunto a lato del teatro – modera il mito, rendendolo di fatto, impossibile o inattuale. Il Coro spiega senza coraggio la lezione agli spettatori, frantumando il centro della scena. Ora, infatti, i centri sono due, e, laddove ve ne sono due, potrebbero esservene otto, ecc… L’opera diventa, insomma, “plurale”. Non ha più centro (per giocatori dei segni è una benedizione)[27].
L’atto di scrittura come mediazione, viene messo in profonda discussione, tanto più che intorno al teatro non esiste più una città, una comunità della quale la tragedia incarna i miti. Cosa resta da fare, allora, al critico? Castellucci suggerisce una strada impervia, con toni profetici. Sembra di tornare in un tempo anteriore al nostro punto di partenza, alle votazioni dei kritai con il destino a fare da undecimo:
La critica dovrebbe uscire dalla città. Il corifeo o – fuor di metafora – il critico, dovrebbe trovare il coraggio di seguire di nuovo i sentieri delle capre e svuotare il proprio oggetto; allontanarsi dall’eresia didattica che la città gli impone e smettere i panni benevoli della prolissità. Il corifeo tornerebbe allora alla condizione da cui, probabilmente, proviene: essere un vecchio satiro che fa della sorpresa la sua arma e che consuma tutto sul posto. Alla macchia! Mai nell’arte: ma sopra di essa, sotto di essa, o a destra o a sinistra. Il corifeo dovrebbe forse divenire l’anticorpo stesso dell’arte: il suo antidoto. Antidoto così forte da confondersi con il veleno. Da confondere il veleno[28].
Dov’è quel poetico sopra o sotto, a destra o a sinistra? Al di là di una rottura, di una mediazione. Forse nella potenza della scrittura, sicuramente nella “retorica”, perché:
[…] occorre drammatizzare l’ineluttabile: il fatto che siamo stati gettati nel linguaggio, abitando la pletora del linguaggio. Due volte: per dimenticare. Ottenere tutto nella consapevolezza della propria corruzione da un corpo di verità. Studiare Quintiliano: ecco cosa dovrebbe fare la critica, e dirlo con la gola sessuale di Artaud[29].
1.6. Le domande sperimentali del laboratorio
Fra sguardo e memoria, scrittura e corpo, giudizio ed euresi, recinti della società dello spettacolo e mobilità del reale e dell’immaginario, sistema della comunicazione e solitudine del critico; fra critica come funzione di un sistema produttivo e come attività “sul campo”, “autobiografia”, “testimonianza partecipata”, empatia, atto poetico, relazione con il pubblico e scissione dal ruolo didascalico e impotente del coro si è svolto negli ultimi trent’anni il dibattito. Torneremo su questi temi con altre testimonianze, con altre contrapposizioni, che hanno diviso vari soggetti, artisti e critici, critici giornalisti e storici del teatro, e fra di loro i critici “militanti” stessi.
Abbiamo scelto di iniziare a rappresentare il nostro campo di indagine con questo caleidoscopio di posizioni e con questa immagine negativa di un disagio che ha bisogno di ridefinire radicalmente i termini della questione – il rapporto fra il critico, colui che esercita lo sguardo, e l’oggetto dell’indagine (il teatro, un insieme di pratiche e sistemi creativi e produttivi) – perché costituiscono il punto di sfiducia e di svolta, l’inizio della ricerca di quelle strade nuove che Leo de Berardinis auspicava, che Romeo Castellucci invocava.
Abbiamo registrato, per quanto riguarda le posizioni dei critici teatrali, soprattutto i termini di un dibattito molto intenso in anni piuttosto lontani, fra quel convegno di Ivrea, che accreditò definitivamente l’esistenza di un nuovo teatro, e gli albori di un’epoca in cui si inizia a parlare di “ritorno all’ordine” nel teatro[30], di “riflusso” nella società, di “ruolo a esaurimento”[31] per il critico.
Dopo, abbiamo vissuto una stagnazione civile e del teatro lunga quanto tutti gli anni ottanta; poche erano le eccezioni, i luoghi dove si continuava a coltivare i dubbi e le differenze. Sono venuti, poi, i tempi del risveglio, della ricerca di visibilità di esperienze teatrali che avevano resistito alla normalizzazione o di giovani che avevano iniziato a sperimentare nuovamente, rompendo le abitudini estetiche e organizzative di un sistema chiuso, misurando il teatro con altre arti, varcando i confini disciplinari, confrontandosi con la società dei flussi immateriali, della comunicazione totale, dello spettacolo[32]. Questa fioritura, subito in conflitto con un sistema teatrale pronto a richiudersi su se stesso, e lo sviluppo di strumenti di creazione e comunicazione più duttili, veloci ed economici, hanno introdotto scenari imprevisti.
Data per assodata la “solitudine del critico” nel sistema tradizionale dei mass media e anche, in parte, la necessità impellente per questa figura di superare il ruolo del giudice, di rapportarsi in modo differente con il suo “oggetto” di indagine, con lacerazioni che analizzeremo più avanti entrando nelle vicende di alcuni critici, mi sembra che da qualche anno sia ormai acquisita la necessità che la critica ripensi radicalmente ai propri mezzi, strumenti e scopi. La mancanza di certezze, l’affacciarsi di tecnologie facilmente utilizzabili, ma anche di un pubblico diverso hanno in parte mutato le condizioni. Se è certo che il nuovo teatro non ha vinto contro un sistema ancora in gran parte museale, è però sicuro che ha introdotto necessità e modalità creative e operative lontane da quelle del teatro tradizionale.
In una situazione magmatica, di fronte all’urgenza di trovare differenti strumenti di comprensione e di divulgazione, la critica oggi deve avere il coraggio di sperimentare.
In questa direzione si sono indirizzati i laboratori che ho tenuto al CIMES di Bologna. Ho cercato di collegare sempre l’analisi dei problemi storici, teorici, di attualità della critica a domande e compiti concreti. Attraverso la discussione dei modi in cui osserviamo e consideriamo il teatro contemporaneo e attraverso pratiche di descrizione, siamo arrivati spesso a riflettere sul rapporto fra l’arte e la società, la realtà, le nostre vite sempre più espropriate. Proviamo, allora, ad elencare le questioni dalle quali siamo partiti: a esse, in questo volume, cercheremo risposte per molte vie, dirette e indirette.
Compiti e ambiti principali della critica teatrale rimangono lo sguardo, l’analisi, il racconto. L’immedesimazione e la capacità di allontanarsi dall’oggetto.
Come guardiamo uno spettacolo, come lo contestualizziamo nell’opera di un artista o in un movimento teatrale e culturale, dato che spesso non possiamo più raffrontarlo solo con un testo drammatico? Come raccontiamo quello che abbiamo visto, come ci rapportiamo al pubblico dei lettori, come il nostro resoconto è influenzato o determinato dalle “condizioni date”? Diversa è la scrittura per il quotidiano, per il settimanale, per la rivista specializzata; differente è un resoconto in trenta, in sessanta, in novanta righe o il saggio lungo. Quanto il modo di scrivere muta in relazione al media usato, la carta stampata, la radio, la televisione, internet?
Che mestiere è oggi quello del critico teatrale e quali sono i suoi strumenti di lavoro e d’informazione? L’analisi degli spettacoli, eventi effimeri, si avvale di fonti molteplici che precedono o seguono la visione diretta: dall’intervista alla ricerca d’archivio, dalla lettura di comunicati stampa e altri materiali forniti dalla compagnia al saggio storico o critico, dall’iconografia alla videografia alla navigazione su internet.
La critica cerca di restituire il sapore dell’evento e di tracciare un quadro delle sue ragioni. Il suo compito consiste nel giudicare o nel raccontare? Quanto chi osserva il teatro deve essere complice dell’artista o quanto deve mantenere una distanza? Quanto deve essere conscio dei processi di produzione? In cosa il lavoro del critico è diverso e in cosa contiguo a quelli del saggista, dello storico, dello scrittore? Come meglio può aprire prospettive sia per chi ha partecipato che per chi non ha partecipato all’evento scenico? Dall’esercizio della critica si possono dedurre regole di lettura dello spettacolo utilizzabili anche dallo spettatore comune? Quanto ogni evento, con le emozioni e i problemi che impone, riesce a presentarsi come imprevisto, unico, capace di aprire incrinature nelle certezze normative?
Se si analizzano i diversi modi di fare critica teatrale nel Novecento si potrà ricostruire anche, in parte, una storia dei mutamenti delle relazioni fra gli elementi stessi dello spettacolo (teatro basato sul testo, sulla regia, teatro di gruppo, avanguardie eccetera), riconducibili a fenomeni culturali di più ampia portata. Si aprirà una riflessione sulle trasformazioni dei mezzi di comunicazione che condurrà, oggi, a osservare, accanto alla “crisi della critica”, lo sviluppo di nuove possibilità e interessi.
- Leggere il testo o guardare lo spettacolo?
2.1. Fra cronaca e interpretazione
Se ci rivolgiamo alla Enciclopedia dello spettacolo fondata da Silvio D’Amico[33], un’opera sicuramente datata, ma ancora utile per raccogliere informazioni sul sistema dello spettacolo e le sue ideologie fino all’irrompere del nuovo teatro, notiamo che la voce Critica non è svolta. Si rimanda a due lemmi: Storiografia e critica[34], intendendo sotto questa definizione gli studi approfonditi su determinati momenti e aspetti dello spettacolo, e Cronache dello spettacolo[35], che tratta della figura che ci interessa
Prima di riportare la spiegazione, osserviamo come il termine “cronache” sottolinei il legame fra l’attività di sguardo, di resoconto, di riflessione e un avvenimento concreto, una serata in un determinato teatro, un debutto a un festival. E rammentiamo anche che ci troviamo nell’immediato secondo dopoguerra. Questa voce ritrae la condizione del cronista dello spettacolo, definito più avanti anche critico drammatico, prima dei grandi scossoni degli anni sessanta. Siamo a ridosso di un teatro che ha disciplinato le anarchie degli attori di tradizione; dopo la caduta del fascismo sta finalmente cercando di costruire un repertorio anche straniero, e inizia a confrontarsi con la figura del regista e con nuove istituzioni come i teatri stabili. Ritiene ancora il testo drammatico il proprio solido fondamento, ma ormai si avvia a considerare lo spettacolo come un atto da indagare nelle sue specificità.
Questo lemma dell’Enciclopedia sintetizza i costumi di un’epoca, che possiamo identificare con i primi cinquanta-sessanta anni del Novecento, e pure di un periodo del giornalismo e del giornale, mezzo di informazione e di comunicazione ancora principe, non insidiato dalla televisione e dagli altri media più recenti. Passiamo alla citazione, lunga ma necessaria per evidenziare i confini di una professione nel momento di sua massima definizione e successo:
CRONACHE DELLO SPETTACOLO – Sono i resoconti degli spettacoli in quanto tali e in quanto fatti di cronaca e avvenimenti di mondo. Variamente diffuse a seconda dei mezzi d’informazione peculiari alle diverse epoche, esse appaiono in tempi moderni sulla stampa quotidiana e periodica[36].
Da notare il legame fra lo spettacolo e l’avvenimento mondano (e sociale in senso lato), all’interno di una vita culturale ancora più “cittadina” di quella odierna, legata strettamente all’ambiente di un determinato centro, di cui anche l’organo di stampa, perfino quello diffuso su un più ampio territorio, era comunque l’espressione. Ma è utile continuare:
Di natura essenzialmente informativa, non sono da confondere con altre forme di pubblicazione saggistica (v. STORIOGRAFIA E CRITICA) intorno a questioni e fatti inerenti lo spettacolo. In conformità di siffatto carattere informativo, le c.d.s. sono pertanto indissociabili dalle origini e dallo sviluppo dei servizi di informazione e diffusione, specie a mezzo stampa (v. PERIODICI); e nel loro procedere di pari passo con lo sviluppo industriale del giornalismo si sono evolute fino a ricoprire in tempi moderni un ruolo d’importanza primaria nella stampa quotidiana e periodica. In linea generale, si può dire che la tecnica espositiva delle c.d.s. tenda sostanzialmente a soddisfare una duplice esigenza: fornire un ragguaglio immediato e tempestivo da una parte, ma quanto più possibile esauriente dall’altra. In siffatta discordanza, fra le esigenze di una informazione da un lato necessariamente sommaria, e dall’altro invece globale, la necessità di mettere al corrente il pubblico sull’“avvenimento” della rappr. e su taluni dati essenziali si accoppierà sempre in modo commerciale con l’altra necessità, di caratterizzare criticamente il lavoro stesso rappresentato, di metterne in luce pregi e difetti, e insomma di offrirne un’interpretazione. Così oggi come in passato, pertiene dunque alle c.d.s. un carattere giornalistico, non tanto perché esse sono apparse e appaiono generalmente su fogli d’informazione, quanto piuttosto per il fatto che esse si avvalgono, per venire incontro ai bisogni e al gusto del pubblico, di procedimenti e di formule del giornalismo. E’ superfluo poi aggiungere che una formula unica non esiste; e che soltanto a grandi tratti è possibile delineare in blocco la fisionomia d’una produzione che apparirà varia, cangiante e multiforme, a chiunque voglia esaminarla dal punto di vista del suo diverso sviluppo nel tempo, e anche da quello del suo vario atteggiarsi a seconda di popoli e di costumi.
Piuttosto, sarà da rilevare che accanto all’esigenza informativa, trova poi modo d’infilarsi nella produzione delle c.d.s. una folla d’interessi eterogenei (dalla critica al pettegolezzo, dalla polemica alla saggistica, dalla satira al moralismo, ecc.), ai quali esse non possono a meno di obbedire (sic!). Maggiore o minore sarà il valore che esse possono assumere sul piano letterario, quando l’interesse critico prevalga su quello informativo, o viceversa, e a seconda del maggiore o minore talento del cronista (e ciò spiega come le c.d.s. si chiamino correntemente critica dramm. o mus., e critico il loro compilatore); e sempre notevolissimo poi, siccome sono nate al servizio dell’informazione spicciola e riflettono al vivo i lineamenti di una società, il colore di un’epoca, le tendenze e i gusti delle platee d’ogni paese e d’ogni tempo, il loro carattere di testimonianza e di documento[37].
Oggi, qualche passaggio di questo testo può sinceramente stupirci: per esempio quello che evidenzia come la parte critica, il giudizio, l’indicazione se si tratta di un lavoro buono o meno buono, da vedere o da evitare, assume un valore “commerciale”: ossia qualcuno compra i giornali anche per sapere se un determinato spettacolo vale il prezzo del biglietto.
Si delineano comunque i diversi ambiti – “dalla critica al pettegolezzo, dalla polemica alla saggistica, dalla satira al moralismo, ecc.” – di un’operazione riconosciuta insieme di resoconto e di analisi, di servizio e di scrittura. Si definisce, ripetiamolo, un’attività certa, in relazione con una società, perlopiù locale, determinata, sicura di ruoli e rituali, all’interno di un sistema dell’informazione sperimentato e di un teatro ancorato, almeno apparentemente, a regole solide.
Ma torniamo ai nostri giorni.
- Il programma di un teatro
Osserviamo il cartellone modenese della stagione 2003-2004 di Emilia Romagna Teatro, il teatro stabile regionale. Modena non arriva a duecentomila abitanti: questo programma rappresenta quasi tutta l’attività teatrale di questo ricco capoluogo (con l’eccezione di quella musicale e lirica). Possiamo, in altre parole, nella programmazione di ERT ritrovare concentrate tendenze che in un centro più grande (la vicina Bologna, per esempio) dovremmo rintracciare disperse fra diversi luoghi di spettacolo.
La stagione si articola in due spazi, un teatro di impianto tradizionale, lo Storchi, e il Teatro delle Passioni, una sala contemporanea, con gradinata mobile e palcoscenico a terra (un ex deposito degli autobus ristrutturato in modo tale da poter ospitare anche spettacoli con pianta diversa da quella frontale). La programmazione è scandita in tre sezioni: una rassegna che presenta lavori selezionati da festival estivi di tutta Europa, la stagione di prosa dello Storchi, quella più “sperimentale” del Teatro delle Passioni.
Troviamo spettacoli su testi classici e contemporanei, soprattutto allo Storchi: opere di Shakespeare, La brocca rotta di Kleist, Il cerchio di gesso del Caucaso e Antigone di Brecht, lavori di Pirandello, De Filippo, Miller, Pinter; ma anche adattamenti di romanzi come L’armata a cavallo di Babel, scritture per un attore comico solista, Se perdo te, con Vito; recital fra il teatro, la musica e l’immagine: fra tutti citiamo quello che vede uniti il regista Giorgio Barberio Corsetti e il cantante-autore Giovanni Lindo Ferretti.
Sono presenti spettacoli come i racconti di Marco Paolini, che esplorano momenti della realtà sociopolitica, o come quelli con una cifra fortemente visiva di una compagnia giovane come il Teatrino Clandestino. La nuova produzione di quest’ultimo gruppo, Madre e assassina, parte da uno spunto non letterario, l’infanticidio di Cogne, ma fa precipitare il fatto di cronaca in una struttura in cui agiscono le suggestioni del mito e della tragedia di Medea.
Siamo passati, con l’ultimo titolo considerato, alla programmazione del Teatro delle Passioni: vi troviamo, ancora, l’allestimento di un testo di Pier Vittorio Tondelli, ma anche i lavori delle giovanissime compagnie segnalate al Premio Scenario, con la danza ben presente nei loro cromosomi. In quello spazio sono programmate anche esperienze di punta della scena internazionale, che rompono i confini fra le arti. Per esempio, negli spettacoli di Rodrigo García ci troviamo davanti a una continua divaricazione fra l’azione e il testo, fra il corpo vivo, offerto nella sua forza, nell’urgenza di presenza, bisogni, sofferenza, spesso angariato, mercificato, lordato da resti della nostra società dei consumi, e la parola, incorniciata in uno spazio proprio, letterario, di occultamento, o viceversa di documentazione, di svelamento, di protesta diretta. Nella stessa stagione vengono ospitati La chiave dorata, un percorso sensoriale per ragazzi (ma anche per adulti) che trasforma lo sguardo in avventura e lo spettatore in partecipante, e Flicker del newyorkese Big Art Group “una vertiginosa satira della società dei media che mescola disinvoltamente teatro e tv, commedia e film horror, Tarantino e Xfile” recita un comunicato stampa, ampliando lo sconfinamento di genere verso i territori di una “divertente e distruttiva parodia dei reality show televisivi, delle dirette sui luoghi della tragedia, delle cronache in tempo reale, che imperversano in ogni tv”[38].
Non è un mistero: oggi chiamiamo teatro un insieme di creazioni diverse, per il punto di partenza, per il metodo, per la composizione, per il ruolo assegnato ai suoi interpreti, che spesso non sono “attori” nel senso tradizionale del termine, per la capacità di mettere in relazione arti diverse, di aprire l’arte verso la realtà, per indurre relazioni differenti con pubblici differenziati.
Non si tratta più di raccontare con diversi livelli di profondità lo stesso atto, fissato in una convenzione artistica e sociale condivisa, di capire la specificità dei soggetti in cui un genere si ripropone. I compiti del critico si complicano. I suoi strumenti di osservazione devono raffinarsi, nel momento in cui il teatro non è più fondato sul potere generante del testo drammatico e l’avvenimento non è più la serata eccezionale di un tempo libero sostanzialmente borghese, con luoghi, rituali, ambiti definiti. Gli spazi dello spettacolo, le pratiche, le relazioni si sono moltiplicate. Il teatro esprime paradigmi e urgenze dell’epoca in cui cresce: da momento evasivo o di generico accrescimento culturale, a partire dagli anni sessanta si è trasformato in strumento di indagine su di sé e sul mondo, in “itinerario verso le radici del nostro io e dell’ambiente dentro cui ci muoviamo”[39]; si è moltiplicato in “teatri”, è diventato ricerca di relazioni più vere, necessarie.
Lo sguardo del critico ha dovuto dilatarsi[40] di conseguenza. Si confronta continuamente con la necessità di farsi “prismatico”, come sottolineano sette giovani critici[41] in un documento collettivo elaborato nel corso di un seminario di riflessione tenutosi presso il festival “Contemporanea 03”[42]. Il critico dei nostri giorni viene descritto come “critico impuro”:
Una critica impura dovrà dunque adottare uno sguardo prismatico, non solo nell’accezione, ormai acquisita, di una diffusa transdisciplinarietà, quanto di una forma critica lamellare, intuitiva e analitica allo stesso tempo, in grado di individuare il valore teatrale anche se non coincide con un’identità di genere e si riconosce piuttosto nell’estrema mobilità dell’esperienza teatrale. Con una parola già diventata teorema, si potrebbe definire il carattere di questa impurità nella capacità di rendere il proprio sguardo tanto nomade quanto lo richiede l’oggetto teatrale, fino a disperderlo senza nessun complesso di colpa nella frantumazione delle esperienze particolari degli artisti. Questo non significa adbicare al teatro, piuttosto dichiararne la vivacità e individuarne la vitalità, la capacità di dialogare senza compromessi con altre forme artistiche senza perdere la propria incandescenza e identità[43].
Il teatro muta e l’osservatore si spinge fino a quello che a Silvio D’Amico, ma anche a critici più recenti, sembrerebbe un vero baratro: “fino a disperderlo [lo sguardo] senza nessun complesso di colpa nella frantumazione delle esperienze particolari degli artisti”[44].
- La scena del testo
Proviamo a ripercorrere, attraverso le cronache drammatiche e qualche brano di autoriflessione dei critici sul loro operare, un secolo di osservazioni su un oggetto in grande movimento come è stato il teatro fra primi del Novecento e nostri giorni.
Nelle recensioni degli inizi del secolo lo schema è, con alcune varianti, ben definito. Il centro del resoconto è il testo drammatico, eventualmente contestualizzato nell’opera dell’autore, riassunto ampiamente, con maggiore o minore verve a seconda delle capacità del cronista, a volte indagato accuratamente. Lo spettacolo è descritto e valutato in poche note, in genere poste alla fine del “pezzo”. Il critico stigmatizza la prova degli attori attraverso le rapide pennellate di aggettivi fortemente caratterizzanti o genericamente evasivi come il famigerato “puntuale”, che arriva fino ai nostri giorni a indicare un attore che sa stare alle regole impostegli dalla parte (o, più avanti, dal regista) senza debordare e neppure aggiungere troppo di suo. La conclusione, spesso, è affidata all’osservazione di come il pubblico ha accolto la recita.
Questo schema, naturalmente, viene personalizzato dai diversi critici e vivificato dalle diverse situazioni della cronaca: non mancano presentazioni di spettacoli o di serate in cui il protagonista assoluto è dichiaratamente l’attore, le cosiddette “serate d’onore”, in un sistema ancora basato in gran parte sull’attrazione esercitata dal grande interprete. Tuttavia qualche sguardo è attento anche alle condizioni della produzione e dell’organizzazione della vita del teatro.
Negli anni intorno alla prima guerra mondiale molti portano a fondo l’attacco contro un sistema invecchiato, sostenendo la necessità di un “teatro d’arte” dove la prova dell’attore sia al servizio del testo dell’autore, dove lo spettacolo risulti dignitoso e capace e di interpretare i tempi. Si tratta di una pattuglia via via più nutrita, dal precursore Edoardo Boutet (1856-1915), uno dei primi a propugnare la sostenere le nuove istanze e a tentare l’avventura di una compagnia stabile, quella del Teatro Argentina di Roma (1905-1908), a critici “occasionali” come Antonio Gramsci (1891-1937) e Piero Gobetti (1901-1926), che furono principalmente uomini politici, o come Adriano Tilgher (1887-1941), filosofo e critico, il principale interprete dell’opera pirandelliana. Inizia in quello stesso periodo, ma si dispiega oltre la seconda guerra mondiale, l’attività di critici professionisti come Renato Simoni (1875-1952), che fu titolare della rubrica di cronache teatrali del “Corriere della Sera” dal 1914 al 1952, o come Eugenio Ferdinando Palmieri (1904-1968), acuto osservatore del teatro “minore” e dialettale. Fra gli altri, importantissimo è Silvio D’Amico (1887-1955), non solo propugnatore di una nuova critica, ma anche animatore instancabile di un teatro rinnovato, capace di trasformare il suo nucleo essenziale, il testo drammatico, in uno spettacolo rigoroso, in grado di coinvolgere un vasto pubblico. Per lui, fondatore dell’ dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, l’attore deve abbandonare ogni improvvisazione e misurarsi con le innovazioni della regia europea.
Leggiamo una critica di quei tempi, scegliendone una scritta da Gramsci per “L’Avanti” del 9 novembre 1916 su La nemica di Niccodemi:
Dario Niccodemi si è costruito un mito teatrale. Ed esso serve a spiegare in gran parte il successo spettacoloso dei lavori del fortunato scrittore italo-francese. Viene da ripensare alle idee di Riccardo Wagner sul dramma musicale, e al suo rifugiarsi nella mitologia medioevale germanica, per poter dare il massimo di realismo poetico alle creature della sua fantasia, per rendere più sostanzialmente suggestiva la sua musica, trasportando l’uditorio in un mondo soprannaturale, nel quale il linguaggio musicale sia immaginato possibile e naturalissimo. Ma ciò che nel Wagner è ricerca affannosa di maggiore sincerità fantastica, nel Nicodemi è mezzo di successo. Il suo mondo mitologico è l’aristocrazia; il pubblico che affolla i teatri e rende redditizia la professione di scrittore drammatico è la piccola borghesia. L’insincerità di Dario Nicodemi cerca la sua giustificazione, cerca di rendersi naturale e possibile mitizzandosi. Una idea morale, elementarissima, o che riesca a far presa subito sul pubblico sentimentale, pronto a commuoversi e a diventare salice piangente, diventa sostanza di dramma non per forza propria, per la sua profonda umanità, ma perché serve di cauterio e distacca due classi, due concezioni quanto mai fittizie e artificiali: quella aristocratica e quella piccolo borghese. Gli urti che ne derivano, i discorsi che è possibile far fare, le predichette, tutta la cattiva letteratura degli scrittori sociali del basso romanticismo francese come Eugenio Sue, o Dumas figlio, si dànno accolta e toccano il cuore, e strappano l’applauso. Così nell’Aigrette, così in questa nuovissima Nemica. La ficelle è sempre la stessa. Nella Nemica la macchina è anche più complicata, e i precordi vengono più violentemente scossi[45].
La cronaca continua con il riassunto dei tre atti della vicenda, lungo quanto l’acuta premessa socio-letteraria. La nemica è la madre, o presunta tale, di Roberto di Nièvres, erede di un duca. Si viene a scoprire che Roberto è il frutto di un amore colpevole della duchessa, che lo odia, odiando in lui la propria colpa eccetera. Finalmente, la valutazione dello spettacolo:
L’effetto era sicuro, e il successo fu grande, anche per la buonissima interpretazione della compagnia Di Lorenzo-Falconi. L’analisi fatta in principio è l’unica che si possa fare: bisogna giustificare il successo, poiché non lo si può spiegare con ragioni che interessino da vicino l’arte[46].
Qui il giudizio è particolarmente sbrigativo. In altri casi è più articolato, come nella recensione del 12 novembre 1916 a La mare, un lavoro in dialetto rappresentato al Teatro Scribe:
Il teatro non era molto affollato: il successo esteriore fu notevole. La commedia è presentata con abilità. La declamazione fatta in dialetto, perde una gran parte della sua retorica; e del resto nel lavoro non tutto è retorica, e qualche piccola scena è realmente efficace. Tra i personaggi di contorno c’è un alpino gianduiesco, volgarmente e popolarescamente eroico, reso con tutta la volgarità possibile da Mario Casaleggio, tutto da ridere. Così la mozione degli affetti è completata, e l’anonimo autore che abilmente si è saputo servire del materiale emotivo d’attualità, è stato ampiamente premiato delle sue fatiche: cinquecento lire, una medaglia d’oro e il cumulo di pettegolezzi e di ipotesi sul suo anonimo. Quanto basta per rendere felice un letterato anche se dialettale[47].
Ma anche qui le considerazioni propriamente critiche occupano una percentuale ridotta del testo, che si dilunga ben più a lungo per raccontare la trama.
- Le condizioni della critica
Molti sono i racconti, tutti piuttosto vividi, delle condizioni di lavoro del critico tradizionale. Ettore Capriolo, nel lemma Critica della più recente Enciclopedia del teatro del ‘900[48], così descrive la struttura delle cronache di Renato Simoni:
[…] segue nei suoi “pezzi” (generalmente scritti in pochissime ore, obbedendo alle nuove esigenze del giornalismo che non ha più il tempo di aspettare la rubrica settimanale ma vuole il resoconto a tambur battente, in edicola l’indomani della prima) uno schema quasi immutabile e da molti imitato: un circostanziato riassunto dell’intreccio (che fa novelletta autonoma, spesso più accettabile e divertente della commedia cui si riferisce), un giudizio di merito più o meno diffuso (più severo nei primi anni, più sfumato man mano che il critico acquista prestigio e autorità), una valutazione degli attori (attraverso una sapiente graduazione di aggettivi, tutti variamente elogiativi ma decifrabili dagli iniziati per comprendere la reale opinione del critico) e un preciso resoconto delle reazioni del pubblico (sino al numero delle “chiamate” atto per atto)[49].
Abbiamo riportato anche i commenti fra parentesi, che sembrano introdurre un’arte dell’equilibrismo, del giudizio apparentemente moderato, in realtà conciliante, attento a non sbilanciarsi, a non scontentare nessuno esplicitamente, a dire e a non dire, a non esporsi, anche a non compromettersi, perché il costume deborda spesso dal caso del singolo critico a caratteristica della categoria, specie nell’ambito di certi giornali di grande diffusione. L’opposto speculare è la stroncatura sempre e comunque, un’arte per altro in Italia praticata come eccezione.
Alle condizioni di lavoro del critico dedica alcune note Silvio D’Amico, in un intervento sul quale ritorneremo altre volte. Si tratta della conferenza fatta ai GUF[50] di Roma e di Firenze nel 1942, intitolata Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico[51]. D’Amico confronta l’attività del critico drammatico con quella del critico letterario o di pittura. Mentre questi si esercitano su un solo testo, il nostro deve invece possedere due competenze e analizzare il testo e la sua traduzione scenica, l’autore e lo spettacolo che gli attori hanno tratto dall’opera. Non può scegliere quando e dove lavorare:
[…] il cosiddetto critico teatrale, almeno secondo i perfidi costumi d’oggidì, quando sia venuta l’ora stabilita non può respingere nulla. Tutto quel che gli viene offerto, lui deve mandarlo giù. Può avere incontrato un creditore famelico, può aver detto addio per sempre a una creatura amata, può aver letto allora sul giornale una notizia atroce […]. Alle nove e qualche minuto egli deve trovarsi, in abito corretto e possibilmente con la barba fatta[52], sulla sua poltrona, e offrire l’anima vergine a ciò che l’autore drammatico si è proposto di imprimervi. […] Sia Otello sia la farsa dei De Filippo, bisogna capire e sentire ciò che vogliono quelli là sul palcoscenico[53].
Passa finalmente a scostare il velo sul momento della scrittura e della composizione del pezzo: e qui ci troviamo precipitati in un sistema diverso da quello cui siamo abituati, un sistema che considera il teatro centrale nella vita culturale, sociale e mondana, con giornali che mordono la notizia, rinunciando all’approfondimento per la tempestività (che diventa, spesso, fretta):
[…] in altri paesi le cronache teatrali d’una certa importanza si pubblicano una volta la settimana, e cioè col tempo di prepararle, di meditarle un poco, di riscontrare il testo dell’autore[54] in un punto dubbio, di riascoltare un’interpretazione scenica che una sera sia stata guastata da un incidente qualsiasi. Noi italiani invece le pubblichiamo a tamburo battente, il giorno dopo; le scriviamo nel termine massimo di un’ora, appena terminato lo spettacolo, con l’acqua alla gola, alle prese col proto[55] che ci strappa di mano le cartelle via via che le buttiamo giù, col redattore che impaginando il giornale ci telefona: “è arrivata una notizia importante; per farle posto bisogna togliere quindici righe al tuo pezzo”: le quali poi, non potendosi amputare per ragioni di intelligibilità del racconto del ‘fatto’, son sempre le righe in cui si accennava a una critica estetica, si dosavano gli aggettivi, si orientava e si equilibrava in qualche modo il giudizio[56].
L’autore invidia il metodo straniero, in particolare parigino, che consente di farcire il pezzo con citazione di parti del testo, motti, aneddoti, in un’esposizione “particolareggiata e minuta”. E nota come da noi non sia possibile quel sistema anche per la minore durata delle repliche di uno spettacolo: è più scarso il numero degli spettatori e il nostro, aggiungiamo noi, è un sistema più basato sul giro, sul nomadismo.
Continua analizzando situazioni straordinarie come le corrispondenze da festival quali il Maggio Fiorentino o la Biennale di Venezia: non si può dettare a mezzanotte, al telefono, un pezzo impegnativo, destinato a subire vari passaggi prima di essere impaginato. Allora ci si basa principalmente sul testo e si assiste alla prova generale, che in Italia non è mai simile alla vera prima, perché lo spettacolo non è ancora del tutto a punto, perché manca il pubblico vero…
In realtà accenna solo, in questo passaggio, al costume più diffuso: preparare un primo schema della recensione incentrato sul testo drammatico e sull’autore, e completare in fretta e furia la recensione dopo lo spettacolo. Uno schema che abbiamo visto già operante negli estratti di citazione di Gramsci e che potremmo rintracciare in gran parte delle cronache teatrali dei primi sessant’anni del Novecento.
- L’avvento del regista
Nel secondo dopoguerra la regia muta il modo di fare teatro, disciplinando gli attori a un’idea coerente di spettacolo, che ha la sua radice nel testo drammatico, ma si presenta come creazione scenica di quell’altro autore che è il regista. Si renderà necessario, di conseguenza, un diverso passo del resoconto dello spettacolo.
Il regista può limitarsi a coordinare ingredienti diversi, il testo, l’interpretazione degli attori, lo spazio scenico, i costumi, la luce, la musica, oppure indirizza decisamente verso una nuova lettura delle opere drammatiche, riducendo ogni parte e ogni elemento della creazione scenica a funzione di una macchina che deve procedere in modo integrato. Spesso crea in modo tale da rivelare qualcosa che nel testo non appare esplicito, andando anche “contro il testo”, smascherandone i meccanismi, provando a ripulirlo da abusi interpretativi tramandati dalla tradizione, che ne appannano le verità. La sua azione sulla letteratura drammatica assume l’aspetto di una critica dei testi, e spesso delle convenzioni del teatro stesso.
Ma non è questa la sede per entrare a fondo nelle diverse modalità di lavoro, di analisi e creazione della regia contemporanea. E neanche per trattare la lotta fra gli autori, lo scrittore e il regista, o fra il regista e gli attori, e i mille altri conflitti, per molto tempo produttivi, poi paralizzanti, che la crescita di questo ruolo, a partire dal dopoguerra, ha portato nel nostro teatro.
Quello che ci interessa sottolineare è come una ridistribuzione delle responsabilità creative nel teatro imponga nuovi modi di guardare e di raccontare lo spettacolo. Lo schema di recensione che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti appare ogni giorno più debole e limitato, incapace di rendere conto appieno della congerie di elementi importanti sulla scena, delle tensioni interne alla realizzazione di un’opera. La critica non può limitarsi alla cronaca o alla polemica contro questo moderno demiurgo, che sta trasformando una tradizione che sembra lunga secoli. Deve prendere posizione. In alcuni casi sceglie di affiancare il regista nella sua lotta per svecchiare l’arte scenica, per renderla capace di dire qualcosa ancora al mondo contemporaneo, per rinnovare le strutture stesse e i luoghi dove si producono spettacoli.
Spesso lo fa in modo contraddittorio, schierandosi, sì, ma rimpiangendo talvolta il vecchio teatro dell’attore, rivendicando il primato del testo sulle forzature necessarie a renderlo opera viva in palcoscenico. Il processo appare lento, certe volte paralizzato dalla sua stessa dialetticità, pieno di sfumature.
Registriamo alcune tracce di questo passaggio negli scritti di Roberto De Monticelli, raccolti da Odoardo Bertani in un volume intitolato L’attore. Molti degli articoli lì riuniti hanno come tema l’identità dell’interprete italiano in questo difficile passaggio:
L’attore italiano ha perduto la propria identità e non sa più come definirsi. Non è, la sua, un’angoscia nominalistica, non è questione di parole o di formule. E’ proprio l’immagine di sé che gli è, paradossalmente, ignota; o che gli si è andata oscurando e confondendo, sfumando in una serie di altre possibilità, apparenze, ipotesi e funzioni, man mano che egli acquistava – sembra una contraddizione ma non lo è – una sempre maggiore consapevolezza critica del proprio lavoro e del potere che, nella società, gliene deriva. E’ avvenuta come un’esplosione che, mentre gli mandava in pezzi le certezze ereditate, frantumava anche la sua figura “professionale”, come si era andata componendo e fissando dalla seconda metà dell’Ottocento[57].
L’attore – argomenta De Monticelli – nella tradizione era isolato, rinchiuso in sua “tribù” particolare, e delegato dalla società esterna a “rappresentare se stessa e le proprie crisi e colpe e i mutamenti del proprio codice morale”[58]. L’elemento unificante era un sistema di regole del mestiere, sopravvissuto alla crisi del naturalismo e al nuovo realismo critico imposto dai registi nel secondo dopoguerra che cercava di saldare tradizione italiana e cultura europea. Un sistema cementato comunque dalla centralità della parola.
Il primo ad aprire una breccia in questa barriera rassicurante fu proprio Strehler quando, mettendo in scena Brecht ma anche il Coriolano di Shakespeare (1957), cominciò a smontare la logica e la verosimiglianza del discorso scenico con quella sua geniale utopia o illusione o, più semplicemente, versione italiana (adatta cioè ai nostri moduli di vocalità e di pronuncia teatrale) della recitazione epica. Strehler fu il primo a mettere nella battuta detta dall’attore grandi pause staccate dalla consequenzialità dei significati, fasce di silenzio apparentemente non motivate.[…] Quest’effetto di straniamento vocale, completato da gesti scopertamente didascalici, schematici, geometrici, aveva per scopo, come si sa, di separare l’attore dal personaggio per mostrarli distinti l’uno dall’altro; e il primo nell’atto di giudicare il secondo o comunque di affrontarlo dialetticamente, stando più dalla parte del pubblico, più spostato verso al platea; più di qua, paradossalmente, dalla linea della ribalta, che di là[59].
Per De Monticelli con la regia siamo al perfezionamento e alla fine di un mondo: dopo arriverà l’avanguardia a dissolvere il personaggio nel soggettivismo dell’attore, nel crollo della barriera verbale per il gesto puro, nella sostituzione del testo come fondamento dell’atto (e della distanza scenica) con la vita, che rimescola i confini.
L’articolo citato è un vero e proprio saggio. Ma concetti analoghi vengono espressi nelle critiche esercitate per oltre un trentennio su vari quotidiani, con toni, e consapevolezze differenti in tempi diversi. Ma sempre con una nostalgia di fondo per un mondo, quello degli attori di tradizione, dei figli d’arte, che va trasformandosi o addirittura scomparendo. Alcuni dei brani migliori di questo critico sono le descrizioni di attori, ricche di aggettivi penetranti, di immagini avviluppanti:
Non avevamo mai sentito recitare un’attrice così, con una specie di ferocia smarrita. Eravamo abituati alla voce melodiosa di Andreina Pagnani, alle musicalità dispettose o patetiche di Elsa Merlini, ai toni fondi, drammatico-ironici, di Sarah Ferrati, al puntiglioso agio sillabico di Paola Borboni. Quella di Lilla Brignone era una voce esistenziale, la nuda vita immersa in una strana emulsione di dolore, rabbia, allegria beffarda[60].
L’attenzione allo spettacolo risalta anche negli scritti di un critico teatrale come Nicola Chiaromonte, certo ancora che nella parola organizzata nel testo drammatico stia la radice del fatto teatrale. Recensendo per “Il Mondo” da Roma Vita di Galileidi Brecht, messo in scena da Strehler nel 1963, prima di entrare a fondo nel testo osserva l’occasione mondana, fa annotazioni sulla regia di Strehler e sull’interpretazione di Tino Buazzelli, affondando la mano poi nel disegno registico:
Degli altri attori, non diremo nulla partitamente, giacché il loro maggiore merito è di obbedire alla bacchetta del regista come un gruppo di ginnasti che fa esercizi di palestra; d’altronde per loro non si può parlare di “parti”, ma tutt’al più di comparse e di declamazione.
Quanto alla messinscena propriamente detta, Strehler sembra convinto che Brecht sia tutto oro poetico e ideologica virtù, quindi lo interpreta alla lettera, per così dire: comincia col darne il testo integrale, malgrado che questo […] contenga tre interpretazioni contraddittorie della figura di Galileo, e continua imprimendo al tutto una specie di continuità tra cinematografica e coreografica per cui ogni scena è, sì, in sé composta (anche troppo), ma il seguito manca singolarmente d’accentuazione, ha un che d’atono e d’attonito che lo fa somigliare a un film muto proiettato senza neppure l’accompagnamento di un pianoforte. Valga per tutte, come esempio, la celebre scena della vestizione del Papa, che in mano a Strehler diventa una processione di camici, stole e piviali.
Ma veniamo al testo, che è l’essenziale[61].
Come si può vedere, la crescente attenzione al lavoro del regista si volge a indicare la “cifra” dello spettacolo e a descriverne alcuni momenti cruciali, concentrandosi però, ancora, sul testo. E rilevando le contraddizioni di un sistema che porterà all’esplosione del vecchio modo di fare teatro.
Intanto – siamo arrivati agli anni sessanta – acquistano sempre maggiore importanza, per la possibilità di una critica più ragionata e accurata, settimanali come “Il Mondo”, “L’Espresso”, “L’Europeo” e riviste specializzate come “Sipario”. E presto anche i quotidiani, di fronte all’esigenza di rendere conto accuratamente dei molteplici strati e contributi di uno spettacolo, adotteranno un altro sistema: la recensione non uscirà più la mattina successiva alla prima, ma due giorni dopo, in modo da dare al critico l’agio di riflettere perlomeno per una giornata. Con il teatro di regia non è più possibile preconfezionare l’analisi del testo. E’ lo spettacolo il centro dell’avvenimento, solo nella sua realizzazione il testo assume una reale fisionomia: la scena e le relazioni che in essa si instaurano fra diversi agenti diventano gli oggetti principali di osservazione. Perché la critica possa esplicarsi c’è bisogno di un altro tempo. E di un diverso sguardo.
- Verso un nuovo teatro
La regia ha in sé i germi della propria stessa crisi. Lo rileva il solito De Monticelli, criticando i nuovi tempi che vanno abbandonando la parola per il gesto e per l’immagine:
La semplificazione dei segni porta spesso all’ingigantimento degli effetti e si dirà che il teatro è anche questo, lo stacco duro, un improvviso scatenarsi degli effetti (sonori e visivi). Ma questi colpi di scena (registici) cui si allude sono solo eventi, appunto, sonori e visivi, tengono del realismo inevitabile (meglio, dell’allusività di primo grado, esplicita ed emozionale) proprio dell’immagine cinematografica o televisiva; e insomma tradiscono l’ambiguità del teatro che, essendo scoperta finzione, rimanda sempre ad altro, a qualcosa che è comunque diverso da ciò che appare; qualcosa di spiazzato, smarginato, distanziato, che ci ricordi sempre la sua natura illusoria. All’interno di questo gioco delle apparenze, le parole sono l’unica cosa vera perché portatrici di ragioni e di passioni[62].
Il richiamo alla forza della parola arriva quando ormai avanza un ulteriore modo di fare teatro, che critica la stessa figura del regista demiurgo, che vede nel gesto iconoclasta o nella relazione sociale la base di un teatro che deve saper dire qualcosa di necessario.
Il nuovo teatro degli anni sessanta, come sappiamo, si manifesta in una rottura delle forme e dei modi di lavoro e di produzione tradizionali. Postula un’apertura verso altre arti, verso esperienze comunitarie, legandosi a movimenti che vogliono un cambiamento radicale della società. Risolve il conflitto fra scrittura e scena con il concetto di “scrittura scenica”, introdotto e teorizzato da Giuseppe Bartolucci, uno dei critici più acuti di questa nuova fase[63], organizzatore, promotore di artisti e di avvenimenti.
Cambierà, naturalmente, anche il modo di guardare il teatro e di renderne: forse più lentamente, perché le critiche si manifestano, principalmente, ancora, sui grandi quotidiani, che sono l’espressione di una borghesia che mantiene una forte diffidenza nei confronti delle istanze di rinnovamento sociale e artistico.
Fra gli anni sessanta e settanta i critici più aperti, oltre a seguire da vicino e stimolare il lavoro di artisti che rompono le consuetudini, oltre a provare a mutare categorie e modalità dello sguardo, si trasformano in promotori di rassegne militanti e di molte situazioni di dilatazione del teatro. La loro azione si svolgerà principalmente su riviste come “Sipario”, negli anni sessanta diretta da Valentino Bompiani con la redazione di Franco Quadri, “Ubu”, foglio di intervento artistico e politico, guidato da Quadri per pochi anni alla fuoriuscita da “Sipario”, “Teatro, rassegna trimestrale di ricerca teatrale”, uscita dal 1967 al 1971 con la cura di Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo ed Edoardo Fadini, “La scrittura scenica”, nuova creatura di Bartolucci che dal 1971 arriva fino al 1983. Fervono esperimenti di comunicazione diversa, dal basso, autogestita, in scuole, quartieri, luoghi di esclusione, che aprono a loro volta nuove contraddizioni, nel teatro e nei modi di raccontarlo.
Si parte, intanto, da una serrata critica dell’esistente, di quel vecchio mondo teatrale tratteggiato nelle pagine precedenti:
[…] la realtà italiana e i mutamenti intervenuti nella nostra società così come le nuove tecniche drammatiche e i modi espressivi elaborati in altri paesi non hanno trovato che isolati e sporadici riferimenti nella nostra produzione teatrale. Sono mancati d’altra parte il ricambio e l’aggiornamento delle tecniche di recitazione, l’analisi e l’applicazione di rinnovati materiali di linguaggio, gestici e plastici, mentre lo stesso innegabile affinamento della regia ha finito per risolversi in un estenuato perfezionismo di sterile applicazione, contro ogni possibilità di rinnovamento dei quadri.
La critica drammatica istituzionale, dal suo canto, invece di svolgere una funzione di provocazione e di stimolo su questa situazione generale, ha contribuito al mantenimento dello stato di fatto e si è troppo facilmente allineata alle posizioni ufficiali, ancorando linguaggio e metodi a modalità ormai superate con una rinuncia di fatto al suo compito primo di ricerca e di interpretazione.
Con poche consapevoli eccezioni il nostro teatro, oltre a dimostrarsi incapace di svolgere un discorso suo proprio, si è così venuto a trovare in una posizione di completo isolamento, sistematicamente impermeabile cioè a ogni innovazione culturale, alle ricerche ed esiti della scrittura poetica e del romanzo, alla sperimentazione cinematografica, ai discorsi aperti dalla nuova musica e dalle molteplici esperienze pittoriche e plastiche[64].
Gli intellettuali dell’Italia degli anni successivi al boom economico, del neocapitalismo, dichiarano defunto il vecchio teatro e guardano ad arti più capaci di stare al passo con una realtà aggressiva e veloce. Auspicano un “nuovo teatro, suggerendo alcune strade da percorrere. Anche alla critica.
Oggi s’impone la necessità di adeguare gli strumenti critici agli elementi tecnico-formali dello spettacolo, di affrontare l’impegno drammaturgico senza alcuna soggezione agli schemi prestabiliti, con un recupero di tecniche e una proposta di altre tecniche, con l’uso di attori fuori della linea accademica e quotidiana, con la scelta di ambientazioni che ricreino lo spazio scenico[65].
E il successivo scritto programmatico Elementi di discussione del convegno per un nuovo teatro[66], redatto da Bartolucci, Capriolo, Fadini e Quadri e sottoposto alla discussione più generale, traccia una griglia precisa degli elementi caratterizzanti il nuovo teatro, molto utile, a mio avviso, anche come guida per osservare e interpretare i nuovi spettacoli e le nuove esperienze che, sempre di più, privilegiano il teatro di laboratorio, il teatro collettivo, anteponendo il processo di creazione al prodotto finito.
Il teatro, in sintonia con altri linguaggi artistici, deve essere ricerca continua, “sistematica messa in causa della sua stessa struttura espressiva e rappresentativa”[67]. Deve “porsi programmaticamente come struttura aperta, sia sul piano del linguaggio sia su quello dei mezzi e degli strumenti scenici”. Deve essere “intervento diretto nel corpo vivo della società”, “punto d’incontro della collettività”. Deve praticare il lavoro di gruppo, eliminare “qualsiasi diaframma tra palcoscenico e platea”, profanare il “luogo teatrale attraverso l’immissione di materiali ‘degradati’ di vita, e di materiali culturali inerenti ad altre espressioni artistiche”.
La collettivizzazione del fatto teatrale e la radicalizzazione dei contenuti nei confronti della realtà contemporanea comportano un tipo di scrittura scenica unitaria nella quale i vari elementi che contribuiscono alla sua attuazione (scrittura drammaturgica, regia, interpretazione, scenografia, musica, luci, spazio scenico e architettura) sono da ricomporre in un insieme di base, i cui elementi temporalmente concomitanti e senza alcuna preminenza dell’uno sull’altro sono i seguenti:
- gesto
- oggetto
- scrittura drammaturgica
- suono (fonetica e sonorizzazione)
- spazio scenico (luogo teatrale e rapporto platea-palcoscenico)[68].
Ampio spazio è dedicato a definire e descrivere le possibilità degli elementi individuati e a spiegare come acquisire “un pubblico nuovo attraverso nuove strutture organizzative”[69]: il vecchio sistema è in crisi, l’esperienza dei teatri stabili appare esaurita nell’inefficacia e nei compromessi politici, si registra il sorgere di forti esigenze di aggregazione e il formarsi di nuove realtà di organizzazione sociale e culturale.
Siamo non solo nel campo della descrizione di nuove pratiche, che vogliono sostituire il processo al prodotto, il valore d’uso a quello di scambio, la presa di coscienza e l’intervento alla funzione diversiva dell’arte. Abbiamo anche una guida per osservare i fenomeni di quegli anni e per provare a descriverli. Naturalmente, le dichiarazioni di tendenza o di intenti vanno poi commisurate con le molteplici pratiche degli artisti. Che spesso, proprio perché nella lotta contro canoni e modalità superate mettono decisamente al centro la soggettività, non sono riconducibili a comodi schemi.
Altre frontiere sembrano delinearsi sullo scorcio degli anni ottanta. Il critico si muta in osservatore, in antropologo, che segue da vicino la vita di quelle entità particolari che sono gli artisti, o i gruppi. Si trasforma in teorico che sostiene le opere con una riflessione che le inquadra, le giustifica, le stimola; in organizzatore che attraverso rassegne sostiene, sottolinea tendenze, crea occasioni di confronto e di scontro, che promuove o fiancheggia esperimenti sul territorio o in laboratorio[70].
Ma qui ci troviamo appena all’inizio di un accidentato cammino che porta fino a oggi. A una dilatazione delle forme spettacolari in una pluralità di eventi che sembra non consentire alcun modello interpretativo, che fa rifluire verso una semplice descrizione di forme di arte che cercano di “forare” le mura del reale.
Notano i “critici impuri”:
Riconvertendo a proprio vantaggio la tradizione del nuovo, la società del teatro produce soluzioni performative e categorie del linguaggio che decentrano il discorso dai modelli dominanti dello “spettacolo” e del “processo”. Piuttosto tendono a rinserrare simultaneamente questi termini, passando dallo spettacolo al “formato” e dal processo al “conduttore teatrale”. Il formato implica sempre una relazione con uno spettatore in un dato spazio e in un dato tempo, mantenendo dunque l’elemento relazionale come fatto costitutivo dell’esperienza teatrale. Ciò che non lo rende sovrapponibile allo spettacolo è la morfologia dell’evento, sia perché si nutre di codici e immaginari sempre più spesso non direttamente legati al teatro, sia perché crea un tipo di relazione non sempre pienamente riconducibile al teatro, spesso usando come interfaccia dispositivi appartenenti ad altre tradizioni artistiche. Inoltre, se lo spettacolo nel codice produttivo del teatro è la stazione di sintesi di un processo creativo, spesso ultimo e definitivo, la produzione teatrale oggi sviluppa sempre più spesso forme produttive che sono l’emanazione di una corrente teatrale continua, un “sempre aperto” che rende visibili le diverse fasi di un processo creativo. E il formato, pur proposto come opera chiusa, conserva un valore intermedio di “studio”, che l’artista valuta, analizza e col quale confronta risposte di pubblico e variazioni pertinenti rispetto a uno spettacolo conclusivo[71].
Si afferma dunque la necessità di uno sguardo prismatico, nomade, come molteplice è l’arte vivente. In quali forme si esprimerà? Quali nuovi strumenti saprà inventare?
- Il laboratorio: esercizi di descrizione
Questo excursus storico ci ha fornito le basi per iniziare a confrontare modi diversi di fare e intendere la critica. Ha messo in dubbio l’idea che tale attività possa essere definita una volta per tutte. Ha legato l’esercizio dello sguardo e del resoconto col suo effimero oggetto d’analisi, il teatro. Ha esposto la necessità di confrontare il testo e lo spettacolo, di rintracciare fonti diverse da quelle letterarie all’azione scenica, di indagare le relazioni con altre discipline artistiche, di analizzare processi compositivi e condizioni di fruizione. Ha evidenziato contraddizioni, e la necessità di operare fra di esse.
Il lettore che voglia cimentarsi in prima persona con la critica e con le sue difficoltà, a questo punto potrà utilmente svolgere alcuni esercizi. Si tratta, naturalmente, di simulazioni in situazioni date, ideali, lontane dalle urgenze quotidiane del mestiere.
La prima prova suggerita è descrivere spettacoli diversi alla fonte: basati sul testo, su una forte regia, nati da scritture sceniche, lavori dove predominante è la presenza dell’attore che “taglia” o fa tagliare su di sé la drammaturgia dello spettacolo, spettacoli dove il teatro si confronta con altre arti.
Non sarà difficile trovare il materiale. Basta osservare accuratamente la programmazione di differenti teatri.
L’esercizio, per ora, consiste semplicemente nell’osservare e nel raccontare, facendo risaltare i procedimenti compositivi e le relazione fra i vari ingredienti.
Come scrivere? Qualche elemento si può desumere dalla propria esperienza e sensibilità; qualche altro dalle notizie fornite finora.
Il consiglio è di non provare a risolvere tutto subito: di rilevare le indecisioni, annotare le difficoltà e i problemi.
La soluzione arriverà (se arriverà!) alla fine di diverse prove, via via con condizioni date più precise e con libertà più consapevoli.
- Il lavoro del critico
3.1. Come scrivere
Dagli esiti del capitolo precedente appare chiaro come il problema concreto che questo libro pone – come scrivere una critica teatrale? – non sia risolvibile con una formula manualistica.
Non esiste uno schema buono una volta per tutte, come non esiste più un oggetto omogeneo di analisi. Lo sguardo storico, l’esercizio quotidiano della critica, la pratica di laboratorio che è a fondamento di questo volume insegnano che ci troviamo di fronte a problemi in movimento, ogni volta formulabili in modo diverso in relazione al contesto concreto nel quale si agisce.
Ettore Capriolo nel 1980 parlava di “sconcerto”:
E’ un’evoluzione tuttora in atto e resa particolarmente ardua dalla presenza contemporanea di un teatro che cerca d’inventarsi nuovi parametri e di un teatro che si limita a cautissimi aggiornamenti dei vecchi, in una situazione che non ha precedenti nella storia della scena degli ultimi secoli, dove le forze innovatrici contestavano di solito un modo di far teatro, senza revocarne radicalmente in dubbio i presupposti di base. Di qui anche lo sconcerto, soprattutto per il critico professionale costretto dal proprio mestiere a misurarsi a distanza di pochi giorni con proposte che richiedono di volta in volta differenti strumenti di giudizio. Le possibili scelte sono una programmatica faziosità o un disperato tentativo di correre appresso a tutto ponendosi l’impossibile obiettivo di una presunta oggettività. E i condizionamenti possono essere numerosi, da quello del pubblico per il quale si scrive a quello dell’apparato produttivo di cui si rischia di diventare complici. E la funzione qual è? Continuare sulla pagina il discorso creativo dell’autore scenico? Tentare una mediazione fra questo discorso e il pubblico? Misurarlo e giudicarlo secondo criteri personali rafforzati da una meditata preparazione culturale? Aspettare con pazienza una società nuova che risolverà automaticamente tutti i problemi o, più modestamente, un capolavoro assoluto che segnerà una svolta decisiva ma che forse non verrà mai? Tante domande, nessuna risposta[72].
E se allora ancora si poteva sognare di “aspettare una società nuova”, svanivano in seguito anche gli ultimi aloni delle pretese totalizzanti del primo Novecento. La critica, con l’idealismo prima, subito dopo con lo storicismo e con la critica marxista, da atto interpretativo aveva assunto pretese legislative; da operazione capace di portare alla luce, di valutare, di orientare sulla base di criteri certi, si era spesso trasformata in inclusione o esclusione sulla base di precetti incontrovertibili, alcune volte perfino in precettistica. Già nuovi orientamenti come lo strutturalismo e la semiologia, la teoria dell’opera aperta e quella barthesiana dell’interpretazione infinita e del piacere del testo nel secondo dopoguerra dissolvono le sue sicurezze, fino alla consapevolezza nuova, accresciuta poi dalla caduta dei socialismi reali del 1989, della necessità di tornare a guardare gli oggetti, il loro flusso, le opere e i movimenti nella loro peculiarità, senza rassicuranti precetti. Ritornando all’ambito più propriamente teatrale, dove l’interpretazione e il giudizio sono sempre collegati con la cronaca, la critica si ritrova nella necessità di mettere in discussione gli spazi in cui si esercita e la relazione con i pubblici cui è rivolta, e si scopre sospesa fra agitazione e servizio di un apparato produttivo dove sopravvivono antiche usanze e interessi dei quali, come suggerisce Capriolo, si rischia di diventare complici.
I termini di una possibile azione dell’osservatore si sono precisati e si precisano sempre di più: l’intellettuale deve guardare, descrivere, dubitare, individuare procedure, formulare problemi, spesso combattendo contro usanze sopravvissute e apparati dell’informazione che cercano di marginalizzare qualsiasi approccio critico a favore dell’omologazione del pensiero o della promozione pubblicitaria.
I problemi saranno poi risolti dal critico, spesso singolarmente, sperimentando sul campo, facendo agire le capacità di sguardo, l’analisi, le cognizioni, le emozioni, mettendole a confronto con pratiche, poetiche, invenzioni, usi, cercando di individuare i mezzi più adatti a descrivere, sugli strumenti di comunicazione a disposizione, la situazione delle molteplici forze interagenti, inventando nuovi modi e supporti di conoscenza e di dibattito.
Il mestiere del critico oggi non si esaurisce nella recensione breve, in genere consentita dai quotidiani, o in quella più o meno ampia che può essere ospitata su riviste specializzate. E neppure nell’intervista o nell’indagine delle ragioni del lavoro degli artisti.
Per provare a orientarsi, mi sembra che il metodo migliore sia quello di analizzare e collegare problemi e storie. Un manuale è pensabile solo in questa visione multifocale, come confronto di pratiche e raccolta di buone usanze, come traccia per comprendere quali procedure, tuttora vigenti, risultino invecchiate e senza prospettive. Come baedeker che permetta viaggi personali.
La critica teatrale oggi, più confusa che sconfortata, è insieme arcaica e modernissima. Chi la voglia praticare dovrà fare il proprio apprendistato muovendosi fra un’eredità polverosa e la necessità di segnare strade, in parte ancora senza sbocco, fra la solitudine e la necessità di confronto e di solidarietà, per provare a mutare le cose.
3.2. La vocazione
Sulla strada del racconto di pratiche, più che su quelle di una normativa fragile, e forse impossibile, proviamo a proseguire. Sospendendo, per ora, la riflessione sui modi in cui si fa critica e spostando l’attenzione su chi la critica la fa. Sui critici, chi sono, la loro formazione, i modi in cui alcuni di loro hanno affrontato problemi analoghi a quelli che andiamo accumulando e come hanno provato a risolverli. Da singoli approcci, da soluzioni personali, a volte sofferte, potremo ricavare altri orientamenti per definire i raggi di un’azione complessa.
Chi è e come si forma il critico teatrale? I modi per arrivare a questa professione e quelli di praticarla sono i più diversi. Ma, soprattutto, oggi, si tratta di una professione quanto mai incerta. Fino agli anni settanta-ottanta il critico era il collaboratore fisso di un giornale. A volte l’incarico di critico, o di supplente del critico principale, che firmava semplicemente come “vice”, senza il diritto a esporre nome e cognome, era una delle tappe iniziali di una carriera giornalistica:
Occuparsi con impegno, sulla pubblica stampa, di quella cosa tutta fittizia, ibrida e puerile che si chiama Teatro, nel mondo dei benpensanti è ritenuto cosa da ragazzi, da gente che non abbia per il capo problemi più virili e più degni. Si può, entrando a far parte della redazione d’un giornale, scrivere sulle commedie che si rappresentano nei teatri, finché si è giovincelli; ma sottintendendo che, col tempo, si passerà a fare qualcosa di più serio: si arriverà a poco a poco, che so io, alle questioni sociali, all’economia, alla finanza, alla politica: la carriera del giornalista è quella. Quanti uomini di Stato di tutti i colori, da Ferdinando Martini a Salvatore Barzilai, da Kurt Eisner a Léon Blum, hanno cominciato la loro strada facendo il critico drammatico?[73]
Fra gli uomini politici che hanno ricoperto incarichi nel ruolo che consideriamo, ricordiamo i già citati Antonio Gramsci e Piero Gobetti. Ma questi nomi ne evocano altri, con una formazione diversa da quella di chi proviene dall’ambito giornalistico: letterati, critici letterari più o meno illustri (il teatro è stato a lungo considerato una branca della letteratura) o studiosi di vari campi che arrivano alle cronache teatrali. Si tratta, comunque, di critici temporanei, che eserciteranno per un periodo più o meno lungo ma delimitato, non facendo di questa attività la loro professione esclusiva e principale. Ricordiamo, fra i tanti, i nomi di Adriano Tilgher, di Alberto Savinio, di Corrado Alvaro, di Ennio Flaiano, di Alberto Arbasino, di Salvatore Quasimodo, di Angelo Maria Ripellino, di Gerardo Guerrieri, di Cesare Garboli, di Giovanni Raboni, di Franco Cordelli, di Luca Doninelli.
In ogni caso l’esercizio della critica teatrale si sviluppava, fino all’ultimo dopoguerra, principalmente all’interno del giornale quotidiano, con la possibile deviazione del settimanale o della rivista specialistica. Con le battaglie degli anni sessanta e settanta, e con l’affermarsi di nuovi media, le strade di questa attività si moltiplicano e i lineamenti della professione vengono sempre di più messi in dubbio.
Franco Quadri, in un intervento al convegno Per Roberto De Monticelli. Per il Teatro, organizzato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro per ricordare la figura di De Monticelli[74], racconta in modo esemplare la propria formazione:
Ho cominciato ad andare a teatro con una certa continuità, che sarebbe diventata mania, praticamente quando Roberto [De Monticelli] scriveva i primi pezzi raccolti in questo suo libro, ragazzo, per mia scelta e passione, fedele degli ingressi, quei posti in piedi che oggi forse non esistono neanche più. Anche per me Visconti, nelle sue scarse recite milanesi o alla Scala, fu un inizio, e il Piccolo Teatro di Strehler, negli anni 50, la base di una formazione: e a quegli anni 50 appartengono i miei ricordi più nitidi di teatro. E’ vero che poi durante la mia permanenza a “Sipario” – il “Sipario” di allora, nel primo periodo, ancora senza scrivere “perché non mi sentivo all’altezza”, anche se nessuno mi avrebbe impedito di farlo – avrei perpetuato un rapporto quasi quotidiano con un altro critico, Eugenio Ferdinando Palmieri, alias e.f.p., che sarebbe diventato il mio maestro: una personalità di anarchico scontroso e scontento, oggi a torto mai citato […] da cui appresi l’uso degli aggettivi e la ricerca ironica e musicale dei ritmi della frase, ma anche, fra l’altro, il gusto per il teatro “minore” e la curiosità per le segrete miniere dei dialetti. Ma fin dai miei inizi di spettatore, quando non sapevo che avrei fatto il critico, m’ero trovato un punto di riferimento in r.d.m., altre tre lettere puntate, De Monticelli, da quando avevo visto apparire su un giornale di destra che non amavo, ma che da spettatore avrei dovuto leggere – ci scriveva anche Pietrino Bianchi –, quella firma che era già di casa, perché il nome del padre, Guido, attore di radio Milano, m’era famigliare […].
Dunque senza conoscerlo lo sentivo già prossimo, qualcuno di cui potersi fidare, presto un modello di giudizio con cui confrontarsi, correndo in edicola, sulla via della scuola, le mattine, dopo le prime – quando riuscivo ad andare alle prime, perché i miei erano severi e non tutte le sere mi lasciavano uscire. Era una guida, presto una specie di fratello maggiore immaginario. Scusate se mi dilungo nel preambolo, ma è proprio questo il momento essenziale, per una sorta di riconoscimento destinato a segnare un lavoro e una vita. […]
Ma senza andare sul personale o frugare nell’inconscio, sapevo quel che gli dovevo sul piano dell’educazione teatrale. Di lui condividevo la linea rigorosa delle scelte, l’orientamento per la scena di regia e per la politica degli Stabili, l’impegno civile, la ricerca di un teatro necessario, anche il gusto, destinato a perdersi, per la grande recitazione. E, come avrei capito più tardi, avevo con lui in comune anche il rispetto per la parola che rende più faticato l’esprimersi a braccio e preferire la scrittura per quanto il perfezionismo a volte fa anche della scrittura un tormento, quel perfezionismo che sarebbe diventato un’ossessione… La mia battaglia a “Sipario”, per portare verso la contemporaneità una rivista nata da ideali di altri decenni, seguiva la sua linea, rispondeva ai principi che da lui avevo succhiato, e così per esempio quell’inchiesta nel ’65 sul distacco tra i letterati e il teatro, che funzionò come una provocazione e svegliò grossi nomi di allora alla scrittura per la scena. Ma i tempi si muovevano. Io cominciavo a scrivere e pretendere un’autonomia, e mentre il rapporto fra noi s’era fatto più sciolto personalmente, si apriva anche la via delle divergenze[75].
Anche noi ci siamo dilungati nella citazione: ma si tratta di una testimonianza unica, capace di ritrarre un clima, un apprendistato, un rapporto con trattenuta emozione. Useremo altre parti di questa confessione-autoanalisi più avanti, per scavare dentro i “segreti” del critico nel momento in cui si pone il problema di confrontarsi con i cambiamenti dell’arte, dialogando da vicino con le nuove prospettive aperte dai protagonisti del nuovo teatro.
Quello che ci racconta è il nascere della vocazione critica dalla passione per il teatro, la voracità di vedere spettacoli, il mettersi “a bottega” umilmente, eleggendo maestri vicini (e.f.p.) e lontani (r.d.m.), di generazioni differenti, con sguardi diversi; la voglia di ascoltare, di studiare prima di esporsi in prima persona, le prove, la precisazione delle idee, la maturazione in quello che allora poteva sembrare un recesso isolato, la redazione di una rivisita, che in seguito potrà diventare un avamposto di formazione.
Amore per il teatro e per la scrittura sono alla base di altri percorsi, più vicini a noi, che si sviluppano in altri luoghi. In riviste, ma poi anche nelle radio e, in seguito, su internet, o più appresso ancora al teatro, in uffici stampa, a contatto con l’invenzione artistica e organizzativa. O in imprese editoriali come quella fondata dalla stesso Quadri, Il Patalogo, l’annuario del teatro italiano che dal 1978 raccoglie dati sullo spettacolo italiano e straniero e cerca di guardare in modo problematico alle emergenze del teatro. Nella sua redazione, e in quella della casa editrice fondata e diretta dallo stesso Quadri, la Ubulibri, si sono incontrati e in parte formati critici e studiosi di generazioni diverse, da Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino fino a Cristina Ventrucci e Andrea Nanni. Ma molti altri sono quelli che hanno semplicemente incrociato quell’ambiente dove si censisce tutto ciò che ha a che vedere con lo spettacolo e dove si mette in gioco uno sguardo polimorfo sull’arte scenica contemporanea.
Altri centri di formazione sono stati certi giornali, come “il Manifesto”, o gruppi costituitisi intorno a personalità come Giuseppe Bartolucci.
A partire dagli anni sessanta, però, molti critici (e molti spettatori) si sono accostati al teatro non solo perché appassionati: gli sconvolgimenti portati dal Living Theatre, da Grotowski, da altri gruppi stranieri e dall’avanguardia italiana, lo trasformavano in un ambito di riflessione sociale, di azione radicale, di progettazione utopica. Questa arte è stata vista come strumento di trasformazione complessiva, come luogo di confronto, di relazione, di contraddizione, che chiedeva nuovi modi per essere agito e poi raccontato, perché prolungasse la propria incisività.
Molti dei critici più giovani hanno sviluppato la loro vocazione partendo da piccole riviste o dai nuovi spazi (e dai nuovi orizzonti) offerti dalle radio libere, dove nascevano rubriche autogestite i cui unici vincoli, spesso, erano di tempo e di formato. Con la possibilità di guardare quello che si voleva e di rendere conto nel modo ritenuto più opportuno, attraverso presentazioni e recensioni, ma anche dando voce agli artisti, oppure trasmettendo brani di spettacolo.
Meno rilevanti sono stati gli spazi offerti dalle televisioni: la deriva commerciale di questo mezzo l’ha fatto allontanare dal teatro, considerato spesso televisivamente poco “vendibile” se non nei suoi prodotti più facilmente consumabili.
Un nuovo orizzonte si è aperto con internet. Un campo di sperimentazione in teoria molto ampio, articolato, dove si può operare con vari materiali, collegando il racconto e il commento scritti alla voce, all’immagine, alla fotografia, alla testimonianza diretta. Ambiente di dibattiti con la possibilità di dialogo immediato. Ma su di esso e sui problemi che apre torneremo più avanti.
Un’ultima riflessione: man mano che i luoghi di formazione e di azione si sono allargati, sono sfumati i confini professionali della figura che ci interessa. Nei giornali, entrando da praticanti, si sperava, perlomeno, in una carriera. Le radio e internet, ma anche le riviste, oggi accolgono contributi per lo più volontari e non remunerati. Si può parlare propriamente di “professione” del critico solo per i titolari delle rubriche dei grandi quotidiani e per alcuni che riescono ad accumulare, districandosi fra testate e media diversi, un numero di collaborazioni tale da garantire la sopravvivenza. Ma questo, il problema del mercato del lavoro, della sparizione di alcuni ruoli, della flessibilità di altri, è un ulteriore problema.
Certo è che il critico, l’appassionato di teatro, quello che trova nell’osservazione e nella scrittura la risposta a una vocazione, deve esplorare strade non ancora percorse per la sopravvivenza, compresa quella di collaborare alla cura o alla programmazione di teatri o manifestazioni, o l’insegnamento o altro ancora. Il critico si “sporca le mani”, si fa “impuro”, per scelta culturale, per schieramento al fianco di artisti o di movimenti, ma anche per necessità.
3.3. Oggettività e soggettività
Una delle prime domande che si pone chi inizia a raccontare il teatro è se il suo sguardo deve essere reso in modo “oggettivo” o “soggettivo”, se usare l’io o il noi o, comunque, una forma più distante e impersonale. E, parallelamente, come deve situarsi davanti all’oggetto di osservazione, se renderlo nella sua urgenza di esperienza emozionale e visiva o se contestualizzarlo, nell’opera dell’artista, nel tempo, nei movimenti, nelle sue eventuali relazioni con altri oggetti d’arte o anche con altre istanze. La domanda è ancora se il “critico” è il portavoce ideale del pubblico, uno spettatore privilegiato, o se invece non è piuttosto uno spettatore come gli altri, che ha la possibilità di esprimere il proprio pensiero e cerca di non travestirlo di presunta oggettività, dichiarando una visione necessariamente personale e assumendosi le responsabilità di ogni tendenziosità. Quest’ultima posizione sottintende anche uno sfumare del concetto di “pubblico”, di comunità indifferenziata, in spettatori singoli, ognuno con il proprio punto di vista, da far interagire con spettacoli che sempre di meno stanno in schemi prestabiliti e con un insieme di altri spettatori con urgenze singolari.
Evidentemente, una tale consapevolezza deve fare i conti anche con le richieste – esplicite o implicite – del giornale (o che altro) dove sono ospitati il resoconto o la critica, e con l’autorevolezza del critico stesso. Il vecchio sistema non aveva dubbi al proposito; l’Enciclopedia dello spettacolo lo testimonia:
Al cronista è consentita la più ampia indipendenza e imparzialità di giudizio; sebbene poi sia nell’ordine inevitabile delle cose che ogni produzione di c.d.s. si atteggi in modi diversi non soltanto in conformità della varietà tipologica, ma anche ideologica, dei fogli o degli enti per cui sia redatta. Dal punto di vista stilistico compositivo, è dato poi di rilevare nell’ultimo cinquantennio un processo di graduale riduzione della c.d.s. a una tecnica in linea di massima uniforme, caratterizzata dall’uso, più o meno sapiente, di tutta quella somma di ingredienti (gusto della schermaglia e della formula; mescolanza di obiettività e di arbitrio personale; sensibilità nel captare le opinioni correnti; capacità di orientarle a propria volta, ecc.) che costituiscono il fondamento stesso di quel pubblicismo, nel quale sia strettissimo il rapporto fra cultura e informazione. Ma si parla qui, beninteso, del cronista medio. E questi schemi recensorii, questo formulario tecnico, se ne va in frantumi, o è ben altrimenti vivificato, quando si levi una voce dal timbro autoritario, una personalità originale, che non si limita a riflettere la vita dello spettacolo, ma ne intuisce i problemi, e insomma interviene su di essa, la condiziona e la guida. Il cronista, da uomo di mestiere quale sempre è stato ed è, tornerà a essere quell’uomo di lettere e di cultura, che nel corso dei secoli è diventato[76].
Il fenomeno, oggi, è alquanto diverso. Si tratta proprio di una crisi della fiducia in uno sguardo e in una scrittura oggettivi, nonché del più volte sottolineato sfrangiarsi dell’oggetto. Per cui, il primo impatto con la scrittura di giovani che frequentano un laboratorio di critica teatrale può subito offrire elaborati dall’intonazione molto diversa. Riporto, a titolo di esempio, due brani di recensioni elaborate all’interno di un laboratorio da me tenuto presso il Teatro Studio di Scandicci (FI), nella stagione teatrale 2002-2003. Lo spettacolo considerato è Tono di Kinkaleri, una giovane compagnia che, partendo dalla danza, mischia competenze diverse, mettendo continuamente in crisi le convenzioni della rappresentazione. Scrive Valentina Martini, studentessa del Corso di Laurea PROGEAS[77] dell’Università di Prato:
L’ultimo progetto performativo di Kinkaleri è Tono, un esperimento acustico/dinamico che continua il percorso ideologico del gruppo nella sperimentazione delle diverse modalità di comunicazione attraversando le arti. Il lavoro che spinge Kinkaleri alla particolare produzione artistica si basa sul “mettere in tensione il rapporto rappresentativo tra l’oggetto e l’ambito a cui si riferisce (o dovrebbe riferirsi). Tutte le produzioni hanno pertanto sempre avuto quella trasversalità di segni che in ambito contemporaneo stanno progressivamente mettendo in crisi la fruizione della rappresentazione: un linguaggio che impasta le lingue e le rende straniere a se stesse per poi ridefinirsi in altro luogo. La ricerca coreografica è sempre stata quindi indirizzata verso una qualità del fare che privilegia l’innovazione, l’interazione tra linguaggi originali attraverso la sperimentazione di diverse modalità di esposizione”.
Lo spettacolo mostra due danzatori muoversi seguendo una musica, ascoltata in cuffia, che il pubblico non ode; la recensione prosegue descrivendo, collegando la performance a precedenti lavori, illustrando le ragioni dell’esperimento attraverso citazioni di materiali prodotti dalla compagnia, riservandosi un breve paragrafo finale per un commento-valutazione.
Tutto ritmo e sensazioni è invece l’approccio di Tommaso Chimenti, collaboratore del quotidiano “Il Corriere di Firenze”, in un brano che trasforma ogni idea in immagine:
Corpi sudati neri, senza “Tono”, compressi in coreografie sincopate, ritualizzate e decodificate, spezzate nella trama e nella sintesi, concettualizzate fino all’agonia, al vomito cerebrale, al rifiuto della visione, gesti uguali ai precedenti, due uguali ma diversi a togliere la polvere, cercare le stelle, domare il terreno fragile e distante, le speranze dure del pavimento, il muro colorato del pubblico silente.
I Kinkaleri non hanno anima.
La musica sorda di alluci acuminati scalfisce stridendo l’armonia del brusio […].
I due estratti mostrano spettatori che guardano acuendo facoltà diverse, e che in modo differente scelgono di scrivere. Una appare distante dall’oggetto: ci sembra di vederla a tavolino, intenta a consultare materiali e a farli interagire con la memoria dello spettacolo, preoccupata principalmente di rendere comprensibile la poetica del gruppo e le intenzioni della performance; l’altro ci porta dentro l’atto, nelle sensazioni fisiche e sonore che evoca, con una parola emozionale che tenta di riprodurre il ritmo e il movimento dell’azione dei corpi.
La critica non può essere altro che differenze. E per accumularne ancora, ricorriamo di nuovo a Silvio D’Amico:
S’intende che, come ogni altro interprete, egli non deve pretendere di sovrapporre volontariamente, vanitosamente, il suo io, la sua personalità, all’artista interpretato. Anche lui, come tutti gli altri interpreti, deve partire da un atto di umiltà, d’almeno iniziale dedizione, di rinuncia (fin dove è possibile) all’individualità sua; di volontario annegamento nell’opera intrapresa a studiare. Pessimo costume quello del critico teatrale che, mentre ascolta una recita, pensa via via all’articolo che scriverà, cerca gli spunti a una tesi geniale da sostenere, assapora per conto suo una trovata amena da inserire, per far colpo, nel suo resoconto; già bada, insomma, a mettere in mostra se stesso. Pessimo costume perché, fin quando la favola continui a fluire dalla ribalta, sui volti attoniti della platea, il critico non ha da pensare a sé. Non dev’essere che uno spettatore, il più qualsiasi che può, confuso fra gli altri e, come tutti gli altri, interamente abbandonato a quel gioco; tutto ciò che può far di meglio, è profondarsi nella finzione a cui assiste, e dimenticarsi in quella.
Solo più tardi, quando siederà al suo tavolo, e alla luce della lampada imprenderà a scaricare sul foglio bianco le sensazioni accumulate in sé durante lo spettacolo, tutt’a un tratto questo si distaccherà da lui, si mostrerà al suo spirito in una luce nuova; nella sua mente sorgeranno le idee, i raffronti, le definizioni brillanti, le osservazioni penetranti, come ora dicono, in cavità; e a poco a poco le sue impressioni, assumendo una linea precisa, si riveleranno, per la prima volta, a lui stesso. Allora, se egli ha un carattere, un suo accento personale, una sua visione dell’arte, della vita, del mondo, tutto ciò si manifesterà, ma senza farlo apposta, spontaneamente, fatalmente nel suo scritto; ne costituirà anzi il fascino. Né, in tal caso, il lettore ricorrerà a lui per altro motivo che per questo: d’essere preso e condotto per mano da lui, introdotto dalla guida di lui all’opera esaminata e, in genere, ai regni dell’arte.
E’ in questo senso che bisogna recisamente respingere l’esortazione vigliacca alla critica cosiddetta “imparziale”, e cioè frigida, indifferente, insomma estranea. Il critico non è un magistrato, che debba pronunciare una sentenza su cosa che non lo riguarda. È un artista, che lotta per quello in cui crede. La critica ha il diritto, e il dovere, di servirsi di tutte le armi lecite alla buona guerra[78].
D’Amico delinea una strana soluzione di compromesso, fertile, fra oggettività del critico, attese nei suoi confronti e libertà, perfino tendenziosa. Descrive un vero e proprio abbandono allo spettacolo, che somiglia a una specie di trance, e il successivo manifestarsi di un’interpretazione, che fa tesoro dell’esperienza percettiva per realizzarsi attingendo a tutti i mezzi dell’intelligenza e dell’emozione. Altri approcci, naturalmente, sono possibili, altri tipi di visione e ascolto. Alle prime rappresentazioni si possono notare critici che si “lasciano andare” completamente alla visione, e altri che durante lo spettacolo scrivono, annotano. Molto o poco, serbando qualche traccia per il lavoro di memoria o commentando ampiamente, in diretta, quello che vedono, rifuggendo da una visione troppo immedesimata. Straniamento brechtiano per il critico?
Per l’approccio soggettivo, personalissimo, alle opere, propende un grande critico letterario, Cesare Garboli:
Cominciai […] a farmi degli esami di coscienza. Ero certo, certissimo di non essere un critico. Il mio interesse estetico è forte e vivace, ma non sopporta i presupposti teorici, il metodo, e non ama distinguere tra il bello e il brutto. E’ vero che il gusto estetico, il piacere del bello, mi è connaturale e congeniale, e fa parte del mio mestiere, ma a condizione che non diventi noioso e pesante come un bagaglio: se non si limita ai sensi, all’orecchio, al palato, se si fa oggetto di analisi e di ricerca scientifica, se promuove i cosiddetti problemi di estetica, il ragionare sul bello mi diventa subito estraneo e lontano. Come dire che mi manca, per praticare la critica, nient’altro che la materia. Di un testo letterario mi basta sapere come si è formato, e che cosa è. Mi piace smontare i testi, rivoltarli, rigirarmeli fra le mani, sentire il loro polso che ancora batte, il loro fiato di organismi ancora vivi e carnali, ma solo per vedere come si articolano, come respirano, e se sono prodotti originali o d’imitazione. Se poi è stata una creatività originale a produrli, mi piace “eseguirli”, tradurli nelle mie parole come fa un pianista quando trasforma in suoni i segni dello spartito pieno di note che ha sotto gli occhi o nella memoria, rendendo a tutti accessibile la musica. Ma un pianista, un interprete è forse un critico?
Ho detto più volte, in passato, di sentirmi più un lettore che un critico. Gli scrittori lanciano le loro parole nello spazio, e le fanno cadere in un luogo sconosciuto. Il critico lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo. Ma, come critico-lettore, soffro di una forte limitazione. Leggo, e riporto a casa, quasi soltanto le capre del mio gregge. Traduco per gli altri, e riporto a casa solo quei testi che mi sono famigliari o che mi hanno sedotto in termini tali da non dimenticarli più[79].
Garboli fra il 1972 e il 1978 fu anche critico teatrale, prima per “Il Mondo”, quindi per il “Corriere della Sera” e, più occasionalmente, per “l’Unità”. Nella prefazione a Un po’ prima del piombo, il volume che raccoglie quelle critiche, Ferdinando Taviani osserva, riportandoci alla nostra dicotomia fra oggettività e soggettività dello sguardo del cronista di teatro:
La stranezza di molti frammenti di Un po’ prima del piombo è pura e semplice estraneità alle convenzioni e alle crisi del critico drammatico. Molti critici, pur senza volerlo, si pretendono interpreti di valori estetici e culturali ipocritamente oggettivi; o si fingono spettatore medio, alla maniera di Marco Praga; oppure cercano di nascondere la propria individualità attraverso il cosiddetto “distacco”, quasi per giustificare la propria mansione pubblica. Garboli, invece, raggiunge un piano oggettivo nel momento in cui riesce a dare un senso anche per gli altri, per i lettori, a ciò che accade nel punto in cui lo spettacolo sfocia nella sua mente di spettatore. Il che è giusto anche dal punto di vista teorico, perché il valore dello spettacolo altro non è, alla fin fine, che qualità di relazione con la memoria di chi l’ha visto[80].
Non si dà oggettività, nel teatro, senza esporsi, senza sedimentare la materia in un punto di vista, in un modo di guardare, in un’esperienza, in una memoria. E ogni soggettività, viceversa, deve confrontarsi con un’esperienza vivente, condivisa con altri e però sempre sfuggente. Taviani osserva:
La cronaca teatrale […] è un ottimo laboratorio. Perché la “critica” degli spettacoli non è come le altre, è paradossalmente ribaltamento del canonico lavoro critico: è “critica” costretta per sua natura a farsi testimonianza, dato che presto svanisce l’opera di riferimento. Quindi è necessariamente e di primo acchito ciò che negli altri campi è un raro punto d’eccellenza e d’arrivo: critica del critico su di sé […][81].
3.4. Tipi e caratteri
Alcuni tipi esemplari di critici drammatici sono delineati da Ettore Capriolo. Il primo è il “critico-barometro”,
che respira all’unisono con la civiltà del proprio tempo, facendosi interprete delle sue virtù e dei suoi pregiudizi e fornendo documenti insostituibili per comprendere i rapporti tra società e teatro (una società relativamente solida, almeno per quanto concerne le classi dominanti che di queste recensioni sono le destinatarie; un teatro che per queste classi ha una funzione precisa da svolgere) in un determinato periodo[82].
Ogni tipo è illustrato con esempi, italiani e stranieri: qui riportiamo solo le definizioni, lasciando al lettore la libertà di andare alla fonte, per approfondire, o di provare a riempire le caselle con propri esempi.
- Il critico temperamento, per il quale l’esercizio della critica drammatica è soprattutto un modo di manifestare se stesso, i propri umori e le proprie antipatie, e il teatro può essere un mero pretesto. […]
- Il critico con l’asso nella manica. Adempie, di solito temporaneamente, al proprio compito dedicandosi con pazienza o con asprezza allo smantellamento delle false reputazioni o delle convenzioni svuotate di senso che ingombrano il teatro nel quale s’accinge a intervenire in prima persona con i copioni che per ora tiene nel cassetto o con un organico progetto di riforma di cui è il profeta e il futuro protagonista. […]
- Il critico campione. Quello che sposa una causa e per lei si batte con caparbietà, con entusiasmo, gradatamente conquistando nuovi proseliti e vedendola trionfare. Si distingue dal precedente perché non è direttamente interessato come autore o regista, all’esito della battaglia. La sua critica è necessariamente parziale, con occasionale sopravvalutazione degli eventi che vanno nella direzione voluta e con contestazioni più o meno radicali a quelli che seguono la tradizione dominante. […]
- Il critico occasionale. E’ una sorta di dilettante d’ingegno che giudica il teatro ma dedica il meglio della propria attività intellettuale alla letteratura creativa, alla saggistica culturale, o, mettiamo, alla politica, e che per qualità di scrittura, per sicurezza di gusto, per la sua stessa posizione marginale rispetto al cosiddetto “ambiente”, ha la possibilità di guardare le cose con benefico distacco riuscendo spesso a darci immagini concrete e significanti di spettacoli e di attori (soprattutto di attori), sbiaditi altrove in pagine che non descrivono nulla o in aggettivi meramente generici, nonché ad aprire prospettive feconde su autori e testi che magari al momento passano inosservati[83]..
Alcune di queste figure le abbiamo già tratteggiate. Quella del “critico con l’asso nella manica” è illustrata da Capriolo con alcuni esempi storici, fra i quali quello di George Bernard Shaw. Leggiamo alcuni passaggi della prefazione di questo scrittore alla raccolta delle sue critiche teatrali:
Devo onestamente avvertire il lettore che quella che si accinge a studiare non è una serie di giudizi che tendono all’imparzialità, ma un attacco al teatro del XIX secolo da parte di un autore che ha dovuto aprirvisi una strada con la punta della sua penna, coprendo di fango alcuni dei difensori di quel teatro.
Per favore, non saltate alla conclusione che quel che si legge nelle pagine che seguono è falso, oppure che avrei potuto scrivere qualcosa di meglio e di più profondo. Basta tener presente che io accusavo i miei avversari di essere dei falliti perché non facevano quello che dicevo io, mentre essi riuscivano ad avere grande successo facendo quello che volevano loro. Io postulavo l’esigenza che si scrivesse un tipo di dramma sul quale, dieci anni dopo, ero destinato a imprimere il mio marchio di fabbrica […].
Sono pochi i critici giornalisti che sanno quel che fanno. Quando attaccano un uomo nuovo al modo che fu attaccato Ibsen, oppongono resistenza a un cambiamento che potrebbe rivoluzionare le loro abitudini. Ne è prova il fatto che, quando trovano il tipo di commedia che rimproverano all’innovatore di non mettere in scena, voltano il naso dall’altra parte, ci sbadigliano sopra, e raccomandano persino, all’autore sfortunato, di imparare da un nuovo venuto come aprire gli occhi e usare il cervello[84].
Queste parole evocano una magnifica tendenziosità, una precisa volontà d’intervento, una cognizione, magari maturata a posteriori, del proprio ruolo, più che di cronista imparziale di osservatore implicato, di inventore di teatro.
La disputa fra pretesa oggettività e soggettività viene risolta, come era immaginabile, dalle personalità capaci di indossare senza pudore le armi della tendenza per forzare situazioni immobili, stantie. Anche questa è un’operazione “critica”, che apre fessure pronte a tramutarsi in voragini, perché rimette in discussione i confini.
Quanto alle altre tipologie enucleate, potremmo avanzare suggerimenti per estenderle (anche se esse sembrano già abbastanza comprensive). Sicuramente va esplicitata un’ulteriore figura, quella del “critico che si sporca le mani”, o del “critico impuro”. I due termini non coincidono perfettamente, poiché prodotti in due momenti storici relativamente vicini ma profondamente diversi, gli anni sessanta e questo primo scorcio di secolo ventunesimo. Dello “sporcarsi le mani” abbiamo parlato. Riportiamo l’autodefinizione degli ambiti problematici in cui si muove il “critico impuro”:
[…] oggi più che mai appare impossibile dividere “arte” e “parte”: lo sguardo dichiaratamente partigiano e parziale si conferma il più onesto e pro-vocatorio, l’unico in grado di assumere una precisa posizione etica nei confronti del presente, posizione imprescindibile per leggere il reale attraverso il teatro e viceversa, per distinguere il valore testimoniale di un’opera nel dilagare dei flussi modaioli. Oggi più che mai appaiono necessarie mobilità di sguardo, coscienziosa pratica dell’azzardo e umiltà nel confrontarsi con le innovazioni avvenute sul piano del linguaggio. In un orizzonte teorico segnato da una fragilità costitutiva, il compito del critico sembra quello di muoversi in direzione di un’impurità di approccio che permetta di indagare la realtà attraverso sguardi molteplici. Un approccio impuro si nutrirà dunque di teorie diverse, anche contraddittorie, secondo un respiro che non cerchi ancoraggi e sia disponibile a coniugare in maniera inedita stimoli provenienti da diverse discipline. In bilico su una soglia in continuo spostamento, il critico impuro si muove senza bussola, navigando a vista, tracciando orbite irregolari e paradossali. In questo procedere per approssimazioni, libero dall’ansia sterile della definizione, o per meglio dire dell’etichetta, il critico appare l’opposto dello specialista, non settario e settoriale, ma disposto a farsi spostare e a rimettere a fuoco la propria percezione[85].
“Tra le forme d’espressione, il teatro è una delle più impure”, scriveva Alberto Savinio[86].
3.5. Storie di critici
Le citazioni che costellano questo capitolo raccontano anche un’altra cosa: storie di critici, di persone, inseparabili dal loro modo di guardare in un determinato momento. Problemi che nascono in particolari temperie, istanze di cui chi scrive si fa portatore, innovando o rafforzando il modo corrente di osservare, trasformando il teatro del proprio tempo e facendosi da esso trasformare. Provando in certi momenti con il teatro, con il racconto che ne perpetua l’atto effimero e cerca di esorcizzarne lo spreco, a ipotizzare modi di convivenza diversi.
Metteremo a confronto perciò, ora, due storie diversamente esemplari, due diversi modi di interpretare questo ruolo, attraverso estratti di due interventi pronunciati all’incontro su De Monticelli del 1996: quello di Franco Quadri, critico di “Repubblica”, saggista ed editore, e quello di Giovanni Raboni, poeta e traduttore, in quegli anni critico teatrale del “Corriere della Sera”.
Iniziamo con Quadri che, come abbiamo già visto, in quel convegno ripercorre la propria vicenda intellettuale chiamando a continuo metro di confronto, di paragone e di opposizione, quella di Roberto De Monticelli:
[…] a separarci – e mi spiace radicalizzare questo conflitto naturale e umano, personalizzandolo – c’era in effetti anche un modo, che gradualmente si diversificava sempre più, d’intendere la critica, che dipendeva a sua volta da fattori generazionali. E non intendo i modi di scrittura, che, per chi come me si focalizzava sulla ricerca, finivano per anteporre al “racconto” la sua visualizzazione, alla dialettica la pura elencazione di materiali, al giudizio un’oggettività fattuale per lo meno teorica. Intendo contrapporre la sua scelta di “critico militante” puro e la mia di “sporcarmi le mani”, fin dal principio, perché il dirigere (seppure di fatto) una rivista, mi poneva già in una posizione “politica”. Ho anche teorizzato, a suo tempo, questa confluenza verso l’azione pratica, che il mutare dei tempi mi sembrava rendere inevitabile; ho sostenuto che il dedicarmi in modo pratico alle tendenze espressive in cui credevo costituisse un’estensione dell’attività critica, che ho sempre considerato una manifestazione marginale, rispetto a un’attività marginale nei confronti della realtà qual è il teatro. Almeno così pensavo e scrivevo a metà degli anni 70. E completavo allora il far critica con l’organizzare manifestazioni, festival, convegni, associazioni di tendenza, tournée di gruppi stranieri, il promuovere premi, e poi soprattutto buttandomi in un’attività editoriale di teatro e spettacolo promossa in prima persona e che mi occupa ormai da quasi vent’anni, un’attività comunque non speculatoriamente commerciale, ma da sempre, ahimè, in perdita. Solo poche volte ho tradotto testi e fatto interventi di drammaturgo.
Devo dire che più il tempo avanza e meno so quanto tutto questo sia o non sia giusto. Per esempio, ho pensato a lungo che il modo migliore di fare critica come io la intendo – cioè cercando di approfondire il più possibile l’intenzione registica per meglio poterne dare conto, verificandone la riuscita – sia quello di poter seguire, in modo diretto, il procedimento creativo: al meglio, cioè, di assistere alle prove. Ma questo si può realizzare per un numero limitato di spettacoli, date le scarse possibilità di tempo, e quindi provoca a priori dei favoritismi: in ogni caso, inevitabilmente, una volta approdato a un certo grado di conoscenza, ti senti proiettato al di dentro degli spettacoli che vai a vedere in prova, con sempre minori possibilità di distacco; e quando ti trovi tra gli spettatori, dopo, alla rappresentazione, senti di avere un tipo differente di reazione. E’ giusto porsi in una posizione di vantaggio nei riguardi degli altri spettatori, per un critico?[87]
Lasciamo in sospeso la bella autoconfessione di Quadri su queste note problematiche e riportiamo il cuore dell’intervento di Raboni, giungendo a un altro dei vari, sempre instabili, punti fermi del nostro percorso:
La critica non serve soltanto, in modo contingente, per registrare successi o insuccessi, per orientare il pubblico nei confronti degli spettacoli correnti, per perseguire una propria idea di teatro o addirittura per svolgere, in maniera sotterranea, una propria politica nei confronti del teatro, non serve soltanto per soddisfare o mortificare le vanità di chi fa teatro. Io credo che serva per chiudere un cerchio. Il teatro […] nasce dalla parola – magari da una parola non formulata, ma, se anche non si tratta di teatro di parola, nasce comunque sempre in funzione della parola. E ha bisogno della parola per finire il proprio ciclo vitale. Ha bisogno di depositarsi nella parola del critico – e qui è chiaro che il termine “critico” non va più bene, bisogna forse dire “del testimone” o “del narratore”. […] Il critico militante, il recensore […] chiude questo cerchio: fa depositare la parola, quella parola originaria che si è incarnata nello spettacolo, nei gesti degli attori, nell’invenzione del regista o dello scenografo, dentro altre parole. Io credo che ciò sia importantissimo. Credo che nell’inconscio di chi va a teatro ci sia il bisogno di sapere che quest’arte effimera per definizione, che avviene e che non si può ripetete, se non in tristi approssimazioni meccaniche che non danno mai idea del reale dell’evento, abbia una sua salvezza. Questa salvezza è la scrittura del critico testimone, del critico narratore[88].
3.6. “Raccontare per far rivivere”
Raboni sottolinea ulteriormente l’importanza dell’atto della scrittura, di una scrittura diversa da quella letteraria, capace di far vedere e di esporre idee, di essere insieme vicina e distante da un oggetto vivente:
[…] il critico, posto che sia capace, non prevenuto e non arrogante, sente come suo primo dovere quello di raccontare ciò che ha visto. Raccontare non vuol dire raccontare la trama, significa semmai raccontare la trama delle proprie emozioni. In questo c’è implicitamente un superamento della divaricazione mimesi/distanza, perché il racconto è nello stesso tempo vicino e lontano: chi ha assistito e racconta è capace di usare allo stesso tempo il cannocchiale e il microscopio, per usare una metafora proustiana[89].
E Quadri, ancora, a conclusione del suo intervento:
[…] entrando in un quotidiano, nell’87, scoprivo un altro modo di fare il critico, quello che aveva contraddistinto quasi interamente la carriera di Roberto […]. La diversità degli spazi, l’obbligo delle “prime”, la necessità di scrivere al mattino dopo, il numero martellante di spettacoli da vedere, spostandomi continuamente, mi cambiava completamente le prospettive. Mi alienava completamente, mettendomi nella stesa posizione dei quotidianisti, non solo di Roberto, che negli anni 70 io e gli altri “sperimentatori” vedevamo chiusi in una condizione di forzati: con una maggior difficoltà di rinnovarsi, di rinfrescarsi al bagno di altri media, costretti addirittura a sacrificare una normale vita di relazione. Se ne andavano quindi per me inevitabilmente quasi tutti gli impegni paracritici, salvo quello editoriale, che continua a occupare a tempo pieno la giornata dell’altro me stesso quando sono in sede. Ma ne acquistavo al contempo qualcosa: una specie di delirio. Lo diceva ieri Raboni: quel senso di assoluto che ti afferra quando la cerimonia inizia e tu ne diventi parte. Forse solo allora capivo il segreto di Roberto: quel vivere, come un attore, solo in funzione dello spettacolo, che non reciti, ma che vivi; calandotici dentro prima, attraverso la lettura del testo, continuando a viverne dopo, ripassando lo spettacolo visto sugli appunti e ancora sul testo, sulle note di regia, senza pace, fino a essere riuscito a fermare in qualche modo sulla pagina la rappresentazione; e rodendoti, poi, nell’angoscia di non avere detto tutto e di non avere colto quello che dovevi cogliere o di non avere dato il giusto peso allo spettacolo in prospettiva, rispetto agli altri spettacoli, in un tormento infinito, dubbi, dubbi, dubbi […][90].
E arriviamo alla conclusione, non senza sottolineare quel tormento svelato dal critico, così familiare, in forme diverse, a chiunque abbia provato a raccontare uno spettacolo avvalendosi degli spazi sempre avari, anche quando sono ampi, che si hanno a disposizione.
Alla fine ci ritroviamo davanti alla solitudine del critico, e, ampliando, a quella dello sguardo di fronte all’opera palpitante di voci, azioni, sudori degli artisti di teatro, e alla necessità di “raccontare per far rivivere”:
[…] con la consapevolezza, alla fine, di essere stato nel migliore dei casi riduttivo e di avere comunque diritto al rifiuto da parte dei teatranti.
E non si tratta di masochismo, perché chi cancella quella gioia d’immedesimazione o di svelamento, quel brivido che è sempre là, in attesa, imprevedibilmente, a volte anche nello spettacolo non riuscito, negato solo quando c’è malafede? Ed è questo, della malafede, l’unico caso, credo, in cui si è autorizzati a reagire con severità: ma con dolore e rabbia. Il gusto di stroncare era stato una breve parentesi d’infantilismo, persa tanti anni fa, per stupire come un buffone qualche salotto. Non si tratta di masochismo, perché poi, anche se a volte bisogna far fatica, subentra un gusto del raccontare, che è un piacere pieno, scoperto tardi, ma con felicità autentica. Raccontare per far rivivere… Un’illusione che ripaga anche della solitudine. Perché si è soli, lo ripeto, sempre, anche se ogni spettacolo è preceduto dalle schermaglie attrattive dei teatranti e non sempre è seguito da risentimenti. Ma le parole restano sospese, senza riscontri, forse inutili, forse gratuite, né saprai se verranno comprese né da chi. E non è consolante sapere che dall’altra parte, parallela, c’è la solitudine del regista, ogni volta che si stacca dallo spettacolo e deve aspettare, per superare questa condizione, di iniziarne un altro[91].
Ora siamo penetrati, forse, nel luogo reale del lavoro del critico: nella solitudine della riflessione, della rievocazione, del racconto, dell’atto di scrittura. Nel dolore della separazione dalla società teatrale, con la consapevolezza di farvi parte. Ci troviamo nella visione pronta a trasformarsi in narrazione che sarà condivisa da altri. Anche in questo caso in solitudine?
3.7. Il laboratorio: esercizi di osservazione
Tre tipi di esercizi suggerisce questo capitolo.
Leggere, innanzitutto, le raccolte degli scritti di qualche critico (vedi Bibliografia).
Provare a sperimentare, poi, in prima persona l’osservazione, l’analisi e la descrizione con il cannocchiale e quelle con il microscopio. Avvicinare e allontanare l’oggetto. Distanziarsi simulando un’oggettività, ovvero scegliere un angolo di visuale molto vicino, fino alla partecipazione totale. Provare a narrare, a trasformare la propria visione nel ritmo di un racconto. Con quali regole? Liberamente, esplorando modi di resoconto e, prima ancora, di ascolto differenti.
Consiglio anche di misurarsi, attraverso la scrittura, con la propria vocazione, cercando di rintracciare le sue fonti, la nascita dell’interesse per il teatro, analizzando il proprio cammino di spettatore o di partecipante all’atto teatrale, “puro” o “impuro” che sia.
Ripeto: esercizi, inutili come sempre sono gli esercizi. Forse solo apparentemente inutili. Faticosi. Tanto più utili quanto più faticosi. Necessari: ammesso che oggi la necessità sia un valore.
- Le condizioni del racconto
4.1. Cosa guardiamo a teatro
A partire da questo capitolo passeremo a considerare il fare critica oggi, anche nei suoi aspetti più spicci, minuti, con la consapevolezza che trattiamo un modo di guardare e un lavoro in mutazione, senza punti stabiliti una volta per tutte. Ci appoggeremo ancora a visioni generali, ma soprattutto proveremo a tracciare una mappa di usi e problemi, di intuizioni e domande, di tentativi e di smacchi: schizzi per una geografia descrittiva rilevati sul terreno, forse senza la distanza sistematizzante di un punto di osservazione esterno. Ma è dall’interno dell’agire che si può aspettare di definire un nuovo campo, fra una quotidianità a volte grigia e le lacerazioni che la sperimentazione può causare.
Guardare, a teatro, è un atto complesso. Abbiamo visto che per molto tempo ha significato, principalmente, osservare come veniva realizzato, o eseguito, o tradotto il testo drammatico sulla scena. Abbiamo anche capito che oggi la questione sta in termini diversi. Il teatro è esploso, le fonti dello spettacolo si sono moltiplicate, l’artista sempre di più ha rivendicato, nella pratica prima che nei proclami, il ruolo di creatore al posto di quello di traduttore-interprete. I generi, i linguaggi, hanno perso i contorni troppo definiti, si sono intersecati.
Crollate le certezze sull’oggetto, lo spettacolo, sono diventate anche più fragili quelle sui modi di raccontarlo e interpretarlo. La critica si è trasformata da brano letterario, meno importante di altri ma pur sempre dotato di una sua sapienza espressiva, da bel racconto-resoconto di un testo, di un’interpretazione, di una serata, in descrizione di procedure sceniche a volte complesse e plurali, in tentativo di scavo del processo di composizione dello spettacolo.
Lo notava Quadri, in una parte dell’intervento riportato nel capitolo precedente, quando rilevava che chi, come lui, si ”focalizzava sulla ricerca finiva per anteporre al ‘racconto’ la visualizzazione, alla dialettica la pura elencazione di materiali, al giudizio un’oggettività fattuale per lo meno teorica”[92].
Si riferiva, evidentemente, a una metodologia messa a punto negli anni sessanta e settanta osservando quel teatro “dilatato” che abbiamo più volte nominato, un teatro composto da artisti che scelgono per le loro opere punti di partenza, materiali e tragitti di costruzione diversi, affidandosi spesso a lunghi processi laboratoriali. Il teatro italiano di quegli anni conosce il Living Theatre, che fonde improvvisazione fisica e vocale con l’utopia di una comunità creatrice, libera e anarchica; il Teatro Laboratorio di Grotowski, con il suo metodo di composizione per improvvisazioni dell’attore e interventi del regista, che smonta e ricostruisce grandi testi e miti facendoli interagire con corpi tesi all’estremo delle loro possibilità in una fitta trama di relazioni sceniche. Si appassiona alle successive ricerche dello stesso Grotowski in territori apparentemente sempre più lontani dal teatro, e si lascia sedurre dalle azioni fisiche e intellettuali dell’Odin Teatret di Eugenio Barba. Ma numerosi e importanti sono anche i contributi dell’avanguardia italiana, ricca di figure di attori-autori che sovvertono le consuetudini quali Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Carlo Quartucci, Carlo Cecchi. Un regista come Luca Ronconi, in spettacoli come Orlando Furioso o in esperienze come il laboratorio di Prato, saggia gli stessi limiti artistici e teorici della regia. Alle rarefatte figurazioni del “teatro immagine” degli anni settanta, con Perlini, Ricci, Vasilicò e altri, si giustappongono il teatro di strada, il teatro politico e d’intervento, il teatro a partecipazione con i bambini, con i “matti”, con gli abitanti di quartieri periferici.
Insomma, fioriscono esperienze eterodosse, che non si lasciano comprendere nella formuletta canonica della cronaca drammatica: titolo, autore, compagnia, teatro, eventuale contestualizzazione o discussione dell’opera, riassunto dell’intreccio, giudizio più o meno approfondito sul testo e, dall’epoca dell’affermazione del regista, sulla messa in scena, citazione dei principali attori con aggettivi che ne caratterizzano la prestazione, resoconto sulla ricezione da parte del pubblico ed eventuali note di colore.
Giuseppe Bartolucci definisce con una formula che avrà gran successo le modalità operative del nuovo teatro. Parla di “scrittura scenica”:
Esiste una scrittura drammaturgica, una scrittura scenica? E in che consiste, su chi risiede: è un accompagnamento della parola all’azione, o è un accompagnamento dell’immagine all’azione? O addirittura e semplicemente è parola-azione, o immagine-azione? Nel caso, ed è, il mio che si voglia insistere su questa seconda ipotesi di definizione, ecco che vengono incontro difficoltà di ogni genere: si tratta di immagini in movimento (e la parola è qui assunta come elemento di immagine), con durata e spazi specifici, oppure si tratta di contaminazioni di immagini con durata e spazi non specifici? E’ chiaro che non si vuole in alcun modo andare alla caccia di uno specifico teatrale, quanto semmai di una autonomia articolata e di una circolarità di elementi, per una “aperta” lettura e “visione” di codesta scrittura scenica. Allora ciò che importa sono la schiettezza e la esattezza della descrizione degli elementi che compongono tale scrittura scenica nel suo insieme[93].
4.2 Come guardiamo
E’ interessante notare come la definizione di un nuovo oggetto di osservazione si trasformi, immediatamente, per il critico Bartolucci, in un problema di sguardo e racconto, di “lettura” dei nuovi elementi, più fluidi e molteplici dei vecchi, e di descrizione. Infatti il brano citato, contenuto proprio in apertura di un volume a più voci che raccoglie materiali e tentativi di analisi di esperienze di punta di quegli anni, continua così:
Così per me ogni “lettura” di spettacolo, ogni “visione” di rappresentazione è anzitutto descrizione degli elementi che le compongono; e questi elementi evidentemente fanno tutt’uno, diventano un unico movimento, ma anche sorgono da varie arti e su vari materiali, e cioè con varie prospettive di cultura e di vita, e al tempo stesso su vari insediamenti strettamente scenici. Così una “lettura” di spettacolo, una “visione” di rappresentazione è da un lato una specie di “reinvenzione” del suo movimento drammatico nel suo insieme, e dall’altro lato è una analisi di questa “reinvenzione” in tutti i suoi movimenti costitutivi, che sono, come si è visto, di molteplice e complessa derivazione[94].
Il discorso critico si confronta con le condizioni del teatro reale, affinando il proprio modo di guardare e cercando di trovare una “scrittura” all’altezza dei nuovi compiti. Lo sguardo deve aprirsi, come anche la forma della “critica” deve mettersi in discussione, nel senso che non è più agevolmente contenuta negli spazi e negli ambiti tradizionali della stampa quotidiana.
Le nuove consegne derivano dal pulsare reale del teatro. E’ evidente dal seguito del ragionamento di Bartolucci, che si riferisce a molte delle esperienze di punta di quegli anni:
In effetti occorre cominciare a considerare la “lettura” come “visione” un dato di partenza estremamente utile e igienico, mentalmente e operativamente, dal punto di vista critico; poiché un teatro-immagine è oggi meno oggetto di scandalo e di contestazione e di rifiuto, di quanto mai potesse soltanto supporsi una decina di anni or sono. Anche per il numero sempre più grande di spettacoli, di rappresentazioni che agiscono sulla successione delle immagini (e anche non metaforicamente, per l’uso del materiale cinematografico), in veste di luci soprattutto e del loro uso immaginativo, come pure sulla successione dei rumori (intesi come suoni o come toni di voce in veste di avvolgimento per la più, oltre che di deformazione). Così il movimento di questi spettacoli, di queste rappresentazioni è dettato in particolare dalla successione delle immagini, in cui parole e voci e suoni e rumori prendono vita e trovano posto per amalgama, come tensione di codesta scrittura scenica in vista della realizzazione di un prodotto altamente formalizzato. Ma si può descrivere un movimento di immagini, si possono analizzare i momenti di questo movimento, che sappiamo sì essere materializzati e fisicizzati tecnicamente ed altresì soggetti a un procedimento, a un artificio, se però l’uno e gli altri non durano che nel momento in cui sono fatti agire, in cui essi stessi agiscono: la durata e lo spazio loro assegnato o che si sono conquistati, anch’esse morendo ogni sera, e scomparendo nel giro di una fetta di stagione per sempre? A questo punto una “visione” di questo movimento, dei momenti costitutivi di questo movimento, che legittimità scientifica ha, ossia che validità conoscitiva si porta seco? Non è forse codesto una specie di delirio immaginativo, di esercizio astratto, a scapito della chiarezza dell’analisi dello spettacolo, della rappresentazione, per quel che vi vien detto e fatto, per quel che vi si svolge e vi si conclude, intellettualmente, drammaticamente, tutt’assieme?[95]
Questo approccio, che cerca di “leggere” qualcosa di diverso, una “scrittura scenica”, nasce dall’affermazione di un teatro molteplice. Il critico deve, come ha fatto a lungo, dare una sintesi razionale o invece inseguire la volatilità di elementi visivi, sensoriali, emotivi? Ci troviamo proiettati in un territorio pieno di spazi vuoti e di scorci problematici. Ma quel guardare e annotare, quel provare a descrivere e a tracciare altri nessi, non lineari, non con i mezzi tipici del discorso o della narrazione consequenziale, è l’unico modo, rileva Bartolucci, per rendere conto di fenomeni complessi, che né la critica storicistica, né quella formalistica riescono a illuminare in tutte le sfaccettature, continuando a considerare la scrittura scenica
un addentellato letterario oppure assegnandole una teatralità, e però mai invadendo quello che io chiamo il “prodotto”, naturalmente non in termini di merce questa volta, in termini di esistenza di una materia drammatica confezionata e quindi con la possibilità di descriverne tecnicamente la composizione e la configurazione in tutti i suoi elementi e nel suo procedimento[96].
Elementi e procedimenti. Sono le materie, i materiali dello spettacolo, che questo autore, che ha formato direttamente o indirettamente varie generazioni di critici, che ha segnalato artisti e gruppi, che ha rotto steccati e suggerito visioni sorprendenti, consiglia di scandagliare. La vecchia critica non è più utilizzabile:
Faticosamente, irregolarmente, tuttavia cominciamo anche in Italia ad avere saggi di critica teatrale; e per saggi di critica teatrale, qui intendo significativamente quelli che aiutano a vedere lo spettacolo, ricostruendolo nelle sue componenti tecnico formali. Vedere uno spettacolo è anzitutto ricostruirlo: non certo con il racconto della trama, sempre psicologicamente inesatto ed approssimativo; o con la documentazione di quanto ha fatto finora l’autore, in genere non importante o inefficace ai fini dello spettacolo; o con l’aggettivazione necessariamente inadeguata e marginale dell’interpretazione degli attori. Non siamo mai stati abituati peraltro a vedere uno spettacolo attraverso l’analisi delle sue componenti tecnico formali[97].
Rinnovare le proprie forme per entrare a fondo in atti che si distaccano dalle tradizioni conosciute della disciplina: questo viene chiesto alla critica.
Ma il nuovo non sempre cancella il vecchio, vi si affianca, spesso con un ruolo dinamico dal punto di vista culturale, ma marginale da quello economico e quantitativo. Le rivoluzioni, le rivolte, o semplicemente i tentativi di sperimentare qualcosa di inedito, in Italia scalfiscono poco un sistema teatrale spesso immobile. I problemi della critica, allora, si complicano, come dimostrano gli esiti concreti intercorsi fra le lucide parole di Bartolucci e i nostri giorni.
Un punto fermo comunque lo abbiamo segnato: il critico deve affinare i mezzi dello sguardo, per registrare un teatro molteplice, spesso non più centrato su un supporto materiale fissato in un testo scritto.
4.3. Dove guardiamo
Lo sguardo si esercita su oggetti particolari, in determinati luoghi e circostanze. Per comprendere meglio le operazioni che compie il critico, occorre chiarire le condizioni in cui si producono, si vedono, si vendono il teatro e lo spettacolo.
Come le forme della creazione anche i luoghi dove ambientare azioni artistiche che possono comporre diversamente elementi quali il corpo, l’immagine, la scrittura, la parola, la luce, il suono si sono moltiplicati. In verità, nel nostro paese, è ancora dominante la struttura del teatro all’italiana, un palcoscenico contrapposto a una sala con platea e palchetti (o gallerie). A differenza che in altri paesi d’Europa, da noi sono carenti gli spazi contemporanei, vecchie fabbriche o magazzini abbandonati, trasformati in luoghi per le arti sceniche con gradinate mobili, diversamente modulabili a seconda delle esigenze dello spettacolo. Eppure sale di centri civici, di palazzi, cantine, luoghi all’aperto sono stati variamente adattati da compagnie o da festival per la rappresentazione: in molti casi riproducendo la relazione del teatro all’italiana; in altri cercando di allestire ambiti per nuovi dispositivi artistici o per situazioni di laboratorio, di approfondimento e studio, di incontro con la realtà esterna al teatro.
Conoscere le specificità degli spazi scenici è importante; è essenziale cercare di capire il pubblico che li frequenta, il progetto all’interno del quale gli spettacoli sono inseriti, con maggiore o minore coerenza. Si tratta di fattori esterni che possono caratterizzare la relazione fra artista e spettatore e influenzare le condizioni della ricezione.
Così Stefania Chinzari e Paolo Ruffini raccontano, per esempio, l’uso dello spazio scenico dei gruppi degli anni novanta:
C’era una volta lo spettatore, entrava in un posto chiamato teatro, si sedeva in poltrona insieme agli altri del pubblico e, all’apertura del sipario, guardava. Oggi, sempre più spesso lo spettatore è protagonista invece di una fruizione alterata, che sovverte una delle regole fondanti del teatro. Si ritrova in piccoli gruppi o addirittura da solo, fa parte di una comunità di eletti cui è concesso spiare da gabbie o vetri, è direttamente immesso all’interno dell’opera, viene fisicamente maneggiato dagli attori o, per paradosso, gli si impedisce di vedere[98]. […]
Il teatro degli anni novanta sancisce e reinterpreta anche il suo rapporto con lo spettatore nel senso di una visione che è sempre inquieta, disturbata e parziale, quando non addirittura negata. E quando è invece eccessiva, occulta e devia il vero senso dello spettacolo. Un rapporto che prevede spesso e volentieri luoghi alternativi all’edificio teatro (stanze, discoteche, fabbriche) e piccoli o piccolissimi gruppi di pubblico (cinque, sette, uno) […][99].
Se mai è esistito un unico modo di fare e di concepire lo spettacolo (accanto ai palcoscenici maggiori, raccontati dai grandi critici, esistevano pure in passato teatrini più o meno sperimentali, legati magari alle università, o forme di spettacolo “minore” come quello del circo, del varietà, del teatro dialettale, dei burattini o delle fiere…), oggi non è più neppure concepibile un rituale unico, da raccontare sempre uguale, con qualche piccola variazione.
Il teatro rompe gli ambiti e i formati prestabiliti, rifiuta la gerarchia del testo e anche la divisione dei generi, sposta le frontiere
[…] dando vita a un’arte “indisciplinare” che rimette in circolo su un terreno comune materiali provenienti dalla danza, dalle arti visive, dalla musica, dal teatro…; senza che si tratti peraltro di cercare la quintessenza di un’“arte totale”[100].
E dà anche nuovo senso agli spazi, ospitando dispositivi scenici che hanno come scopo quello di spiazzare la percezione dello spettatore. Ma in molti casi, al contrario, si continua a trascinare una tradizione, spesso esausta, quella della compagnia di giro, del teatro stabile che ha ormai perso il senso della sua origine e delle sue funzioni pubbliche, del teatro commerciale, perpetuando le abitudini di certi luoghi e certi modi di rapportarsi con il pubblico come rituali stanchi.
Se si sfoca o moltiplica l’oggetto, il critico deve prestare un’attenzione particolare anche alle zone di contorno o di sovrapposizione. Fenomeni apparentemente marginali per l’arte diventano spesso importantissimi come indicatori di scelte politiche. Il “repertorio”, una parola forse grossa per i teatri italiani che raramente riprendono un’opera per più di due o tre stagioni, i tempi per ammortizzare i costi di produzione, il valore e la coerenza dei cartelloni, la loro capacità di innescare dibattiti, approfondimenti, sguardi incrociati o il semplice giustapporre spettacoli, l’intento o meno di dialogare a fondo con gli spettatori, con una comunità civile e con i suoi temi e problemi, il tipo di spettatore e di fruizione privilegiati, l’approccio al pubblico, la politica degli abbonamenti sono tutti elementi per definire la qualità del progetto, della ricezione e in certi casi della performance (un luogo sbagliato, un rapporto infelice con la direzione di un teatro o con i tecnici possono rendere meno efficace anche un lavoro perfetto).
Abbiamo già visto come può essere sfaccettata la programmazione di un teatro stabile ospitato in una media città come Modena, con proposte accolte in spazi diversi rivolti, per lo più, a pubblici differenti. In una città più grande, Bologna per esempio[101], ogni sala ha una propria vocazione, un proprio pubblico. Così troveremo un teatro prettamente di tradizione, con attori di richiamo, prodotti di teatro leggero anche musicale e qualche prudentissima sortita in formati aggiornati in un luogo come il Duse; una programmazione appena più arrischiata, ma pur sempre rivolta al grande pubblico, all’Arena del Sole, con uno spostamento verso il teatro di regia, spettacoli che intrecciano musica, teatro e danza, lavori di attori con un particolare carisma, magari rafforzato da apparizioni televisive. Spazi come Teatri di Vita sono dedicati al teatro e alla danza contemporanei; altri, come il Teatro delle Moline, il Teatro del Navile o l’ITC di San Lazzaro, alla drammaturgia contemporanea; altri ancora, come il Teatro Ridotto o il San Martino, a vari aspetti delle arti sceniche d’oggi. Abbiamo un palcoscenico per i comici di successo popolare, il Teatro delle Celebrazioni, uno, il Dehon, per le compagnie di giro, d’attore, private, una sede più o meno stabile per il teatro dialettale (Teatro Alemanni). Ma troviamo anche un centro sperimentale come La Soffitta, il teatro del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università, che non programma propriamente una stagione, ma promuove progetti, vere e proprie personali di un artista o rassegne su emergenze della scena (il teatro napoletano, teatro e differenza eccetera), incentrando l’attività anche su convegni, incontri di studio e laboratori che permettano agli studenti di spettacolo di incontrare direttamente i protagonisti della scena.
Diverso sarà poi il modo di considerare gli spettacoli e i festival. Questi ultimi, spesso, non sono solo una vetrina di opere, ma vogliono esprimere un progetto originale per un determinato territorio, che si esplica in modi e tempi intensivi, diversi da quelli delle normali stagioni dei teatri. Ospitano, magari, laboratori speciali di formazione e ricerca, oppure creazioni in spazi inconsueti, per esplorare ulteriori frontiere espressive e di relazione con il pubblico e con l’ambiente.
Rilevante è pure la questione della forma dell’accesso del pubblico. Il sistema degli abbonamenti permette ai teatri di contare su frequentatori affezionati, di prevedere una parte delle entrate, ma induce anche una certa pigrizia nelle scelte degli spettatori che, attirati da qualche titolo o nome di richiamo, accettano una programmazione complessiva molte volte diseguale. Proprio l’apparente caduta del numero degli abbonati è stata una delle questioni sollevate per criticare la gestione innovativa del Teatro di Roma da parte di Mario Martone (in realtà Martone aveva sostituito all’abbonamento obbligato una carta che permetteva di scegliere gli spettacoli da vedere). Come dimostra Carla Benedetti, si è trattato di un vero e proprio grimaldello per osteggiare un progetto che voleva scuotere le pigre consuetudini di repertorio, produzione e gestione dei nostri stabili[102].
Il critico o il cronista non può non considerare tutti questi dati. Non può non formarsi una mappa del territorio in cui si muove, per effettuare le proprie scelte, per contestualizzare le visioni.
4.4. Dove scriviamo: il quotidiano e la rivista
Lo sguardo, per trasformarsi in scrittura, deve misurarsi a un certo punto del percorso con i luoghi della comunicazione. Con i giornali, innanzitutto, sulle cui colonne sono nate la figura del cronista dello spettacolo e quella del critico drammatico.
Oggi la situazione è abbastanza sedimentata. La critica, sui quotidiani, è stata per lo più scalzata dalla cronaca preventiva, dall’intervista o dalla presentazione. La disamina accurata, lo sforzo di racconto e di descrizione, la decifrazione di tendenze e problemi sono stati sostituiti dalla propaganda di spettacoli capaci di richiamare pubblico e quindi di incuriosire il lettore; il ragionamento ponderato o acuminato ha lasciato il posto al titolo a effetto.
La lamentazione è già antica e ripetuta. Ricordiamo, per esempio, le parole di Quadri, a conclusione dell’intervento più volte citato:
Altro è parlare di questa felicità di fare critica, altro è il senso di fare critica nella situazione generale di un teatro in degrado, che spesso, se non è del tutto in malafede, non trova più un senso o va a cercarlo nel puro consenso, dietro le lucciole di richiami esterni ed estranei, incapace di vivere se non ristabilisce un contatto con la realtà. E d’altronde di che critica resterà da parlare, se la critica viene mandata in pensione? Oggi la mancanza degli spazi, l’intempestività delle uscite, il disinteresse della direzione dei giornali costringono a reinventare ogni giorno il mestiere, come se il critico appartenesse a una razza destinata all’estinzione. Altro che gioia del racconto, se ti si chiede solo di rappezzare qualche notizia, di gonfiare la polemica e lo scandalo, di attutire “la noia”[103].
Il direttore, il caposervizio parla in nome di un’astratta entità chiamata il “lettore”, identificata con un livello culturale e con gusti medio-bassi, televisivi, tanto da profilare questa semideità come una controfigura di quell’altro idolo vorace e senza volto che guida oggi le scelte o non scelte politiche: la “gente”. Le differenze dei giornali tendono a omologarsi, in una lotta alla conquista del lettore inseguendone gusti e pigrizie, piuttosto che stimolandone le curiosità. Pochi sono disposti a rischiare su settori di pubblico che non si accontentano di semplificazioni superficiali. A tal proposito rimangono significative le parole scritte da Mary McCarthy, nell’immediato secondo dopoguerra, come presentazione del progetto di un mensile di commento politico, sociale e culturale, che avrebbe dovuto chiamarsi “Critic”:
Una grande forza astratta governa il nostro attuale giornalismo e una visione concettualizzata del lettore.
Il lettore, nell’ambito di tale visione, è una persona più stupida del direttore del giornale, ma che il direttore stesso teme e insieme tratta con condiscendenza. Il lettore ha lo stesso ruolo che il bambino svolge in seno alla famiglia e alla scuola americane, quello di un essere inferiore che però si deve propiziare. La parola d’ordine è: che cosa vorranno i nostri lettori… se oggi come oggi un articolo è adulterato, ciò non accade per rispetto dei pregiudizi del direttore (il che ci darebbe almeno un giornalismo individualistico ed eccentrico), ma per deferenza nei riguardi del livello medio e della presunta stupidità del lettore. Il timore di arrecare offesa a un qualche ipotetico idiota e il timore di provocare malintesi hanno sostituito il timore di rappresaglie da parte degli inserzionisti[104].
Ribellandosi a tale considerazione del lettore la scrittrice si diceva sicura di trovare un congruo numero di sottoscrittori per una rivista indipendente, letta almeno da centomila soggetti disponibili a comprarla regolarmente, “in un paese di 150 milioni di abitanti”[105]. Naturalmente si sbagliava e la rivista non riuscì a partire.
Sulle nostre pagine degli spettacoli le recensioni sono confinate in pezzi sempre più brevi e in alcune testate ricoverate in una rubrica settimanale che mette insieme sguardi su discipline diverse, più per ragioni di spazio che per culto della multidisciplinarietà. Avviene sul “Corriere della Sera” il mercoledì con la rubrica “Teatro & Musica”, su “la Repubblica” con una pagina omonima il lunedì, sul “Manifesto” la domenica con la rubrica “Il sipario strappato”. Questa soluzione garantisce comunque il critico, e il lettore, di uno spazio certo, anche se limitato, evitando il calvario di recensioni rimandate di giorno in giorno per fare posto ad articoli più “sulla notizia”, fino all’inevitabile invecchiamento e alla triste morte nel cestino.
Ogni testata ha un proprio modo di trattare la materia e perciò uno dei compiti di chi studia o di chi pratica la critica militante è proprio l’osservazione di ricorrenze, differenze, consuetudini inerti, veri e propri abusi, invenzioni (quando ci sono). Per orientarsi, per muoversi.
Il contesto determina fortemente la forma di questo genere effimero. Eppure, perfino in un sistema fortemente strutturato e poco favorevole, certe personalità possono introdurre nuovi usi, magari senza scalfire il meccanismo stesso, aprendo però spazi o possibilità differenti. Avviene spesso su certi quotidiani locali, più liberi e aperti, con maggiore disponibilità di spazio e con un avvicendamento più rapido di giovani collaboratori che vogliono farsi valere.
Per quanto riguarda, invece, i settimanali, la situazione si è rovesciata rispetto a un passato non troppo lontano. Qualcuno forse ricorda quando certi periodici, “Il Mondo”, “L’Espresso”, “Panorama”, “L’Europeo”, erano grandi come lenzuoli o comunque di formati magiori degli attuali; quando erano battaglieri e sviluppavano inchieste di punta, capaci di scuotere il mondo politico e la società civile, e si avvalevano di collaboratori di grande fama per le rubriche culturali. A costoro erano riservati ampi spazi, per uno sguardo più meditato di quello esercitato a tambur battente sui quotidiani, più approfondito e anche curato letterariamente. Rammentiamo, fra le altre, le rubriche di critica teatrale tenute da Ennio Flaiano su “L’Europeo”[106] e da Angelo Maria Ripellino sull’”Espresso”[107], il lavoro di Franco Quadri a “Panorama”, in presa diretta sulle contraddizioni di una scena divisa fra ricerca e conservazione.
Oggi la situazione appare ribaltata. I formati si sono ridotti, e così anche la capacità di incidere e aprire prospettive. Se su alcuni quotidiani, ancora, in determinate occasioni, rimangono spazi non troppo esigui, il settimanale riserva al teatro rubriche di venti-quaranta righe al massimo, cercando di ovviare con il nome del critico e con una scrittura brillante all’evidente immiserimento delle possibilità analitiche. Le riviste “femminili”, poi, e i rotocalchi, ospitano rubriche più vicine alla promozione pubblicitaria o alla curiosità che all’analisi.
Un’eccezione è l’inserto domenicale del “Sole 24 Ore”, vera rivista di approfondimento culturale, dove alle recensioni teatrali, nel numero di due o tre, con un’ampia “apertura”[108] e altri resoconti più stringati, è riservato uno spazio pari perlomeno a quello complessivo dedicato al teatro su uno dei maggiori quotidiani, con il privilegio, proprio del settimanale, di una maggiore distanza dall’evento per una più accurata riflessione[109].
4.5. Trenta, sessanta, novanta righe e altre importanti minuzie
Lo spazio nella pagina vuol dire anche formato, misura e quindi forma della scrittura, maggiore o minore possibilità di argomentare o semplicemente suggerire. Può indicare smacco, ma, in realtà, anche possibilità.
La prima considerazione è, apparentemente, evidente: si riesce a esprimere meglio il pensiero, a descrivere con agio tale da far figurare anche al lettore in modo più preciso l’avvenimento narrato, se si dispone di più spazio. Ma, al contrario, uno spazio più contratto impone una sintesi stringente, una capacità piuttosto evocativa che descrittiva, un giudizio più lapidario.
Il lettore, per crederci, può provare a leggere recensioni in trenta, in sessanta, in novanta righe.
E qui è necessaria una breve divagazione. L’articolo giornalistico ha sempre una misura. Deve entrare in uno spazio previsto dal “menabò”, lo schema, il progetto della pagina. Le dimensioni sono molto precise nel caso di giornali che si affidino a formati di impaginazione elettronica già confezionati, lievemente più mobili se la pagina viene disegnata dai grafici.
“Riga” o “cartella” era l’unità di lunghezza all’epoca della macchina per scrivere: con piccole variazioni da un giornale all’altro, in linea di massima si intendeva per cartella un insieme di trenta righe da sessanta battute l’una. Le cose sono cambiate con il personal computer e con la spedizione elettronica dei pezzi, che non devono essere più ribattuti, impaginati, corretti, ma semplicemente “passati”, ossia riletti e titolati da un redattore. Le righe non sono più omogenee. I capiservizio continuano a chiedere pezzi da “trenta, sessanta, novanta righe”, intendendo però unità di misura variabili fra i cinquanta e gli ottanta caratteri. Le “cartelle” tradizionali, allora, vanno all’aria. Ma ci si può, forse, comprendere parlando di battute complessive dell’articolo, misurabili da qualsiasi di videoscrittura.
Fine della divagazione. Una recensione in trenta righe (milleottocento battute) darà un’idea generalissima dello spettacolo; se esso si basa su un testo riferirà la trama solo se strettamente necessario e in una forma stringatissima. Dovrà incentrarsi su un’idea forte, perché molto sarà costretta a tralasciare. L’eventuale giudizio risulterà estremamente sintetico.
Le “cinquanta-sessanta righe” sono state, negli anni recenti, la dimensione media più diffusa: permettono di approfondire abbastanza, di descrivere con un discreto agio, di articolare il giudizio, di inquadrare lo spettacolo in un contesto.
Le “novanta” o più righe sono uno spazio in cui ogni elemento può avere un respiro più disteso, con il pericolo di consentire una dispersione maggiore. Paradossalmente, nel pezzo molto lungo, come in quello breve, sarà importante avere un’idea forte, per contenere molteplici elementi in uno sviluppo coerente.
Altri elementi contestuali del pezzo giornalistico, e quindi anche della critica o cronaca di teatro, sono la collocazione nella pagina, i titoli, la presenza o meno di foto, la posizione nel giornale. Lo spettacolo esce dalle proprie rubriche in poche occasioni: o per fatti di cronaca clamorosi, o per incidenti politici (ricordiamo, abbastanza di recente, la questione dell’esposizione o meno di ritratti di uomini di governo nell’allestimento delle Rane di Aristofane con la regia di Luca Ronconi al teatro greco di Siracusa). E nelle pagina possono avere un rilievo maggiore o minore: solo i grandi eventi conquistano l’“apertura con foto”, il pezzo che ne occupa la parte centrale. Di solito la recensione viene sistemata in posizioni più defilate, mentre più grande risalto è dato alla cronaca televisiva e della musica leggera, con una discreta attenzione per il cinema.
La titolazione deve attirare il lettore e comunicargli gli elementi fondamentali dell’opera e dell’evento. Gli articoli più ampi hanno un “titolo” principale, spesso suggestivo, ambiguo, accattivante, composto in genere dai redattori, solo qualche volta su suggerimento dell’autore, un “occhiello”, un richiamo superiore, e un “catenaccio”, un sottotitolo inferiore, in caratteri di corpo e intensità diversi dal titolo, dove vengono forniti al lettore, con una distribuzione variabile a seconda delle testate, elementi d’informazione. I pezzi più ampi sono a volte impaginati con sommari o frasi estratte dal testo, a sunteggiare i passaggi fondamentali.
Un’ultima differenza, forse sostanziale, è data ai diversi articoli dalla personalità dell’autore, che, rispettando certe regole elementari (fornire al lettore le informazioni sullo spettacolo, il titolo, il luogo, le altre note caratterizzanti ed essenziali della locandina), imposterà la recensione secondo il proprio sguardo e modo di raccontare.
Chiudiamo il paragrafo con alcuni esempi di “attacco”, l’inizio dell’articolo, cruciale secondo molti, perché deve conquistare il lettore, fornirgli le prime informazioni orientative, impostare il passo e dosare i rapporti fra i dati e gli argomenti. Cominciamo con una recensione di Renato Palazzi:
Dopo le illuminanti messinscene di Edipus, di Cleopatras e degli altri “due lai”, gli estremi, lancinanti monologhi teatrali scritti da Giovanni Testori faccia a faccia con la morte, Federico Tiezzi e Sandro Lombardi si misurano infine con L’Ambleto, quasi un suggestivo percorso a ritroso che li porta a risalire alle radici di tutta questa suggestiva avventura poetica e linguistica: era infatti il 1972 quando l’autore di Novate, dopo un precedente e ben più pallido tentativo di trascrizione cinematografica del dramma scespiriano, inventò per Franco Parenti quella parlata furiosamente barbarica e potentemente modellata su finti dialetti settentrionali che impresse un segno determinante su tutte le sue opere successive[110].
L’articolo, piuttosto ampio, ha il solo titolo. Completa appare invece la titolazione della corrispondenza di Quadri sullo stesso spettacolo. Nella riga principale si cita la macchina scenica importata da Tiezzi nell’Ambleto da un sua precedente regia di Hamletmaschine di Heiner Müller degli anni ottanta: L’ultimo giro di giostra per l’Ambleto di Testori. L’occhiello contestualizza: Al festival di Benevento due testi dello scrittore lombardo: il primo allestito da Lombardi-Tiezzi, l’altro, “Erodiadi”, da Cristina Pezzoli. Il sommario annuncia il cast: In scena Sandro Lombardi, Iaia Forte nella doppia parte di Lofelia e Gertrude e il soprano Francesca Della Monica. Ma vediamo l’attacco:
C’era una volta Gianni Testori. Ritorna con due lavori lo scrittore di Novate, esportando a Benevento Città Spettacolo la sua scrittura iperlombardesca fitta di neologismi che affidano la nostra quotidianità a un mix francolatineggiante dove le cadenze milanesi possono ingurgitare frasi del sud. E riecco, per la prima volta a quasi trent’anni dal battesimo, l’Ambleto, incipit di questo stile dell’autore e primo dei tre grandi testi classici da lui riscritti nell’immaginaria versione scenica degli Scarrozzanti: un assieme di poveri guitti girovaghi brianzoli in estinzione, tanto che il capocomico resterà solo nel punto d’arrivo della trilogia, l’Edipus, già mirabilmente interpretato dai Magazzini, che inaugurano la nuova sigla di Compagnia Lombardi-Tiezzi, rimontando il rifacimento scespiriano con la firma dei suoi due titolari[111].
L’articolo di Quadri è un resoconto del debutto dello spettacolo in un festival, e considera due allestimenti di altrettante diverse opere di Testori. Palazzi scrive dopo la prima milanese. Così come Luca Doninelli, romanziere prestato alla critica teatrale, allievo e biografo di Testori[112]:
Scritto sotto l’impressione della bocca di Franco Parenti nell’atto di espellere le parole della Moscheta di Ruzante, l’Ambleto segna una novità assoluta per il teatro, per la drammaturgia e per lo stesso cammino di Testori. Con l’Ambleto Testori inventò, tra le altre cose, una lingua – lingua che porterà per sempre i caratteri di colui per la quale fu inventata. Un’invenzione assoluta anche perché realizzata verso il basso, verso la povertà (anche linguistica), sporcando la lingua anziché nettandola con acidi speciali: quegli acidi che, viceversa, usano Sandro Lombardi e Federico Tiezzi in questa paradossale ma indimenticabile messinscena ora milanese (al teatro Portaromana) dell’Ambleto, tutta altezza anziché bassura, tutta levità anziché gravità, tutta scorrimento anziché intoppo o ingrommatura […][113].
Si tratta di recensioni di uno spettacolo che parte da un testo, reinterpretato da una compagnia che, con le sigle di Carrozzone e Magazzini Criminali, realizzò spettacoli svincolati dai copioni drammatici, per poi arrivare a enunciare l’idea di un “teatro di poesia” e a confrontarsi con grandi classici come Dante e Shakespeare o con contemporanei come Testori. I tre frammenti riportati danno, in modo diverso, le coordinate, iniziando subito a caratterizzare le peculiarità dell’opera e, nel caso di Doninelli, dell’interpretazione dei registi.
Più avanti considereremo brani di recensioni di spettacoli non basati su un testo drammatico. Chiudiamo questa sezione con I Negri di Jean Genet, nell’allestimento fisicissimo, carnale, collettivo di Antonio Latella:
Trance estrema fra canti, rullo di tamburi, una corte in scena per giudicare un uomo che ha ucciso una donna bianca. Mozart, ritmi sudamericani e africani fanno da sfondo a I Negri di Genet secondo Antonio Latella, spettacolo di mezzo di una trilogia che comprende anche Stretta sorveglianza e l’adattamento teatrale di Querelle di Brest. Una celebrazione funebre che in realtà è una rappresentazione teatrale fra travestimento, sfida senza ritorno, provocazione che contrappone due civiltà, quella bianca e quella nera, che ha per posta finale la morte[114].
Franco Cordelli racconta lo stesso spettacolo con una specie di “soggettiva” iniziale:
Nella replica cui ho assistito, I negri di Jean Genet, messo in scena da Antonio Latella, a pochi minuti dalla fine è diventato un altro spettacolo. Uno dei sedici attori, Fausto Caroli, faccia in avanti, è stramazzato a terra. Per un intero minuto gli attori che erano in avanscena hanno continuato la loro recita; e noi spettatori abbiamo creduto che quella caduta fosse parte dello spettacolo. Poi s’è chiuso il sipario, sono stati chiamati i medici, e solo più tardi, quando siamo stati rassicurati, malconcio e mutilato I negri è arrivato alla fine.
Ma la domanda era: perché noi spettatori avevamo potuto fraintendere? Paradossalmente, nell’incidente occorso al bravissimo Caroli è racchiuso il senso della regia di Latella. Gli attori recitavano in una specie di trance da più di due ore; e noi spettatori eravamo contagiati da quell’altissima temperatura, o da quella scala musicale in levare, una nota più su, sempre più su24.
In questo caso il critico coglie al volo un incidente per avviare giudizio e descrizione, con un argomentare che lascia da parte il “noi” in rappresentanza del pubblico per privilegiare la visione di un “io”, “in un determinato momento”.
4.6. “Scrivere” per la radio, per la televisione, per internet
Abbiamo finora trattato di carta stampata. Diverse sono le convenzioni e le “condizioni date” su altri mezzi di comunicazione. Perlomeno in apparenza, perché il modello della recensione giornalistica finisce per influenzare anche l’informazione di media tutt’affatto diversi come la radio, la televisione o internet.
La televisione avrebbe la possibilità di far parlare le immagini e di imbastire con esse un controcanto critico. In realtà rifiuta, in generale, la programmazione del teatro e la cronaca dello spettacolo dal vivo, limitandosi a mandare in onda spezzoni piuttosto brevi di spettacoli con commenti dal tono spesso lirico e piuttosto sostenuto, o perfino retorico. Raramente si può vedere critica teatrale in televisione, ancor più di rado buona critica.
La riflessione sullo spettacolo, potremmo dire paradossalmente ma non troppo, è affidata a certi videomaker, o ai registi stessi, specie delle formazioni dell’ultima generazione, quando si trasformano in autori delle riprese delle proprie opere: il video-teatro più avvertito non documenta gli spettacoli, ma li trasforma in altri oggetti per il formato video, mettendo in luce, a volte, certe sostanze dell’opera o del processo di costruzione di essa, sintetizzando, rivelando, suggerendo, andando alle radici strutturali della creazione attraverso cortorcircuiti delle immagini, ellissi, inedite visuali o cambiamenti di punto di vista, accelerazioni, rallentamenti, incursioni negli elementi costitutivi dell’operazione artistica, interviste, backstage e quant’altro. A volte col video ci troviamo di fronte a un’altra opera, o a un artistico saggio sullo spettacolo originale. O anche alla dichiarazione dei limiti del palcoscenico e a un tentativo di guardare la stessa materia da altre angolature. Quello che pochissimo riesce a fare la critica televisiva propriamente detta.
Lavorando sulla sottrazione dell’immagine, viceversa, la radio arriva a rendere il movimento insito nello spettacolo e le sue suggestioni in modo spesso più pungente. Abbiamo già citato le possibilità di questo mezzo: interviste, voci degli artisti, montaggio con brani musicali di sottofondo o di contrasto, presentazione di spezzoni sonori dello spettacolo, magari commentati in diretta, creazione di originali radiofonici. Come abbiamo ricordato, è abbastanza ampio lo spazio che al teatro è offerto dalle radio libere o da canali, come il terzo programma della Rai, che da sempre hanno curato un approfondimento di questo settore, anche con trasmissioni sperimentali.
Nelle radio libere si fonde l’immediatezza della comunicazione radiofonica e lo sguardo locale. In alcuni casi, come la rete di Radio Popolare, che può permettersi collaboratori professionisti, la qualità dei servizi è pari a quella della migliore carta stampata, con l’arricchimento dei materiali sonori. Tuttavia anche questo mezzo meriterebbe di essere approfondito. Molte volte si ascoltano presentazioni o resoconti che riprendono le cadenze di quelli per la stampa, in alcuni casi veri e propri articoli scritti, in trenta, sessanta, novanta righe, e letti ai microfoni invece che pubblicati. Altre volte regna la fretta e l’improvvisazione, la mancanza di programmazione, perché si tratta di collaborazioni volontarie a imprese generose ma precarie.
Internet apre problemi differenti: da una parte consente di avvalersi di tutti i mezzi finora citati, immagini fisse e in movimento, materiali sonori, contributi scritti. Permette una simultaneità di visione che potrebbe essere ideale per raccontare “scritture sceniche” dove operano a pari titolo diversi ingredienti. Può essere uno strumento interattivo fortissimo, con una risposta immediata del lettore e un dibattito in tempo reale. La critica può insinuarsi nell’evento o prenderne le distanze. In realtà, le possibilità che la tecnologia offre non sono ancora di dominio generale. Per cui l’uso più diffuso della rete è per lo scambio rapido di informazioni (e questo non è da sottovalutare, proprio per il lavoro del cronista e del critico), e quello di impaginazione di recensioni, notizie, documenti in siti specialistici o in sezioni di siti con un interesse più generalista.
Qui entriamo da una parte nella galassia di esperienze d’informazione e riflessione nate per superare la crisi della carta stampata, dall’altra nei problemi del resoconto critico su un mezzo a dire di molti “veloce”, che deve attirare il lettore-navigatore, prevedendo tempi di consultazione diversi da quelli che si dedicano a un supporto stampato.
Per ora rileviamo che il teatro si racconta diversamente sulle singole testate disponibili in rete. Incontreremo, nel prossimo capitolo, portali e siti specializzati come “ateatro”, “del Teatro”, “Teatron”, “Tuttoteatro”; descriveremo questi e altri utili strumenti di lavoro rintracciabili nel web.
La discussione sui modi di raccontare su internet è quanto mai aperta, tanto che l’affermazione che la rete vuole un linguaggio veloce finisce per risultare banale. In fondo, come in un quotidiano, anche sui siti internet ci possono essere diversi livelli di lettura: quella più rapida e quella approfondita. Anzi, le riviste elettroniche di teatro consentono di conservare lunghi documenti e di collegare archivi lontani fra di loro: chi vuole approfondire trova in questo mezzo uno strumento utilissimo. Naturalmente è essenziale saper indirizzare il lettore, costruire le pagine con i segnali giusti per permettergli di scovare le strade che portano a notizie e archivi più nascosti, far intuire anche al visitatore veloce o distratto i tesori che si possono scoprire penetrando negli strati del sito.
4.7. Il laboratorio: esercizi di confronto e composizione
Il primo esercizio proposto alla fine di questo capitolo è quello di osservare spettacoli basati su processi compositivi differenti. Confrontare recensioni di testate e critici diversi sullo stesso spettacolo. Cercare di individuare le differenze fra una scrittura breve e una con più ampio respiro.
Provare a scrivere una recensione in trenta, una in sessanta, una in novanta o più righe di uno stesso spettacolo. Naturalmente non si tratta di comporre quella più lunga e poi tagliare. Se anche l’esercizio di taglio può risultare utile per rendere più incisiva l’espressione, più efficace la descrizione e l’articolazione del pensiero, tuttavia qui si chiede di provare a riscrivere, due, tre volte, a raccontare diversamente, magari scegliendo anche “punti d’entrata” differenti per lo stesso oggetto. O di raccontare nelle medesime condizioni oggetti molto diversi fra loro.
Stiamo suggerendo esercizi “sotto vetro”: chi collaborerà con una qualsiasi testata scoprirà che il lavoro del cronista o del critico militante varia a seconda delle occasioni. Una recensione può rimanere nel cassetto per settimane, ed essere riesumata improvvisamente, quando si era persa ogni speranza, magari perché la pagina quel giorno ha uno spazio vuoto, o perché il ripetersi di un’occasione restituisce l’attualità al pezzo. Allora verrà chiesto all’articolista di rimetterci le mani, oppure, per i soliti motivi di tempo, sarà uno dei redattori ad aggiornarlo. E in questo caso non resta che sperare nella competenze e nella non troppa fretta di chi compirà la revisione.
Sarà utile rileggere l’articolo un po’ di tempo dopo averlo scritto, con freddezza, come se si trattasse dell’elaborato di un altro. Si provi, inoltre, a quel punto, titolare il pezzo.
Una interessante indagine può risultare la lettura di scritti dello stesso critico per testate diverse, per quotidiani, riviste, portali web.
Un esercizio opportuno, a questo punto, può essere quello di cimentarsi con resoconti per diversi media. E’ importante, comunque, non fossilizzarsi nella “forma-recensione”, che sta per recensione secondo più o meno ideali norme per un quotidiano. Anche se, come abbiamo visto e vedremo, a quel modello sembra difficile sottrarsi. Nasce il sospetto che sia un piccolo genere fortemente decantato nella nostra cultura e perfino nel nostro immaginario, se lo ritroviamo, nei laboratori di critica, come paradigma immediato anche delle prime prove di resoconto di spettacoli. Ossia, prima viene, spesso, lo smarrimento, il disorientamento (“Devo scrivere!”: “Devo scrivere?”). Poi arriva la recensione da “Repubblica”, “Manifesto” o, più spesso, da giornale locale. Questo fatto testimonia, forse, che i giornali, nonostante tutto, sono ancora letti. E forse un po’ più usati di altri mezzi apparentemente più moderni, che, perlomeno per il campo che ci interessa, diventano conquista di un interesse avanzato.
Un’altra grande forma che emerge nelle prime prove dei laboratori è, comprensibilmente, quella del tema in classe: lenta, in genere, poco adatta a una scrittura giornalistica; impacciata, sovrabbondante o scheletrica.
Un esercizio fondamentale è quello di osservare il proprio stile di scrittura e metterlo in crisi, se necessario. Provare a descrivere oggetti diversi, in modi differenti, può servire innanzitutto per verificare il proprio stile. Per cercare di capire come lo sguardo singolare può trasformarsi in esperienza comunicabile a un lettore, a un ascoltatore, a un “navigatore”.
- Materiali per lo sguardo
5.1. L’opera e il contesto
Il momento centrale del lavoro del critico teatrale è quello del confronto diretto con l’opera, quando si spengono le luci e si passa in un’altra dimensione, in un mondo con regole proprie, quello dell’arte, lontano dalla realtà e pure in cerca di un contatto diretto, a volte brutale, con essa, provando a spogliarla degli inganni intessuti dalla società dello spettacolo[115].
Abbiamo visto come, dagli anni sessanta in poi, sia diventato sempre più importante lo sguardo, l’osservazione di spettacoli visuali, fisici, che non accettano di seguire le linee guida di un testo drammatico preesistente, o che nel processo della loro costruzione mettono tanto in discussione i testi da trasformarli radicalmente. Osservazione, descrizione, elencazione, catalogazione[116] sono diventati prevalenti nei resoconti degli spettacoli. Una grande importanza è stata assegnata al contatto diretto con l’opera, alla decifrazione della “scrittura scenica”; la recensione si è spesso trasformata in racconto delle azioni e degli elementi dello spettacolo, per permettere al lettore di figurarselo e di riflettere a sua volta su quei dati.
Questo modo di guardare e scrivere rifiuta le gerarchie: non c’è una fonte generativa unica dello spettacolo, ma un lavoro multiforme di artisti con competenze diverse, che concorrono a un risultato composito.
Accanto a tale nuovo teatro, però, sopravvive il “vecchio” teatro, una tradizione, o meglio procedure, convenzioni, sistemi organizzativi vari, accumulatisi in un sistema dello spettacolo simile a un magazzino stipato di oggetti di diverse epoche.
Nel teatro italiano la parola tradizione copre uno spettro semantico molto ampio, forse troppo. Spesso indica i residui di usanze passate, ormai largamente inattuali (per esempio un certo teatro dialettale di origine boulevardier e piccolo borghese, che ancora ripete opere e stilemi di fine Ottocento e inizi Novecento), ovvero un insieme di regole artistiche e gestionali che mirano puramente a conservare consuetudini superate. E’ spesso sinonimo di pigrizia, di mera difesa degli interessi di compagnie di giro, circuiti ed enti che amministrano il teatro come un affare, economico o politico; rappresenta un anacronistica sopravvivenza della cultura dell’attore-mattatore o del regista demiurgo. Qualcosa contro cui gli artisti innovatori, periodicamente, si scontrano.
Raramente è un sapere antico che possa guidare l’agire odierno, una sapienza, una maestria teatrale trasmessa da maestro ad allievo, magari per salti (è il caso di Mimmo Cuticchio, che dopo giovanili ribellioni ha rinnovato, da figlio d’arte, le tradizioni dei pupi e del “cunto” palermitani).
Chiarisce bene l’ambito del problema Andrea Nanni (il promotore dell’incontro di Prato che ha prodotto la presa di posizione dei “critici impuri”) quando, tentando un bilancio sull’ultima generazione della ricerca e analizzando le sue incerte condizioni di lavoro, nota
[…] l’anomalia tutta italiana di un sistema cronicamente privo della necessaria continuità e di una sana medietà (che niente ha a che vedere con la dilagante mediocrità che affligge le nostre scene), senza le quali si è condannati a procedere per strappi e sussulti, orfani di una tradizione che salvaguardi dal tradizionalismo e permetta una costante evoluzione secondo quello che dovrebbe essere – il condizionale, purtroppo, è d’obbligo – il naturale avvicendarsi delle generazioni[117].
La tradizione (o, meglio, il tradizionalismo) costituisce comunque la realtà più profonda del teatro italiano; il suo ruolo è uno dei problemi più complessi, discussi, scivolosi. Su questi temi avanza interessanti osservazioni Oliviero Ponte di Pino, il direttore della rivista on line “ateatro”, rispondendo al documento dei “critici impuri” con obiezioni che, a loro volta, hanno suscitato una replica dei sette firmatari[118]:
[…] nel vostro elogio del “critico partigiano” mi sembra mancare quasi totalmente ogni riferimento alla storia, e questo vuole dire sia la storia del teatro sia la storia tout court. Di conseguenza rifiutate ogni “esercizio di marketing da condurre secondo una logica ormai esaurita di ricerca di ricorrenze e contiguità e similitudini fra oggetti (opere) più o meno contemporanei” e vi distanziate “dalle fonti e dalle ombre della poetica degli autori”. Si parla, è vero, di tradizione, ma in termini piuttosto generici. Per me, la stessa definizione di tradizione è un problema aperto e irrisolto. Che cosa è oggi per noi “tradizione”? Mimmo Cuticchio? Luca De Filippo o Luca Ronconi? Carmelo e Leo? Pasolini o Testori? Giorgio Albertazzi o Giorgio Barberio Corsetti? Senza capire un po’ meglio di che cosa stiamo parlando, “una presa di posizione politica in rapporto alla tradizione” diventa piuttosto difficile [119].
Possiamo ampliare ancora il ventaglio delle possibili tradizioni contrastanti evocate per nomi emblematici, provando a immettere nelle alternative qualche ulteriore elemento di disturbo. Per esempio, fra un Luca e l’altro potremmo inserire Luca De Fusco, cioè uno dei registi “medi” del nostro teatro[120] fra un figlio d’arte, De Filippo, e Ronconi, il simbolo di un modo rivoluzionario di intendere la regia, il maestro di una “tradizione” che ormai risale agli anni sessanta. Così, dopo i “padri” della ricerca, Carmelo Bene e Leo de Berardinis, potremmo aggiungere i gruppi romagnoli più recenti, con l’aggiunta di Albe, Raffaello Sanzio e Valdoca, inventori, negli anni ottanta, di stili peculiari, apripista che hanno fatto, diversamente, scuola; o, ancora, Pippo Delbono, o Armando Punzo, iniziatori di altre “tradizioni del nuovo”. O fra i due Giorgio, l’attore di tradizione riciclato come direttore di stabile con funzioni di restauratore dell’ordine[121], e il suo rivale proveniente dalla ricerca, cui la sinistra vorrebbe far dirigere lo spazio contemporaneo del teatro India all’interno dello stesso stabile guidato dall’altro, fra Albertazzi e Barberio Corsetti potremmo inserire Giorgio Comaschi, attore comico teatrale e televisivo. Avremmo così infarcito l’alternativa con un’altra “tradizione” molto fertile, quella che, dagli spettacoli degli anni ottanta che riscoprivano l’ironia in chiave postmoderna, ha portato a un dilagare della risata e della satira, più o meno pungente o annacquata, più o meno intelligente, sociale o disimpegnata, un moltiplicarsi di occasioni di divertimento di diversa specie, fino a una rinascita di generi che sembravano quasi estinti quali il varietà e la commedia musicale.
Estraiamo, a questo punto, dalla replica dei “critici impuri”, un passaggio che ci permette di definire meglio i campi d’azione e le modalità operative di cui si tratta:
Riguardo alla genericità con cui si parlerebbe della tradizione, più che procedere per aut aut (Giorgio Albertazzi o Giorgio Barberio Corsetti?) si tratta, a nostro avviso, di ricostruire un reticolo in cui molti degli artisti che tu citi – e naturalmente altri se ne potrebbero aggiungere o togliere – convivono, contribuendo alla formazione di un panorama complesso e variegato, in cui non si ricerca un’estetica da sposare a scapito delle altre, quanto un’energia trasversale e intermittente, capace di mantenere instabili e spiazzanti (ah, il fiore di Zeami!) i linguaggi messi in campo, illuminando percorsi assai diversi – Carmelo Bene e Luca Ronconi, tanto per riprendere ancora un tuo esempio – ma di pari importanza per la comprensione dell’attuale paesaggio teatrale. […] di sicuro la tradizione è da intendersi come un repertorio di innovazioni e non come il semplice perpetuarsi di abitudini. Meldolesi docet nei suoi Fondamenti del teatro italiano[122] quando contrappone tradizione e tradizionalismo, rilevando l’assenza di tradizione con cui l’intera cultura teatrale italiana dovrebbe fare i conti, assenza che non si può non avvertire – fortunatamente – come “problema aperto e irrisolto”, in quanto richiede a ciascuno di costruirsi un proprio itinerario. Problema rispetto al quale tentiamo di sollevare nuove domande in un disordine generatore di stimoli e associazioni, in cui tradizione è trasmissione ma anche tradimento, interruzione, rottura[123].
Per quanto le citazioni riportate siano parziali, estratte da ragionamenti più ampi e complessi, si delinea comunque un panorama frastagliato di possibilità e problemi, che vanno da come intendere, delimitare e interpretare la tradizione, a quali sono gli spazi e le possibilità della ricerca, a come l’arte (e l’interpretazione) debbano agire per “tradimento, interruzione, rottura”, a come si possa entrare in sintonia con artisti innovatori che procedono per itinerari a volte tanto personali da sconfinare nell’idioletto. Le opposizioni sembrano derivare dall’angolo di visuale, dalla scelta di guardare dalla parte dell’isola della ricerca o da quella del continente del teatro, di cui la ricerca è una parte importante ma non esclusiva[124]. Ma evocano anche il contrasto fra una concezione che privilegia il rapporto diretto (esclusivo?) con le visioni e le operazioni dell’artista, e un’altra che cerca di contestualizzare l’atto artistico.
Il critico deve cercare di comprendere la complessità del campo, orientandosi e orientando dentro opposizioni compresenti, dentro diverse modalità concomitanti. Torniamo alla necessità di uno sguardo caleidoscopico, capace di muoversi dentro fenomeni multiformi per “proporre visioni”, per “cercare di segnare dei tracciati di senso”, “per sollevare questioni e rilevare fratture”[125]. Capace di andare dentro un’opera, nel lavoro degli artisti, ma anche di risalire la catena creativa e produttiva che circonda un determinato spettacolo.
Ancora oggi, il teatro basato sul testo drammatico, sul lavoro del regista che organizza i segni e le persone in scena secondo un proprio disegno, cui gli altri collaboratori devono prestare un’opera il più possibile funzionale[126], rimane uno dei modi produttivi prevalenti. Sicuramente coesistente con l’altro che abbiamo delineato sulla scorta dell’emersione di diverse generazioni della ricerca.
Il compito del critico rimane quello di individuare l’ambito di un’opera, le sue modalità costruttive, la catena di atti, di idee, che l’ha generata, la tradizione o l’esausto tradizionalismo nella quale si può inserire. Lo sguardo rimane il momento centrale, ma prima, durante e dopo l’osservazione è sempre più necessario dotarsi di strumenti di contestualizzazione e di interpretazione, che consentano di evitare ogni impressionismo e schematismo nel rapporto con l’opera e con l’artista.
I mezzi di lavoro deriveranno solo in parte dalla formazione del critico, che rimane ancora affidata soprattutto a tragitti personali, perché né l’università, né i corsi di giornalismo insegnano adeguatamente, approfonditamente, a guardare e a studiare lo spettacolo contemporaneo. Si acquisteranno perlopiù sul campo, con la pratica della visione e con lo studio delle opere e dei fenomeni, con l’analisi della storia e dell’attualità, con la consuetudine con il sistema teatrale e con i mezzi dell’informazione, con le personali predilezioni, vocazioni, schieramenti.
A questo punto diventa necessario iniziare ad affrontare i contesti dell’opera, quelli che la rendono possibile o la giustificano. I “processi” che generano determinati “prodotti”. Le condizioni in cui uno spettacolo sorge o trova difficoltà a nascere, il lavorio che lo genera, spesso più importanti del risultato, si credeva ai tempi del convegno di Ivrea.
5.2. Le fonti dello sguardo
Uno dei più importanti strumenti di lavoro del critico è la memoria. Chi guarda teatro per scopi professionali (ma anche per passione vera) lo fa, in genere, per anni, frequentando diversi spazi teatrali, vedendo tanti spettacoli, di generi diversi, a volte spostandosi in altre città, confrontando, leggendo.
Se è un giovane cronista non dispone ancora di un grande potere contrattuale nei confronti della sua testata e perciò è costretto a fornire resoconti di tutto quello che la redazione chiede o impone di seguire. Solo col tempo potrà rifiutare, scegliere, individuare i propri territori d’elezione. Chi inizia, oggi, lo fa generalmente seguendo moltissime conferenze stampa, molti dibattiti e incontri, vedendo spettacoli che lo interessano poco, intervistando attori che non conosce e che magari non ama affatto. Potrà così crearsi, però, una competenza ampia e non specialistica, utile per scegliere, e per motivare i propri orientamenti. La pratica, perfino la praticaccia di redazione, può avere una sua utilità, purché non si diventi poi dei vuoti ricettori, senza opinioni, senza una propria visione.
Negli anni sessanta-settanta, invece, molti sono arrivati al lavoro di critico teatrale per scelta, politica, estetica, etica, e hanno cercato di coltivare esclusivamente le proprie inclinazioni, seguendo le affinità, rifuggendo il “teatro di ogni giorno”. Ma anche costoro, prima o poi, hanno dovuto confrontarsi con “l’altro teatro”, sul quale hanno acquisito una vasta competenza (più raro è il caso inverso: chi parte dal teatro “dominante” il più delle volte guarda con un senso di sufficienza quello di ricerca, senza sforzarsi di penetrarne perlomeno le motivazioni).
La memoria, l’aver visto spettacoli, tanti spettacoli, il poter confrontare generi diversi, molte opere di uno stesso autore, varie interpretazioni di un attore, sono elementi fondamentali dello sguardo e del successivo racconto. Uno spettacolo apparentemente indecifrabile risulta più chiaro a chi conosca le intenzioni del gruppo che lo ha creato. Immagini gratuite per un occhio superficiale possono essere riportate da chi abbia conoscenze precedenti a un mondo espressivo, a modalità di composizione particolari. Caduto il riferimento estrinseco a un testo come origine dello spettacolo, le chiavi di quello che si vede bisogna cercarle sulla scena e nella ricostruzione di un percorso, nel confronto con la memoria di altri lavori e con il mondo esterno all’opera, nella ricerca delle specificità e delle motivazioni degli artisti, stando attenti a non appiattirsi sulle dichiarazioni d’intenti e a verificare la riuscita effettiva di ogni proposito.
Il critico non può più essere semplicemente un cronista, il registratore di una trascrizione, quella del testo sulla scena, in una civiltà spettacolare che si perpetua con usi e costumi costanti. Il suo raccontare, oggi, non può dare niente per scontato. Il cronista deve trasformarsi in studioso. Deve affrontare lo spettacolo con domande pertinenti, capaci di penetrare le apparenze. E per farlo ha bisogno di aiutare la propria memoria con vari mezzi.
Di ciò che può essere di ausilio alla visione parleremo nei paragrafi successivi: delle fonti che possono fornirci materiali per esercitare con più acume lo sguardo, per estendere la memoria oltre i nostri limiti generazionali, per allargarla ad altri contesti. Tratteremo degli strumenti di lavoro utili per ristabilire il processo che genera l’opera.
Con queste affermazioni non intendo, però, sostenere le ragioni di una critica storicistica o sociologica. Propongo di entrare nel processo non per sostituirlo all’atto della sguardo, e giustificare ogni cosa con la comprensione delle motivazioni degli artisti. Troppo spesso questo è stato il difetto della critica schierata, pronta ad assolvere con una fine comprensione delle poetiche ogni atto di determinati autori o interpreti. Lo sguardo rimane essenziale, come sono basilari le domande inaspettate, perfino impertinenti, poste in prima persona all’opera. Ma è altrettanto indispensabile sostenere sguardo e domande con argomenti, memorie, conoscenze, per sfidare l’opera, per sondarla nella sua necessità, nella sua capacità di rimodellare, con le armi dell’arte, una porzione di realtà, un conflitto, un vuoto, e aprire strade impreviste.
Le fonti saranno sempre dubbie, sempre parziali, sempre utili: le informazioni possono avere un’origine neutrale, provenire da qualcuno di cui ci fidiamo, possono risalire agli artisti stessi; possono risultare multiple, ambigue, scarse, possono essere semplici o difficili da reperire. Le ricaviamo da comunicati stampa, interviste, dichiarazioni di poetica, presentazioni di spettacoli; possono essere testimonianze di altri osservatori sul lavoro considerato, sul processo creativo o sul percorso di un determinato artista. Risiedono nei nostri ricordi, basati su visioni precedenti, o sono da ricavare da scritti, da filmati, da fotografie, da confronti con precedenti allestimenti. Possono essere tentativi di rintracciare le radici politiche, di cronaca, fantastiche di uno spettacolo, o i modi di lavoro di un regista con gli attori, o gli incroci fra musica e testo, fra musica e gesto, fra immagine e scena.
Tali informazioni devono sempre essere criticate, confrontate, misurate con i risultati della visione. Si devono rintracciare le origini delle fonti, chi produce le notizie che ci aiutano, come le produce. Poi bisogna far decantare tutti questi dati, un fardello pesante molto spesso, nella visione e nella riflessione personale successiva allo spettacolo. E’ opportuno lasciare molti degli elementi del contesto come sfocati in secondo piano, pronti a intervenire ma non a costringere, humus di una scrittura che deve cercare di evocare la presenza dell’opera, senza lasciarsi irretire da un’eccessiva erudizione.
Nelle pagine seguenti proverò a schizzare una mappa di varie fonti di informazione sullo spettacolo, analizzandone possibilità d’uso, propositi, limiti, affidabilità.
Viaggeremo prima di tutto fra materiali delle compagnie e dei teatri, quindi fra interviste e presentazioni, infine considereremo annuari, collane teatrali, riviste e siti internet. Ci capiterà di incontrare anche nuovi progetti di informazione e di dibattito, nati per superare la crisi del critico e per realizzare altri modi di guardare e comprendere. Vedremo affermarsi l’esigenza di abbandonare la recensione frettolosa e di iniziare a fare “cultura teatrale”, allargando lo sguardo oltre l’evento, per approfondire motivazioni, posizioni culturali e politiche, ma anche i processi materiali di produzione artistica.
Ma prima di trattare gli attuali sviluppi, è utile ricordare la situazione della critica e dell’informazione teatrale alla fine degli anni ottanta, con analisi di Gianfranco Capitta, Gianni Manzella, Oliviero Ponte Di Pino[127], estratte dal documento letto al convegno Memorie e Utopie, tenutosi nel settembre 1987 a Ivrea per fare il punto sulla situazione del teatro italiano vent’anni dopo il primo convegno sul nuovo teatro:
In Italia non esiste praticamente più riflessione attorno al teatro.
Il teatro è ormai quasi totalmente privo di memoria (se non quella privata e personale): non esistono praticamente centri di documentazione, salvo rare eccezioni sostenute dalle esigenze particolari di qualche ente o dalla buona volontà di un privato cittadino. Di più: il teatro appare confinato al puro e semplice spettacolo, da consumare al più presto e svuotato di ogni spessore problematico. Tutto ciò che sta (e soprattutto si muove) intorno al teatro, che ne costituisce una delle ricchezze e spesso ne costruisce il futuro, viene rimosso o ignorato.
La critica si è ridotta ormai, salvo rarissime eccezioni, all’informazione “a caldo” redatta dai quotidiani, con tempi di riflessione e ritmi di lavoro che non lasciano praticamente spazio all’approfondimento e riducono spesso a zero la capacità di cogliere i sottintesi problematici di un lavoro.
In un teatro che al 90% è morto, fatto cioè di abitudine e routine, accanirsi a evidenziare i difetti (che certamente esistono) dei pochi spettacoli vivi ancora in circolazione, di quegli spettacoli e artisti che hanno ancora qualcosa da dire, significa appiattire pericolosamente lo sguardo: il proprio e quello di tutto il pubblico.
Il rapporto con il teatro di settimanali e affini appare troppo spesso casuale e superficiale: le scelte editoriali dei periodici tendono a creare l’evento e a consumarlo ancora prima che si verifichi (sbagliando spesso bersaglio); ancora più grave il fatto che a questa ideologia dell’”Operazione Cultural-Pubblicitaria” tendano ad adeguarsi molti teatri pubblici e privati: per eccitare la curiosità dei mezzi di comunicazione di massa con operazioni “curiose” ma di dubbio valore e dubbio spessore. La banalizzazione della critica è un fatto particolarmente grave perché non esiste attualmente in Italia una rivista di teatro credibile; peggio ancora, non esiste a livello di “mercato” un pubblico (diecimila acquirenti su cinquanta milioni di italiani) in grado di sostenerla.
In altri termini, il teatro è vissuto dal suo stesso pubblico o come pura evasione (quindi agli antipodi di qualsiasi riflessione) o come museo o istituzione parascolastica (che trasmette quindi valori consacrati, da subire senza discutere).
In questi ultimi anni il teatro ha superato in un’unica occasione la capacità di previsione dei media, guadagnandosi le prime pagine dei giornali al di fuori di anniversari, funerali e celebrazioni varie: è il celebre “caso” del cavallo[128]; e visto il panorama generale dell’informazione sul teatro, non possono sorprendere la disinformazione e la grossolanità dell’approccio a questo episodio, ricostruito per “sentito dire”, inesattezza, falsità e sciocchezze (al di là del giudizio sull’episodio nei suoi termini effettivi)[129].
Da queste tesi prenderanno il via vari tentativi di cambiare lo stato delle cose.
5.3. I materiali delle compagnie e dei teatri
Le informazioni preliminari sugli spettacoli vengono fornite dagli addetti stampa, che possono lavorare in esclusiva per una compagnia o far parte di un’agenzia che serve più soggetti. I teatri e i festival hanno in genere responsabili delle relazioni con gli organi di informazione, fissi per le strutture più grandi, con un impegno più limitato nel tempo per le manifestazioni stagionali o occasionali.
L’ufficio stampa produce diversi materiali informativi sullo spettacolo, sempre più dettagliati quanto più ci si avvicina all’evento. Oltre a un comunicato – una sintetica scheda informativa sull’opera, l’allestimento, l’artista, eventualmente su modalità di lavoro particolari o con altre notizie che possano incuriosire o interessare il pubblico – può fornire i curricula degli artisti, del gruppo o della compagnia, recensioni sui loro lavori precedenti o su quello ospitato, nel caso non si tratti di una prima rappresentazione, fotografie e, eventualmente, videocassette. L’addetto stampa organizza interviste all’autore o a membri del cast; a lui bisogna rivolgersi per gli accrediti e per ogni altra esigenza.
I grandi teatri e i festival sempre di più curano l’allestimento di apposite sezioni stampa sui loro siti web, in modo da fornire al giornalista un accesso diretto ai diversi materiali informativi.
In ogni caso è importante sapere a chi è affidata la promozione di uno spettacolo: spesso i comunicati stampa non sono sufficienti per gli scopi del cronista o del critico, che devono quindi essere in grado di poter trovare, direttamente, ulteriori notizie.
Il momento di presentazione dei debutti, delle stagioni, dei festival, di avvenimenti o appuntamenti speciali è la conferenza stampa. In questa occasione, ai giornalisti viene fornita la cartella stampa, che raccoglie tutti i materiali su carta o, come sempre di più si tende a fare, anche su cd rom (in tal modo si ottengono, direttamente anche alcune immagini fotografiche); il cronista e il critico potranno anche ascoltare dalla viva voce dei protagonisti una presentazione degli eventi, rivolgere domande, eventualmente fare interviste.
Ma le eccezioni a questo sistema sono molte. Chi segue il teatro non è quasi mai un redattore interno alle testate: è piuttosto un collaboratore esterno (free lance) che vende o propone i propri lavori a differenti giornali (usiamo questo termine anche quando si tratta di radio, televisioni, canali internet). Verrà allertato dalla redazione o, direttamente, dal teatro tramite un annuncio di conferenza stampa spedito per posta, per e-mail o per telefono, oppure dovrà recuperare l’informazione da sé. In molti casi la conferenza stampa non c’è, e il nostro dovrà attivarsi in proprio, magari confidando sulle sue conoscenze dell’ambiente.
Col tempo, il cronista e il critico si saranno creati una rete di relazioni non solo fra gli addetti stampa, ma direttamente fra gli artisti e gli organizzatori: potranno allora attingere notizie di prima mano, magari in anteprima assoluta, ottenere informazioni e chiarimenti dagli stessi protagonisti delle opere, richiedere direttamente interviste e anticipazioni, assistere a qualche prova.
E’ da notare un altro fenomeno: gli addetti stampa non sono esclusivamente degli esperti di pubbliche relazioni, dei “venditori” o “gonfiatori” di notizie. Spesso vengono anch’essi dal giornalismo e sono passati “dall’altra parte” non solo per trovare una più sicura e remunerata occupazione, ma anche per fiancheggiare l’esperienza di un artista o di un teatro di cui condividono la linea di ricerca. Uffici stampa di questo tipo conoscono le esigenze dei giornalisti e possono fornire notizie e materiali più dettagliati. Certi teatri, compagnie, festival pubblicano importanti strumenti di contestualizzazione e di approfondimento.
Nel recente passato, dopo alcuni anni di scarso impegno editoriale del settore, sono fioriti esperimenti di vario tipo. Innanzitutto numerosi giornali. Nei formati più diversi, dal tabloid a dimensioni maggiori, a libretti quadrati, la fantasia dei grafici si è particolarmente scatenata in teatri grandi e piccoli, dalle riviste prodotte dalle sale affiliate all’ETI e da alcuni teatri stabili (per esempio “Palcoscenico/Foyer” del Teatro di Genova) fino ai fogli di informazione di manifestazioni come “Armunia” o di piccoli spazi sperimentali come il Teatro Studio di Scandicci: si va da bollettini che illustrano gli spettacoli in cartellone a periodici che contengono commenti d’autore, articoli di analisi e inchieste[130].
Negli anni scorsi un’esperienza interessante è stata quella della rivista “La porta aperta”, voluta da Mario Martone durante gli anni della sua direzione artistica al Teatro di Roma[131]. Si tratta volumi in brossura di un centinaio di pagine che, seguendo la scansione degli spettacoli presenti in cartellone nel periodo di uscita, forniscono interpretazioni, materiali, documenti, fotografie, spunti tematici vari. Una pubblicazione non solo di propaganda, ma di riflessione. Come quelle della sezione arti dal vivo della Biennale di Venezia, nel periodo della direzione di Giorgio Barberio Corsetti[132], o come gli opuscoli del Teatro Comunale di Ferrara per le stagioni di danza e di prosa, che su ogni spettacolo forniscono un corredo di informazioni e di saggi critici[133].
Molti dei maggiori teatri hanno collane che pubblicano i testi degli spettacoli prodotti, con apparati critici più o meno approfonditi: fra le altre si ricordano le edizioni del Piccolo Teatro di Milano e quelle, altrettanto gloriose, del Teatro di Genova, ricche di oltre cento titoli. Anche alcuni teatri di ricerca hanno, in certi periodi, sviluppato iniziative editoriali: per esempio il Teatro di Leo – Teatro Laboratorio San Leonardo[134].
Un altro interessante esempio di attività di dibattito e informazione articolata nel tempo è quello dei Teatri di Vita di Bologna[135]. Il direttore dello spazio, Stefano Casi, e il direttore artistico della compagnia, Andrea Adriatico, entrambi ex giornalisti, hanno curato dal 1992 al 1996 la rivista “Società di pensieri”[136]. Ogni numero enucleava dal lavoro di un autore contemporaneo presente nella stagione alcune parole chiave, che venivano proposte alla libera riflessione di artisti di teatro, poeti, scrittori, saggisti, giornalisti. Esauritasi questa raffinata esperienza, Casi e Adriatico hanno mirato a una promozione capillare delle attività del teatro, che non rinunciasse a fornire qualche elemento di informazione più ampia (rubrica di libri e altro), con un giornale gratuito, spedito a un ampio indirizzario, “Teatri di Vita”, e una testata on line, “Il Suggeritore”[137].
Fra i tentativi di dar vita a periodici di informazione e di riflessione sui temi culturali sviluppati da organismi teatrali, ricordiamo, negli anni scorsi, “Etinforma”, rivista di approfondimenti dell’ETI, uscita a partire dal 1996, prima come “mensile di informazione dello spettacolo”, poi con alcuni numeri speciali, infine come annuario-catalogo dei “Percorsi internazionali”[138]. Ma anche molte compagnie accompagnano progetti particolari con libri o giornali che raccolgono interventi di diversa profondità.
Terminiamo con un’avvertenza metodologica importante circa il modo di osservare i materiali prodotti dalle compagnie, tratta dall’introduzione al libro ispirato da <OTTO>, un fortunato spettacolo della compagnia pratese Kinkaleri:
[…] la pubblicazione che contiene questa introduzione non è la celebrazione dell’evento performativo appena citato, né trovano spazio i chiarimenti da parte degli autori sullo spettacolo o le famose riflessioni al margine; neanche la documentazione fotografica dell’evento è assolta in questo volume e nemmeno si può considerare l’idea che certe immagini siano scelte e montate come documenti e materiali di lavoro della compagnia per la realizzazione dello spettacolo. Questo libro è da considerarsi in verità come opera autonoma che dello spettacolo mantiene la stratificazione dei segni dove ogni azione ruota vorticosamente su se stessa moltiplicando i meccanismi del linguaggio e della comunicazione, amplificando la percezione del limite raggiunto dalla civiltà occidentale[139].
5.4. Interviste e presentazioni
La preferenza assegnata dai mezzi di comunicazione a interviste e presentazioni rispetto a momenti di riflessione più analitica sugli spettacoli è uno sintomi della crisi dell’informazione culturale. Si privilegia la testimonianza senza possibilità di verifica e di replica all’analisi. Si sostituisce all’esercizio della visione diretta e della critica la promozione pubblicitaria, più o meno inconsapevole.
Eppure l’intervista può essere di grande utilità. Facendoci conoscere le intenzioni del regista o degli altri artisti implicati nell’operazione, ci fornisce dati di prima mano sui quali lavorare. Ci permette di entrare nel mondo poetico, nei presupposti, nei segreti artigianali di chi va in scena. Consente al giornalista di confrontarsi con la personalità degli artisti, non solo con i loro prodotti e con le loro concezioni.
Sta all’intervistatore essere più o meno accondiscendente, sviscerare gli argomenti e i riferimenti, o rimanere in superficie. Una intervista può fornire materiali utilissimi per la visione dello spettacolo e collocarlo in una cornice appropriata. Alcune riviste alla recensione frettolosa preferiscono programmaticamente l’intervista accurata, capace di scandagliare lo spettacolo e l’attività complessiva dell’artista. Ritengono utile anche, in molti casi, pubblicare direttamente le dichiarazioni, gli scritti di poetica degli artisti medesimi, i loro interventi, i documenti dall’interno del loro lavoro. Sono materiali imprescindibili per situare esperienze che, come abbiamo più volte rilevato, possono avere punti di partenza e tragitti diversi e particolari.
Anche la presentazione può essere sbrigativa, una semplice parafrasi dei comunicati stampa, o può servire a fornire al pubblico elementi per la visione, informando sull’attività precedente dell’artista o della compagnia, sui loro metodi di lavoro e intenzioni, sulle condizioni di produzione, sulle relazioni con altri artisti o con altre arti, sui propositi sociali, civili, politici. La presentazione è, inoltre, un’ottima scuola per l’apprendista critico: si tratta di calibrare il limite fin dove ci si può sbilanciare, fin dove si possono seguire le note promozionali o le dichiarazioni dell’artista e dove invece bisogna fermarsi per non passare al cieco encomio. La conoscenza precedente, evidentemente, è di aiuto. Come sorregge la diffidenza nei confronti dei comunicati stampa, la curiosità di ampliare le fonti d’informazione, la sfida a non servirsi mai di parole preconfezionate, di concetti facili, di dati poco verificati.
La fretta può indirizzare verso scorciatoie. Ma in una stagione gli eventi si ripresentano spesso con la stessa scansione della precedente: gli annunci dei cartelloni dei teatri, il giorno del grande debutto, la presentazione del grande attore, lo spettacolo scritto dall’assessore poeta o filosofo, il festival, il convegno imperdibile… Per vincere la ripetitività bisogna lottare contro la fretta e l’usura, cercando nelle notizie e nel modo di porgerle ogni volta qualcosa di diverso.
Oltre l’intervista e la presentazione, esiste un terzo genere che può fornire importanti materiali, pochissimo frequentato in genere nel giornalismo italiano: l’inchiesta, la ricerca di dati su un fenomeno, su un problema di politica teatrale, un dibattito fra diversi soggetti su temi di attualità culturale circa la vita di una città, di una regione, del paese.
5.5. Annuari, collane di teatro, riviste
Fonti di informazioni preziose, di memorie insostituibili sullo spettacolo contemporaneo, sono annuari e riviste. Sono, alcuni di questi, i prodotti più maturi della riflessione e della sperimentazione critica degli ultimi decenni.
Esistono varie pubblicazioni di servizio, come quelle della Società degli Autori e degli Editori[140], dall’uscita irregolare, e alcune “agende dello spettacolo” che forniscono indirizzi di teatri e compagnie e altre utili informazioni pratiche[141].
Ma l’annuario più ricco, interessante e importante è Il Patalogo[142], diretto da Franco Quadri. Raccoglie dati su momenti e fenomeni della stagione teatrale passata: viene presentato tra la fine di novembre e i primi di dicembre in una serata in cui vengono conferiti i Premi Ubu, assegnati da una giuria che comprende oltre sessanta critici teatrali al migliore spettacolo, al miglior regista, al miglior scenografo, ai migliori interpreti della stagione precedente. Nel Patalogo 20, Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino hanno compilato un indice generale degli argomenti toccati nel primo ventennio della pubblicazione, Il metapatalogo[143], utilmente consultabile per avere l’idea di gran parte del percorso.
E’ impressionante la quantità dei materiali accumulati, delle testimonianze, dei problemi sollevati nei ventisei numeri usciti finora. Ogni volume si apre con il Repertorio di un anno, ossia con un elenco e i dati degli spettacoli che hanno debuttato nella stagione, in alcuni casi con estratti di presentazioni della compagnia o di recensioni. Altre sezioni informative, non presenti in tutte le annate, sono la Vetrina di una stagione, che raccoglie notizie su convegni, mostre e libri, quella dedicata ai festival italiani e stranieri, e quella che ricorda gli artisti morti (Fin de partie). Ogni numero riporta i risultati del referendum Ubu con le dichiarazioni di voto dei critici. Ci possono essere poi, nelle sezioni finali, approfondimenti su problemi emersi nella stagione, su spettacoli di grande richiamo, su tendenze italiane o straniere, sui fatti e i misfatti della politica teatrale. Il Patalogo ha segnalato l’apparire e il crescere di varie generazioni della ricerca, il risorgere dell’interesse per la drammaturgia, la crisi della critica, il fenomeno del teatro comico, i problemi dello spazio teatrale e le invenzioni di nuovi luoghi, e molto altro ancora, lasciando una traccia imprescindibile per chi voglia affrontare il teatro di questi anni o confrontarsi con la sua memoria.
Ricordiamo anche il rinascere di un interesse editoriale per monografie che documentano spettacoli o tragitti artistici contemporanei. Oltre alla Ubulibri, che scandaglia il teatro d’oggi con raccolte di saggi e di documenti, libri fotografici, pubblicazioni di testi, monografie su artisti e opere, e a una collana storica ma ancora vivace come “Biblioteca teatrale” di Bulzoni (da non confondere con l’omonima rivista), sono utili le pubblicazioni delle case editrici Il principe costante di Milano, Titivillus di Corazzano (PI), Editoria&Spettacolo di Roma e le collane “Teatro contemporaneo d’autore”, diretta da Valentina Valentini per Rubbettino editore, e “Pedane mobili. Quaderni per la ricerca teatrale”, diretta da Franco Vazzoler per l’Editrice Zona di Rapallo (GE). Ci sono anche altre esperienze più occasionali o per le quali bisogna aspettare ancora qualche titolo per avere un quadro più preciso degli ambiti e dei tagli editoriali.
Altri strumenti che tastano il polso al teatro che si fa tutti i giorni sono le riviste. In Italia non sono molte e neppure molto lette. Da noi si tratta, in genere, di prodotti di nicchia, che sopravvivono con difficoltà. E comunque, negli ultimi anni, si assiste a un moltiplicarsi di esperienze editoriali, che testimoniano il bisogno di una riflessione meno occasionale e di strumenti per far circolare informazioni, suscitare dibattiti, sviscerare problemi, aprire prospettive anche su panorami stranieri.
La più anziana tra le riviste, “Sipario”[144], gloriosa negli anni sessanta[145], si è appannata con gli anni e con i cambiamenti di proprietà e di direzione, e oggi non è molto diversa da altre, con rubriche di attualità teatrale, una guida agli spettacoli della stagione, recensioni, un’ampia sezione che accoglie testi teatrali inediti, rubriche di libri, di dischi, sulla scuola, e altro, qualche dossier di approfondimento, come quello molto ampio dedicato al teatro bulgaro nel numero di settembre 2003.
Uno schema simile segue l’altro mensile patinato, “Prima fila”[146], caratterizzato da molte foto a colori, da ampi dossier, recensioni lunghe nella rubrica “Lo spettatore accorto” e più brevi in un altro contenitore, con un cartellone, una rubrica di attualità e servizi sulla danza, la lirica, il cinema. I dossier, in “Prima fila” come in “Sipario”, lasciano l’impressione di essere dettati più che da motivi di intervento su questioni spinose, emergenti o di approfondimento storico, dalla necessità di reperire fondi pubblicando atti di convegni o servizi comunque prepagati. Ma il problema della sopravvivenza delle testate indipendenti è spinoso.
“Hystrio”[147] da qualche anno ha rinnovato la formula e le collaborazioni, mantenendo un equilibrio tra osservazione del teatro istituzionale e scandaglio del nuovo. Anche su questo periodico sono pubblicati dossier, in genere su questioni più interessanti come “Teatro e differenza”, “I mestieri del teatro”, o su temi di politica o di storia teatrale (il sessantotto, il teatro ragazzi, il teatro di animazione eccetera). Inchieste sono dedicate alle scuole di teatro e ampie corrispondenze arrivano dall’estero. La parte delle recensioni è estesa e articolata per regioni, anche se la maggior parte di esse non superano le venti-trenta righe. Ma lo spazio dedicato alle critiche dalle riviste, pure se con limiti di ampiezza e, per trimestrali e quadrimestrali, di tempestività, è importantissimo, perché spesso può essere il luogo dove si cimentano nuovi sguardi.
Da ricordare infine “Prove aperte” [148], rivista di informazioni utili, di concorsi e notizie per i mestieri dello spettacolo.
Esistono, poi, alcuni periodici pubblicati da dipartimenti universitari, più dedicati a studi approfonditi su temi storici ma anche contemporanei. Forniscono, in molti casi, anche estratti di tesi o rassegne bibliografiche. Fra tali riviste ricordiamo perlomeno “Biblioteca teatrale”[149], “Culture teatrali”[150], “Il Castello di Elsinore”[151], “Drammaturgia”[152].
In questo panorama universitario una nuova realtà, con articoli dal taglio a metà fra lo studio approfondito e l’inchiesta giornalistica, è “Prove di Drammaturgia”[153]. Questa rivista analizza temi e problemi dello spettacolo contemporaneo, dai nuovi narratori alle intersezioni fra teatro e immagine video, con monografie o ampi servizi su registi o drammaturghi di generazioni diverse quali Marco Martinelli, Thierry Salmon, Emma Dante.
Un’altra novità editoriale è la rivista “ART’o”[154], dedicata all’analisi dell’eredità delle rivoluzioni teatrali del Novecento e alle trasformazioni contemporanee dello spettacolo, agli incroci fra il teatro e altre arti, al posto del teatro nella realtà politica e civile. E’ articolata in sezioni variabili, dedicate ai maestri del Novecento, alla danza, alle geografie teatrali in movimento, alle recensioni di libri, alle “scritture sceniche”, a documenti d’artista. Oltre che sugli abbonamenti, su qualche scampolo di pubblicità e su una limitata distribuzione in libreria, cerca di sopravvivere creando una rete di teatri sostenitori, che acquistano un certo numero di copie da rivendere al pubblico teatrale. La scommessa è evidente: creare uno stretto legame fra il pensiero critico, i teatri, le compagnie che esplorano nuove frontiere e gruppi di spettatori interessati a indagare lo spettacolo, a ragionarci sopra anche quando si spengono i riflettori.
Una rivista rivolta in particolare ai “teatri delle diversità” è “Catarsi”[155]. Da qualche anno uno spazio sempre maggiore trova il teatro su “Lo straniero, rivista di arte, cultura e società”[156] che, come si evince dal sottotitolo, copre diversi campi d’intervento. Critici maturi si accostano a penne più giovani o in formazione su pagine interessanti per la molteplicità degli sguardi e la capacità di mordere le questioni, proponendo perlopiù visioni tendenti a rovesciare apparenze, consuetudini o vere e proprie pigrizie nel modo di guardare e di pensare la realtà socio-politica e le arti.
5.6. Rete critica: navigando su internet
Internet è un’altra grande fonte di notizie. Oltre ai motori di ricerca più usati, (Google, Libero, Virgilio eccetera ), sono sorti, negli ultimi anni, vari siti dedicati allo spettacolo e alcune riviste o “webzine” on line. Le principali tra queste forniscono non solo sguardi critici sull’attualità teatrale, ma anche informazioni ad ampio raggio, indirizzi di teatri e compagnie, collegamenti con siti teatrali italiani e stranieri, servizi e altro.
Ne illustreremo solo alcuni, rimandando, anche in questo caso, a ricerche personali per nuove scoperte. Con un’avvertenza: le cose in internet cambiano in fretta, con variazioni grafiche o di impostazione, con nascite e scomparse premature. Quindi siti o parti di essi si possono ritrovare dopo tre, sei mesi, un anno profondamente mutati.
Ci si può collegare con “ateatro” con l’indirizzo http://www.ateatro.it, oppure digitando quello del sito del suo direttore, http:/www.olivieropdp.it. E’ un vero e proprio giornale quindicinale e contiene interventi, recensioni, approfondimenti; rivolge un particolare sguardo sull’attualità e sulle intersezioni fra teatro e nuovi media (sezione curata da Anna Maria Monteverdi). Ha una finestra per i festival, un archivio e un indice dei numeri usciti, una sezione con oltre trecentosessanta link con compagnie, teatri, enti, vari forum molto frequentati e vivaci, un collegamento a una sezione particolarmente interessante del sito di Ponte di Pino, intitolata Materiali del nuovo teatro, con ampi saggi su diversi aspetti della scena contemporanea, interviste ad artisti e altri documenti. In spazi come il forum aperto per il convegno Nuovo teatro, vecchie istituzioni, tenuto nel 2002 a Castiglioncello, tuttora attivo, fornisce informazioni di politica teatrale e ospita discussioni su tale tema. Sta effettuando, inoltre, in collaborazione con alcune compagnie, una recensione del teatro emergente, consultabile sotto il titolo Mappa del nuovo teatro[157].
Un portale dedicato allo spettacolo ricco di prestigiose collaborazioni[158] è quello della Baldini & Castoldi, “del Teatro”. Ci si può collegare attraverso l’indirizzo http://www.delteatro.it. Oltre a recensioni, immagini e notizie su teatro, musica, danza, opera, si può leggere Il consiglio della settimana di Palazzi, si può esplorare il cartellone degli spettacoli in Italia, si può partecipare ai forum e visitare le sezioni Video e Immagine e azione. Permette, inoltre, di consultare le voci del Dizionario dello Spettacolo del 900[159], oltre diecimila voci su teatro, danza, rivista, varietà, musical, cabaret, circo, performance, spettacolo dal vivo.
Alla drammaturgia è principalmente dedicato “Dramma”, consultabile all’indirizzo http://www.dramma.it. Oltre a informazioni, recensioni e collegamenti vari, offre la possibilità di leggere nuovi copioni teatrali e fornisce notizie su scuole di scrittura, di drammaturgia, e sui principali concorsi, premi e pubblicazioni. Ha diversi archivi, rivolti in particolare ai problemi e ai temi della drammaturgia contemporanea.
“Tuttoteatro” è un settimanale di recensioni e notizie teatrali diretto da Mariateresa Surianello. Si trova all’indirizzo http://www.tuttoteatro.com. Oltre alle notizie e alle riflessioni di critici, che collaborano in genere anche con quotidiani e con riviste specializzate[160], offre un archivio degli articoli dei vecchi numeri, una mappa (incompleta) dei teatri d’Italia, suddivisi per regioni, con indirizzi e collegamenti, link a festival, a compagnie e organizzazioni teatrali. Non mancano una “bacheca” per comunicati, lettere, polemiche e una mappa del sito. Nella homepage sono contenuti link ai siti dei teatri sostenitori della rivista, notizie di attualità teatrale e informazioni su eventi multimediali.
Molte delle riviste cartacee hanno anche un indirizzo web: quello di “Sipario” è http://www.sipario.it, quello di “Hystrio” http://www.hystrio.it; “Culture teatrali” e “Prove di drammaturgia“ si hanno pagine elettroniche nel sito del Dipartimento di Musica e Spettacolo di Bologna, http://www.muspe.unibo.it. “Drammaturgia”, invece, gestisce un vero e proprio portale, http://www.drammaturgia.it, con recensioni e informazioni su teatro, cinema, opera, danza, musica, mostre, sport, televisione; come pure un portale ha allestito “prove aperte”, http://www.proveaperte.it.
Sempre on line si possono trovare le notizie del “Giornale dello spettacolo” collegandosi con la pagina internet dell’AGIS, http://www.agisweb.it. È disponibile, ora, anche un’ampia rassegna stampa sul teatro curata dall’ETI (nella homepage del sito http://www.enteteatrale.it digitare “servizi” e poi “rassegna stampa”). Il sito http:/criticiditeatro.com, aperto qualche anno fa dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro[161] in uno dei suoi periodici sforzi di rinnovarsi e rilanciarsi, presentava interessanti rubriche e numerosi link: ma risulta non aggiornato da tempo.
Per finire, citiamo due ambienti web diversi dai precedenti. Il primo, http://www.teatron.org, diretto da Carlo Infante, non è una rivista, ma un progetto per uno sguardo interattivo, una “piazza virtuale” per riflettere sul teatro, per rinnovare attraverso l’immediatezza (o la presunta immediatezza) della rete la relazione di empatia che nasce nel rapporto fra teatro e spettatore. L’ultimo è quello della biblioteca teatrale del Burkardo di Roma (http://www.theatrelibrary.org). Permette di viaggiare nei cataloghi (riversati in rete, però, in maniera ancora incompleta) attraverso libri, locandine, fotografie, copioni, periodici, e nell’archivio storico della SIAE; informa sulle mostre e sulle altre attività di quello che è uno dei maggiori centri nazionali di conservazione dedicati alle arti sceniche.
5.7. Il laboratorio: esercizi di ricerca
L’ambito degli esercizi consigliati alla fine di questo capitolo è prevedibile. Si tratta di ampliare i suggerimenti qui forniti, avviando una ricerca delle fonti in ambiti diversi. Cosa si può cercare (e trovare) in una biblioteca? In una biblioteca generale o in una specializzata?
Provare a rintracciare, per esempio, le riviste segnalate. Trovare le principali riviste straniere. Farsi un proprio schedario o database. Confrontare numeri di diverse annate, sotto differenti direttori. Vedere come riviste con impostazioni lontane trattano i medesimi temi, spettacoli, problemi.
Consultare varie annate del Patalogo e confrontarlo con altri annuari.
Costruirsi una bibliografia sulla critica teatrale.
Naturalmente stiamo proponendo un ventaglio ampio di “esercizi”, per consentire a ognuno di scegliere itinerari autonomi.
Interrogare teatri diversi sul modo in cui conservano i materiali. Visitare gli archivi di qualche grande teatro. Descriverli in schede sintetiche.
Interrogare gli uffici stampa su come producono materiali per i debutti o per le ospitalità.
Analizzare i programmi delle stagioni di diversi teatri, le pubblicazioni, i programmi di sala, i materiali didattici.
Ricercare sulla rete i siti specialistici e analizzare il posto assegnato al teatro dai portali generalisti, o da altri dedicati principalmente a settori diversi dello spettacolo.
Completare le ricerche precedenti sugli archivi dei teatri e sui materiali degli spettacoli attraverso la navigazione in internet[162]. Consultare gli archivi delle riviste on line per verificare se e come sono stati recensiti o annunciati determinati spettacoli, se esistono differenze con i resoconti apparsi sui mezzi più tradizionali (lunghezza, approfondimento, corredo di altri materiali quali fotografie, link eccetera).
Visitare i siti dei teatri considerati nelle ricerche precedenti, descriverli in schede sintetiche che raccolgano le diverse informazioni che se ne possono ricavare.
Svolgere un’inchiesta sulle diverse programmazioni dei teatri della propria città, ricavando informazioni e considerazioni sulle linee della politica culturale degli enti programmatori.
Scegliere uno spettacolo per una presentazione. Contattare l’ufficio stampa. Reperire materiali preparatori. Fare una o più interviste ai protagonisti.
Scrivere una presentazione.
Scrivere una o più interviste.
- Lo spettatore risvegliato
6.1. Un prontuario per vedere lo spettacolo
Abbiamo provato a dimostrare come lo sguardo sia dovuto diventare prismatico, per cogliere un oggetto sempre più mobile.
Il critico – ma anche lo spettatore appassionato – si trasforma in parte attiva di un processo complesso. Gli si richiede di porre domande, di indagare, di capire prima di giudicare; di entrare nelle regole di composizione dello spettacolo, nella fatica del processo, nelle questioni che l’opera pone. E’ un compito impegnativo, che assegna al teatro una funzione importante per la coscienza individuale e civile. Questo tipo di considerazione nasce dalla tradizione delle rivoluzioni del Novecento, quando quest’arte ha indossato su di sé il paradosso di provare ad attingere la verità e la necessità attraverso la sua costituzionale finzione e gratuità. La scelta di esprimersi attraverso il teatro, per alcune generazioni, è stata prima ancora che una scelta estetica una scelta etica e politica: provare a dire per trasformare, insieme ad altri, a una collettività, piccola o grande, attraverso mezzi praticabili, attraverso strumenti accessibili e basati sul contatto umano, diretto.
Per tutto quello che si è stratificato in questa vecchia arte, lo sguardo richiede delicatezza, curiosità, acume, capacità di interrogazione e di indagine, disponibilità alla conoscenza prima e mentre ci si abbandona al piacere del gioco scenico e soprattutto quando si inizia la descrizione, l’analisi o la valutazione dello spettacolo.
Abbiamo ripetuto più volte che in questa situazione non possono esistere modelli preconfezionati di esame e resoconto. Bisogna indagare l’oggetto che si ha davanti, che può essere molto diverso da quello con cui ci si è confrontati anche solo la sera prima.
A questo punto proviamo a contraddirci, e a presentare una griglia utile per guardare lo spettacolo contemporaneo. Una serie di punti che comprendano, sinteticamente, le differenti tipologie di spettacolo che ci può capitare di incontrare, sia quelli “tradizionali” che i più arditi esperimenti. Con la consapevolezza che si tratterà, comunque, di uno schema riduttivo, che finirà sempre per tralasciare qualche possibilità. E che, in altri casi, sembrerà fin troppo puntiglioso, rubricando anche ciò che è arcinoto.
L’esigenza di sintetizzare alcuni parametri di osservazione che aiutassero l’analisi è nata in uno dei primi laboratori da me condotti, nell’agosto del 1998 al “Festival della Terra delle Gravine”[163]. La richiesta di arrivare a produrre una griglia per la lettura dello spettacolo d’oggi fu posta in modo piuttosto stringente dal critico di un giornale locale[164], che lavorava molto con gli insegnanti. Aveva bisogno di uno schema da proporre come guida per lo sguardo dello spettatore. Quasi per gioco si cercò di rendere quel “prontuario critico” il più esaustivo possibile, capace di soddisfare molte richieste. Eccolo, con qualche variante e chiarimento rispetto alla stesura originale[165]:
- La recensione deve presentare lo spettacolo attraverso:
– il titolo, l’autore, l’anno di realizzazione, il cast, altre notizie utili all’identificazione.
- La recensione deve individuare le modalità di composizione dello spettacolo:
– condizioni di produzione;
– agenti della composizione, loro operatività e relazione (autore, regista, drammaturgo[166], attore, coreografo, scenografo, costumista, creatore luci, musicista, creatore del suono, creatore di video e foto di scena, compagnia o gruppo che allestiscono l’opera e loro strutturazione);
– drammaturgia: dell’autore (descrizione del testo, delle eventuali operazioni di adattamento); del regista (interpretazione di un testo, creazione dello spettacolo, scrittura scenica, uso di materiali e procedimenti di altre arti); dell’attore (interventi sul testo, improvvisazioni, altre modalità); del gruppo (creazione collettiva, processo di improvvisazione guidato da un regista, scrittura scenica ecc.);
– modelli, generi, riferimenti che guidano la composizione (teatrali, di altre arti, extraartistici);
– processi della composizione (per fasi, unitari);
– destinatario ideale dello spettacolo.
- La recensione deve rilevare gli elementi caratterizzanti lo spettacolo finito:
– condizioni di rappresentazione (luogo, occasione, committenza, articolazione dell’opera, durata);
– esiti del lavoro dei diversi agenti (drammaturgia, regia, parola, gesto, coreografia, relazione scenica, relazione con il disegno drammaturgico e registico, scenografia, costumi, oggetti di scena, luci, musica, suono, immagini proiettate, elementi di altre arti o extraartistici ecc.).
- La recensione deve descrivere la ricezione:
– tipo di pubblico;
– sintonia/dissintonia con lo spettacolo;
– atteggiamento nei confronti dei messaggi espliciti o impliciti;
– osservazione degli strumenti d’informazione di cui può disporre il pubblico (locandine, programmi o libretti di sala con testo, sinossi, approfondimenti, presentazioni, interviste, recensioni apparse sulla stampa ecc.).
Sotto l’apparente freddezza di questo catalogo si possono intravedere diversi tipi di spettacolo, basati su testi della tradizione o di nuova drammaturgia, composti su immagini o su partiture di danza, mettendo in scena materiali preesistenti (testi, ma anche sequenze di azioni concepite da un regista-autore) o costruiti attraverso procedimenti di laboratorio (improvvisazioni, scrittura sulla scena con una stretta relazione fra drammaturgo, attori e regista), in grandi teatri o in piccole sale, all’aperto in un paese che si mette in piazza per raccontarsi o negli spazi anomali inventati da un festival…
Sotto differenti modalità di lavoro e di produzione, capocomicali, con un regista, di gruppo, di laboratorio, con una struttura gerarchica o nel segno del lavoro collettivo, in imprese private, teatri stabili, teatri d’arte, teatri per ragazzi, compagnie di amatori, gruppi che operano con l’handicap, il disagio, oppure in carcere, nei quartieri, nelle scuole, con gli immigrati, si scorgono artisti e passioni, favole seducenti e azioni dure come pietra o taglienti come bisturi.
Sotto i dati necessari per identificare l’opera, che il cronista e il critico non possono mai dimenticare (le “cinque w” degli anglosassoni, who, chi, where, dove, whenquando, what, cosa, why, perché), sotto le informazioni che sembrano di colore (il luogo, l’occasione, il pubblico, fischi, ovazioni, perplessità e quant’altro) si cela la vita del teatro, il suo aspetto di rituale sociale, le abitudini che presuppone o le rotture che certi spettacoli introducono, i dibattiti che aprono, le tendenze di gusto del pubblico, dei cittadini di un luogo in un determinato periodo storico. Le informazioni che lo spettatore possiede possono segnalare le ragioni della scelta di un teatro piuttosto che un altro, di uno spettacolo, di una rassegna.
Con la scissione dell’opera nei momenti, nei processi e nelle componenti della sua produzione non si vuole suggerire un tipo di visione esclusivamente analitica, distaccata, attenta a cogliere i fili nella loro singolarità, lontana dal calore della presenza e dell’emozione. Si vuole segnalare la necessità, mentre ci si abbandona alla bellezza, alle risate, all’indignazione, alla commozione, di acuire lo sguardo, di moltiplicare le capacità percettive, di iniziare a svolgere emozione, commozione, risate e pianto nell’intreccio delle componenti che suscitano le nostre reazioni, la “storia” ma anche certi toni di voce, certi usi dell’immagine, i corpi, le luci, i suoni e tutto il resto. Iniziare a svolgere: perché poi i fili saranno districati nel momento analitico che segue la visione, per essere ricomposti in narrazione nel momento della scrittura. Ma chiariremo nel capitolo successivo questi passaggi.
La consapevolezza dei limiti di un tale schema era presente nel momento stesso in cui veniva elaborato:
Ma gli schemi non bastano. La griglia deve essere interpretata, ogni volta, dalla sensibilità di chi guarda e decide cosa approfondire o tralasciare, anche in relazione a varianti quali la destinazione dell’articolo e lo spazio a disposizione. Fare critica è anche assumere punti di vista, scegliere una posizione dalla quale guardare. Può essere oggettiva, distante; oppure seguire più da vicino, pur senza confondersi, gli sforzi degli artisti per delineare nuovi orizzonti di creazione e nuovi ambiti organizzativi (e politici) di azione. Critica come giudizio; critica militante. Con tutte le contraddizioni relative[167].
Quando sappiamo cosa, dove, come, quanto guardare, dobbiamo sempre scegliere la posizione, il punto di vista. Possiamo decidere di incontrare lo spettacolo per la prima volta quando ci sediamo in platea e le luci si abbassano, cercando di eliminare ogni prevenzione nella nostra visione, evitando di assumere informazioni preliminari. Oppure preferiamo un punto di osservazione precedente: abbiamo letto il testo, conosciamo l’artista e abbiamo cercato di comprendere il processo di composizione dello spettacolo. Oppure ci eleggiamo paladini del pubblico, del quale coglieremo umori, indifferenze, approvazioni e disapprovazioni. E comunque il nostro sguardo è condizionato dalla testata per la quale scriviamo, che ci impone sempre qualcosa, magari solo le misure dell’articolo in cui contenere tutte le ricchezze del nostro sguardo.
Ma il punto di vista è spesso come uno zoom, che può avvicinare o distanziare le cose, a seconda della focale usata. Siamo là, dentro la rappresentazione, immersi, e non esiste nient’altro, e quello che vediamo ci trascina in una relazione con le cose che stanno fuori dalla sala, nella realtà, ancora la realtà, o in un pensiero sui modi per rappresentarla, per smascherarla, o verso la storia, verso le crisi o le certezze della società che ci circonda, o di nuovo verso la favola, nella creazione radicale e autosufficiente, sotto le luci del palcoscenico, dentro noi stessi.
6.2. Liberarsi della recensione
Chi guarda, però, tende spesso a ritrovare quello che si aspetta e a riprodurre ciò che qualcun altro attende da lui. In altri termini: il critico ha criteri precisi per guardare e rendere conto, una concezione maturata nel tempo, con gli studi e la pratica delle buone osservazioni e dei confronti. Sulla base di quelle certezze descrive, analizza, giudica. Sapere che l’osservatore ha messo a punto alcune forme per contenere un’attività che potrebbe espandersi all’infinito e che agisce dentro gabbie sicure (quelle che gli impone, per esempio, la stampa quotidiana), ci libera da quel sottile senso di angoscia che può averci preso leggendo lo schema precedente.
Qualcuno avrà trovato la griglia presentata troppo analitica e avrà pensato: documentandosi su tutti quei dettagli si ammazza il piacere del teatro! Quello che importa è l’opera, la relazione, l’emozione che il teatro scatena[168].
Un tale modo di pensare e di procedere chiude qualche strada a quella euresi della quale si parlava nel primo capitolo, all’avventura della ricerca del non ancora noto che fonda la conoscenza, e che può portare a scoprire percorsi inattesi. Quando il critico, o lo spettatore, si lascia trascinare troppo dalle sicurezze e magari dai propri pregiudizi, dalla propria stanchezza, da un eccesso di sicumera o anche di emozione, finisce per non vedere. E soprattutto per non far vedere ad altri, quindi per negare le potenzialità di scambio insite nella relazione teatrale.
Ugualmente, chi incolpa la ristrettezza di spazi per le proprie omissioni rinuncia a sfidare con la scrittura la corta misura, o forse a contrastare il caposervizio e la gerarchia della notizia, che attribuisce all’approfondimento culturale, allo scavo nella coscienza, l’ultimo posto. Comunque non rischia spazi nuovi e condizioni diverse, magari altrove, in altre circostanze, accettando di riprodurre ciò che talvolta ha criticato come iniquo.
Lo schema precedente è una traccia di lavoro per l’osservatore, per costringere il teatro a rivelare il maggior numero di segreti, per penetrare modalità di lavoro fuori dai canoni disciplinari, quali possono essere quelle di spettacoli basati su flussi di immagini, o di materiali presi, quasi come reperti, dalla realtà, comportamenti quotidiani, atti politici, ma anche corpi deformi, spezzoni di proiezioni, evanescenze di fantasmi, mondi estetici autonomi. Serve per non accontentarsi della sensazione, per cercare di capire perché ci si trova davanti a un determinato risultato. O perlomeno quale è la ricerca dell’artista, e se è riuscito a ottenere i risultati desiderati. Aiuta a sfidare l’incantamento dello spettacolo con domande all’“arte”, all’agire su materiali, persone, immagini per comporli in organismi sorprendenti, capaci di scatenare il piacere della trasformazione, di portare un po’ più in là dei nostri abituali ambiti prefissati di giudizio.
L’arte altera gli equilibri, e noi non possiamo entrare in sintonia o in conflitto con essa attraverso scorciatoie. Da essa allontanano il senso di noia di chi vive il mestiere del critico come una condanna a ripetere tutte le sere, e le mattine successive, gli stessi atti (andare a teatro e scrivere), la sensazione di aver già visto tutto, l’incapacità di scendere sul terreno di chi ha faticato per costruire una sua creazione e ce la propone, la pigrizia, una certa ironia. Quell’ironia in punta di penna che congiunge (notava Silvio D’Amico) pigrizia e paura in una critica “in cui l’ironia diventa fine a se stessa; estremo rifugio di coloro che, non osando esser sinceri, si vergognano di mentire allo scoperto”[169].
Carla Benedetti parla di questa incapacità di vedere della nostra critica, riferendosi a quella letteraria:
Il tradimento dei critici è allora prima di tutto la paralisi della critica provocata dalla critica stessa posseduta dalle formae mentis della chiusura. Un piccolo pessimismo che ha prodotto quasi un restringimento addizionale del pensiero e delle possibilità dell’azione: una miscela nefasta di malinconia, pigrizia, cinismo e divieti introiettati, che hanno contrastato la generazione, producendo un vuoto culturale e spirituale spaventoso.
La vita culturale degli ultimi decenni è stata dominata da una serie di descrizioni epocali che hanno dato tutto per liquidato, e che oggi appaiono sempre più insostenibili. Nella letteratura e nell’arte hanno preso forma idee come la fine del nuovo e la morte dell’autore che, dietro un’euforia di facciata, rivelano il volto luttuoso di un’epoca che si ritiene condannata all’epigonalità, incapace di creare, costretta a ripetere o a ricombinare indefinitamente l’enciclopedia o biblioteca del già scritto. E’ stata ratificata la legge secondo cui ogni forma radicale di arte è destinata di lì a poco a essere inglobata, neutralizzata o mercificata (la trappola dell’avanguardismo e della trasgressione), dalla quale poi è sbocciato il corollario della necessità di essere ironici, di non prendersi mai sul serio quando si scrive (trappola nuova al posto della trappola vecchia), confortati comunque dal postulato che tanto, ormai, nessuno crea più nulla. E poi c’è stata anche l’idea della condizione postuma della letteratura, del suo esaurirsi nel catalogo delle glorie passate[170].
Provate a sostituire “critica teatrale” a “critica letteraria” e avrete una bella descrizione di coloro che hanno già visto tutto, che credono che tutto sia epigonalità, inutile ripetizione; che mettono la loro impressione su tutto e non si sforzano di andare a fondo, proteggendosi con il solito alibi: “lo spazio non lo consente”.
E’ necessario spostare lo sguardo, rinunciare alle certezze, confrontarsi a viso aperto con la complessità dei modi della creazione che, di solito, rischia molto. Ma anche e soprattutto, è opportuno misurarsi a fondo con la propria passione, con disgusti e inclinazioni personali, con le partigianerie, con l’idea di obiettività o di soggettività, con gli equilibrismi e le autocensure (sono numerose, insidiose), con le limitazioni imposte dall’esterno, con le riserve mentali. Per liberarsi, in poche parole, di quella forma e formula che racchiude in modo sempre più limitato e insoddisfacente gli sguardi sullo spettacolo. Liberarli, gli sguardi. Liberarsi dalla recensione. Per ritrovarla: perché chi vuole fare il critico non può non scrivere, dopotutto, recensioni, e gli capiterà anche di doverle produrre per i soliti giornali che pongono le consuete limitazioni.
6.3. La complessità dell’atto vivente e lo sguardo
In questo paragrafo parleranno soprattutto i materiali. Non metteremo all’indice recensioni “cattive”, né esalteremo critiche “buone”. Cercheremo di accostare modi diversi di rendere conto di uno spettacolo complesso, dalle modalità produttive fuori dalle norme del consueto mercato del teatro. Parliamo della Tragedia Endogonidiadella Socìetas Raffaello Sanzio e, in particolare, dell’episodio rappresentato a Roma, R.#07[171]. Si è trattato di una tappa di un progetto in divenire, articolato fra diverse città, prodotto da festival internazionali e da alcuni importanti teatri stranieri. Il tragitto è iniziato a Cesena nel 2002, per proseguire ad Avignone, Berlino, Bruxelles, Bergen, Parigi, Roma, Strasburgo, Londra, Marsiglia, Cesena, dove il ciclo si chiude nell’autunno 2004. In ognuno di questi luoghi viene rappresentato uno spettacolo diverso, con alcune immagini e figure che ritornano. Ogni episodio di un tale organismo, che si riproduce dal suo stesso interno (endogonide), è basato su complesse partiture di corpi, immagini, azioni, suoni, con intrecci di archetipi, di suggestioni tratte dalla storia, dalla cronaca dei nostri tempi e dalla realtà architettonica, culturale, mentale delle città ospitanti. Non esiste un testo di base: lo spettatore potrà acquistare dei giornali di grande formato[172] con saggi trilingue (in inglese, francese e italiano) che cercano di descrivere o interpretare a posteriori le diverse tappe; potrà inoltre vedere una memoria video firmata da due videomaker, Stefano Franceschetti e Cristiano Carloni, una serie di “intarsi digitali”, come li definisce Romaeo Castellucci, che cercano di cogliere l’essenza degli spettacoli, senza pretendere di documentarli integralmente.
Il tema portante della Tragedia Endogonidia è l’impossibilità della tragedia nella società contemporanea, dove l’eroe, l’individuo che per costrizione o per scelta rompe le regole, è solo, non ha più intorno una comunità forte di riferimento, un coro che cerchi di interpretare o di moderare la sua azione e la sua differenza, di consolare la sua sconfitta.
L’interesse del progetto è anche produttivo: la compagnia di Cesena si ritroverà, alla fine del percorso, ad aver prodotto undici spettacoli diversi in poco più di due anni; alcune tappe sono state preparate in parallelo, per esempio quelle di Parigi e Roma, lavorando alla prima di giorno e di pomeriggio e all’altra di sera e di notte. Questo mobile polittico è stato realizzato consorziando una decina fra festival e teatri e attingendo a finanziamenti europei. Una possibilità, per la Socìetas (questo termine indica anche, evidentemente, una modalità di lavoro), aperta dal grande credito internazionale acquistato con i clamorosi spettacoli precedenti[173]; un modello (non sappiamo quanto imitabile da altri) per sfuggire alla crisi della ricerca e, più in generale, della creazione che non accetta compromessi, nel nostro paese ghettizzate o comunque ridotte ai margini degli investimenti importanti del settore.
I giornali italiani non hanno, in genere, dedicato spazio alle tappe precedenti. Molti critici hanno visto solo l’episodio romano, e comunque hanno scelto di mettersi nella condizione del pubblico, che non aveva seguito il resto del progetto. Ma il lavoro del critico dovrebbe consistere, al contrario, nel fornire agli spettatori strumenti per la visione.
Leggiamo alcune cronache di quotidiano. Partiamo dall’inizio di quello Franco Quadri, costretto a sintetizzare su “la Repubblica” il progetto, il percorso delle tappe precedenti (quasi tutte seguite personalmente) e la descrizione di quella romana in poche decine di righe:
Al settimo episodio dei dieci che concluderanno l’anno prossimo, in città sempre diverse, Endogonidia, è possibile cogliere meglio i caratteri di questa ricerca del tragico tentata dalla Socìetas Raffaello Sanzio con operazioni ogni volta autonome. Rifiutando una tecnica di racconto e di parola, sostituita dalle deformazioni sonore computerizzate di Scott Gibbons, ma aprendo la scena agli animali (anche a una poesia composta da un capro), Romeo Castellucci è passato da una sorta di nascita organica dell’uomo alla fiaba, a una parabola di violenza che ha toccato via via l’infanzia, l’oppressione dei diversi, una guerra civile con grossi effetti spettacolari a Parigi, in un travestirsi continuo di luoghi e persone, con ritorno puntuale di richiami biblici. Tra le regole dell’operazione figurava l’anonimato dei personaggi, ma si sono visti in scena Carlo Giuliani e Charles de Gaulle, e a Roma compare addirittura Mussolini[174].
La recensione è contratta. Quadri è bravissimo a far vedere pennellando a grandi tratti. Ma sembra che ci sia una lotta feroce con lo spazio o con le forbici del redattore: si noti quel “poesia composta da un capro” che può incuriosire, ma non fa certo capire che si tratta di un animale che muovendosi su una scacchiera dove sono segnate alcune lettere compone un testo aleatorio (avveniva nell’episodio di Avignone). La sensazione si va a sostituire al racconto e all’offerta di dati al lettore. L’articolo, all’incirca di tremila battute, una miseria per un progetto così impegnativo e di grande risonanza internazionale[175], prosegue con la descrizione delle immagini dello spettacolo romano, per concludersi con un lapidario commento:
Si chiude così, tra lampi laceranti, questa poderosa prova di forza espressiva, che muta i termini dell’operazione, assai semplificata figurativamente rispetto ai precedenti, al cui racconto aperto sostituisce una trasparente metafora del potere. Ma rilevata la filmicità del lavoro, la lettura del senso dell’operazione va rinviata alle ultime puntate[176].
Continuiamo con l’articolo di Gianni Manzella sul “Manifesto”. Qui è l’immagine di apertura dello spettacolo che genera alcune contestualizzazioni, anche impreviste ma estremamente feconde:
Un attore immobile in silenzio di fronte agli spettatori, solo sul margine del palcoscenico, fino a quando il prolungarsi dell’attesa non provoca una reazione nella sala. E’ l’inizio del celebre Mysteries del Living Theatre, lo spettacolo che quarant’anni fa fondava un nuovo teatro. All’aprirsi iniziale del sipario sul settimo episodio della Tragedia endogonidia di Romeo Castellucci, siglato R.#07, c’è invece una scimmia tutta sola, dietro la vetrata che chiude completamente il boccascena del teatro Valle. Una scimpanzé che a seconda dell’umore della serata siede tranquilla mangiando una banana, incurante di altro, oppure si muove gigiona sul palcoscenico. E non c’è intervento degli spettatori che possa mutare il corso di questa lunga scena silenziosa. Dopo una decina di minuti il sipario si chiude.
Una scena “assolutamente perfetta”, dice il dispositivo a lettere mobili sceso a dare il benvenuto agli spettatori. E bisogna allora prenderlo molto sul serio questo prologo enigmatico e quasi concettuale, apparente sberleffo evoluzionistico all’arte dell’attore. L’enigma e la perdita sono del resto i due poli fra cui è teso il pluriennale girovago progetto della Socìetas Raffaello Sanzio, undici creazioni ambientate in dieci città diverse […]. Eventi unici, destinati a vivere solo per poche repliche, a rendere estremo il sentimento di labilità che è proprio dell’arte teatrale[177].
Lo scritto prosegue facendo scaturire, quasi naturalmente, un’interpretazione dalla descrizione precisa e vivida, portando lo spettatore, con discrezione, nella temperatura emotiva della performance e nella complessità estetica di un sistema di rappresentazione dove le immagini creano “un universo metamorfico, irriducibile a un’unica dimensione o a un unico pensiero”[178].
Franco Cordelli sul “Corriere della Sera” attacca con il solito stile per soggettive. Sembra di vederlo sulla sedia, alle prese con il lavoro di “interpretazione”, o forse, meglio, con le proprie reazioni alla visione e al progetto:
Romeo Castellucci, regista della Socìetas Raffaello Sanzio, spiega che il titolo del suo nuovo spettacolo a episodi proviene dalla microbiologia. Personalmente, dopo qualche esercizio, imparo a dire Tragedia endogonidia, ma la mia preoccupazione è per quando detterò questa cronaca: dovrò fare lo spelling. Poi un’altra piccola preoccupazione: dove cade l’accento sulla penultima o sulla terzultima sillaba? Sono le stranezze, chiamiamole così, di questo prestigioso gruppo di Cesena. E, in fondo, le stranezze non sono così strane: di un’attività che sfiora il quarto di secolo, nel titolo c’è già la poetica, fondata in massima parte sulla sorprese.
Così profonda è la volontà di stupire che Castellucci, nelle interviste, è stato attento a non anticipare un granché. Non ha detto nulla di quanto avremmo visto, ha solo precisato che, se la tragedia è il luogo del conflitto, “endogonidia” indica l’organismo monocellulare, nel quale convivono maschio e femmina: un titolo che annuncia la contraddizione e, nello stesso tempo, la annulla – proprio quanto accade nello spettacolo[179].
L’inizio è, come sempre, sorprendente: sembra divagare e arriva la zampata. Sta introducendo lo spettatore alle immagini dello spettacolo e alle sue personali deduzioni. Che confermeranno l’idea suscitata dall’“attacco”: una distanza ironica, in certi casi infastidita. Ma è opportuno riportarlo tutto, con la secca descrizione che dà al lettore la materia dello spettacolo (il progetto è riferito per cenni rapidi in quell’attacco, senza riferimenti di sorta a tappe precedenti):
Siamo accolti da una scimmia: essa comodamente si aggira in una bianca stanza vuota. Sbuccia una banana e la mangia, si copre con un candido telo, fa qualche smorfia. Quando se ne va, infine parla: utilizzando la scrittura a rullo degli arrivi e delle partenze, mentre sale il rombo di un aereo o di chissà che, dice d’essere felice. Poi, la voce viene meno, come se a poco a poco si perdesse energia. Sono in tutto dodici minuti di puro Kubrick (inizio e fine di Odissea nello spazio).
Gli altri cinquantacinque sono dedicati a Fellini o alla Romagna natia. Tre giovani preti giocano a basket. Sono del tutto stupidi o del tutto incapaci. Entra in scena un panzone, in accappatoio di spugna bianca. Noi abbiamo già capito che è Mussolini. Colui si rovescia il cappuccio e ne vediamo la pelata. Ma quando si toglie il soprabito, sul bianco vestito c’è al braccio una fascia che fa pensare al Papa sulla neve. Una donna grassa e nuda entra in scena spingendo il carrello della spesa.
E quando irrompe un Arlecchino che vampirizza il panzone, l’allegoria infine è chiara: il Potere rompe le scatole, ma il teatro (ora non più bianco, stanno cadendo le quinte) ne succhia il sangue, se ne alimenta. Dopo tutto gli opposti convivono. C’è tragedia e c’è il suo contrario. Nel finale, l’Arlecchino si trasforma in un Pierrot armato di fucile ma una voce gli intima, dall’alto, di non guardare. Di chi è quella voce? Chi è che non deve guardare: lui o noi spettatori? Si tratta, insomma, di uno spettacolo che al di là del suo arbitrio programmatico, esibisce una troppo elementare produzione di senso. Uno spettacolo molto studiato, molto chic, molto tutto (il post umano ricade all’indietro, fino ai ricordi – dalla Romagna di Castellucci, di Fellini, di Mussolini, della Saraghina alla Chianciano di Otto e mezzo) e che tuttavia mostra esaurita una fase del teatro immagine: ridotto a una nuova accademia, a quella decorazione che lo stesso Castellucci denuncia come male del teatro italiano[180].
A questo punto è evidente la sensazione denunciata prima: Cordelli, dopo aver stigmatizzato l’assenza di informazioni preventive sullo spettacolo[181], si lagna della troppo elementare produzione di senso della tappa romana della Tragedia Endogonidia per liquidare un teatro, riassunto frettolosamente sotto l’etichetta vetusta di “teatro immagine”[182], amato e frequentato in passato e ripudiato, forse proprio perché “già visto”, già vissuto. Ma la stessa descrizione appare frettolosa e imprecisa: cogliamo, sì, il critico in poltrona mentre guarda, ma lo scopriamo soprattutto pieno di pregiudizi che orientano (e condizionano) la visione.
La recensione rimane in limiti a volte troppo stretti: convulso stipare materiali lottando contro lo spazio, luogo per liquidare più che per comprendere. Ma resta, nonostante questo, anche, ancora, uno strumento per cercare di capire. Si legga il finale dell’articolo di Manzella, come esempio:
La Commedia dell’arte come costante (e collante) del costume nazionale? O la permanenza dell’alterità dell’attore, in questo suo camaleontico mutar pelle? Certo lì intorno ruota questa tappa della Tragedia Endogonidia, allargando l’originaria riflessione sull’impossibilità della tragedia nel mondo contemporaneo. E il finale non lascia scampo.
Il palco viene squarciato da colpi provenienti dal basso, come se dalla pancia del teatro dovesse emergere a forza un mostruoso Alien. Ne viene fuori invece Arlecchino, armato di fucile. L’ultima metamorfosi è togliersi quel costume colorato, per rivelare al disotto un altro costume arlecchinesco ma a losanghe in bianco e nero, come la figura dipinta lassù in alto, sul cielo del teatro Valle. A cui idealmente si ricongiunge. “Non guardare, non devi guardarmi” urla la voce rabbiosa di prima, mentre violenti lampi di luce saettano nel buio. E questa volta ne siamo sicuri, è a noi che si rivolge[183].
Oltre alle domande sul progetto complessivo, il modo di guardare le immagini, la materia dello spettacolo, di raccontarla, fa la differenza.
6.4. Il critico come saggista
Ci sono critici che riescono a farci vedere lo spettacolo in trasparenza, mostrandoci la grana del lavoro pur trattando poco o nulla il processo. Ce ne sono altri che hanno scelto di impegnarsi in modi diversi di fare informazione: si costruiscono da sé i propri “giornali” (possono essere radio, siti internet o altro, è opportuno ricordarlo sempre), per far spaziare lo sguardo e interrogare a fondo lo spettacolo e gli artisti.
Il critico scrittore, il critico saggista è quello che ci fa guardare sotto, dentro, oltre. Che non si limita a registrare, ad accettare o a rifiutare.
Un primo esempio che portiamo di critico “saggista” è quello di Oliviero Ponte Di Pino. Abbiamo già accennato al suo sito e al giornale elettronico che vi pubblica ogni due settimane. Ai dubbi sull’attuale modo di fare informazione e alle limitazioni poste dai quotidiani Ponte di Pino ha risposto inventando uno spazio in cui poter dispiegare lo sguardo, non solo il proprio ma anche quello di altri, di un gruppo di riflessione e di lavoro.
La sua analisi della Tragedia Endogonidia, per continuare con l’esempio che abbiamo seguito, è ampia, basata sull’osservazione e la contestualizzazione, con l’uso di diversi materiali della compagnia. Sul numero 60 di “ateatro” è accompagnata da una recensione del libro Epitaph[184], un viaggio fotografico nel teatro della Raffaello Sanzio, e da un intervento su un recente volume dedicato all’altra compagnia storica della ricerca cesenate, il Teatro Valdoca[185]. Ricostruisce non solo uno spettacolo e le sue ragioni, ma un contesto più ampio, facendo non più informazione ma “cultura teatrale”. E’ un modo di procedere da rivista, con la velocità e la flessibilità dell’ambiente elettronico. Ecco l’inizio:
Con l’ambizioso ciclo della Tragedia Endogonidia […] la Socìetas Raffaello Sanzio prosegue con coerenza il proprio cammino, continuando a lavorare metodicamente alla realizzazione del proprio teatro della crudeltà. Ovvero della personale pratica delle intuizioni e visioni di Antonin Artaud condotta da Romeo Castellucci & soci: un teatro dove il segno-gesto teatrale possa recuperare – prima ancora che un senso – la propria potenza destabilizzante, numinosa, là dove il linguaggio non si è ancora strutturato e codificato.
E’ un cammino che sospinge verso il mito e ancora di più il rito. Verso il pre-umano e l’animale (e infatti ecco regolarmente in scena, anche in questo ciclo un capro, come nella tappa inaugurale a Cesena, e una scimmia, come a Roma, dove uno scimpanzé abita a lungo una candida scena, dietro una vetrata geometricamente scandita). E sospinge verso il corpo, il dato elementare della fisicità (fino addirittura al DNA…). Verso l’inorganico e la morte, in un teatro vitalissimo. Al tempo stesso, questa tensione verso l’origine implica spesso un gesto di destabilizzazione nei confronti dei linguaggi già codificati, dei miti condivisi, dei luoghi comuni della comunicazione: di qui la necessità di oltraggi, provocazioni, trasgressioni…
Dopo la dissezione e destrutturazione del mito operata negli ultimi spettacoli, il ciclo della Tragedia Endogonidia costituisce una ulteriore fase di lavoro per il gruppo cesenate. Questa volta si tratta di far germogliare il segno dal confronto con la realtà, ma anche dalla frizione con la storia e con l’attualità politica. Ovviamente con lo stile, i punti di riferimento, il patrimonio accumulato dalla Socìetas in decenni di lavoro.
Dunque, in primo luogo, un estetismo raffinato e perturbante, che opera per sottrazioni progressive e formalizzazioni radicali, per opposizioni binarie. Il “prima”, l’origine a cui tende asintoticamente la Raffaello è al tempo stesso un “dopo”: dopo il disastro, dopo una catastrofe reale che è al tempo stesso un collasso del sistema di segni di cui è fatto il mondo.
In secondo luogo, ritorna tutta una costellazione di oggetti, gesti e relazioni, oltre che di riferimenti (per esempio a Lynch e, nella prima scena, al Kubrick di 2001 Odissea nello spazio), e un costante slittamento verso una dimensione onirica, riprendendo la logica freudiana di associazioni, derive e inversioni di segni[186].
Dopo la descrizione dello spettacolo, che tralasciamo, l’analisi prova a penetrare il progetto, introducendo ulteriori dati eelementi di confronto e dati e aprendo qualche problema:
[…] sono segni che cercano di evitare ogni facile decifrazione, per incidersi in una zona dell’Io ancora vergine, aperta a nuove sensazioni e associazioni. Tuttavia quella di Romeo Castellucci, che da sempre fa “teatro contro il teatro”, pare una fatica di Sisifo: la crudeltà artaudiana, che si rivela ogni volta – più che in un segno – in un gesto, in un’azione, diventa tuttavia immediatamente e inevitabilmente interpretabile, inscritta com’è nella forma del testo-spettacolo, e dunque in una logica e in una sintassi.
La Tragedia Endogonidia cerca di sfuggire a questa morsa praticando un nomadismo dei luoghi, che arricchisce ogni volta il repertorio di riferimenti e provocazioni (in un ambito assai diverso, è la stessa strada imboccata da Pina Bausch nelle produzioni ospitate dalle diverse città che producono i suoi lavori). Questa apertura al reale viene però compensata da quello che Castellucci definisce “isolamento”: la creazione di un sistema chiuso e autoreferenziale (l’aspetto “endogonico”), di uno spazio finito come un mazzo di tarocchi, in cui alcuni segni e meccanismi (la deriva verso altri mondi, l’anonimia, la maschera, l’alfabeto, la legge, il bersaglio, la cronaca nera, la città, in un elenco prodotto dallo stesso gruppo, ma ce ne sono ovviamente altri), tornano e si fecondano tra loro: una sorta di camera iperbarica che porta a conflagrazioni, dissociazioni… E’ nell’equilibrio tra l’indispensabile contaminazione con il mondo (altrimenti l’intero sistema si riduce a esaurire le diverse possibilità combinatorie di un numero finito di elementi) e la coerenza poetica del sistema che si verificherà la tenuta dell’intero progetto. […]
E la tragedia? Fin dall’inizio, con lucidità, Romeo Castellucci si arrende all’impossibilità della tragedia.
“La nostra epoca e le nostre vite sono definitivamente fuori da ogni concezione tragica. Redenzione, pathos e ethos sono parole irraggiungibili, cadute nella più fredda delle astrazioni. Occorre avere il coraggio di guardare il vero volto della tragedia. Perché non so ancora cos’è”.
Per recuperare il senso della tragedia, rifiuta l’aspetto più direttamente civile e politico: “La tragedia non crea un modello estetico, in cui la polis si riconosce e che illustra il pensiero e i timori di un’epoca. Non è una riflessione sul mondo o l’espressione di una visione del mondo, ma un interrogativo vitale sulla possibilità dell’azione, sulla natura stessa dell’agire (…) La tragedia non è quindi testimonianza, ma epifania: non è riflesso della realtà, ma contestazione profonda della realtà, attraverso la creazione della coscienza tragica. Essa nasce dal conflitto. Essa è conflitto per affermare la legge del possibile, sempre pragmatica”.
Coerentemente, viene data per scontata l’assenza di una comunità (di una polis) a cui far riferimento; e viene esclusa da questa nuova forma di tragedia il Coro, visto come istanza razionalizzatrice, portatrice della possibilità e necessità dell’interpretazione all’interno dello stesso evento teatrale. Viene dunque enfatizzato, della tragedia antica, l’aspetto misterico, pre-verbale, rituale, pur sapendo benissimo che il recupero di quella dimensione è un obiettivo irraggiungibile per noi moderni – anche se forse per i post-moderni la situazione potrebbe essere diversa…
Tuttavia, se la tragedia nasce dal mito e dal rito, essa ha preso forma anche e soprattutto nel rapporto paradossale tra la necessità (il destino) e la libertà (la possibilità dell’individuo di scegliere tra bene e male). L’azione tragica non si contrappone solo e tanto all’impossibilità di agire, magistralmente portata sulla scena proprio dall’Amleto autistico della Socìetas. Si contrappone piuttosto a un agire “eterodeterminato”: determinato dalle leggi della natura, dell’istinto, del corpo, della società – o magari divine. Mentre le abbaglianti e affascinanti figure e icone della Socìetas Raffaello Sanzio non paiono mai godere del libero arbitrio (che sta tutto, se ancora è praticabile, nella mente del demiurgo-creatore). La tragedia “raffaellesca”, considerata emanazione (e forse degradazione) del mito e del rito, rifiuta invece la dimensione dell’individualismo, quello slittamento che dal rito e dall’epica apre agli abissi tragici – con le loro implicazioni morali e (di degradazione in degradazione, si potrebbe obiettare) psicologiche. Ma in questa Tragedia Endogonidia il limite tra l’etico e l’estetico resta invalicabile, coerentemente con la visione e la pratica teatrali di un gruppo che ha costruito alcuni tra gli spettacoli più belli e significativi di questi decenni[187].
Questo articolo prova a indagare le ragioni di un lavoro, le questioni che pone, non solo a raccontare una serata. Risponde, in modo fluido e certamente non classificatorio, a molte delle esigenze conoscitive che anche il nostro schema individua[188].
Nelle riviste è possibile ritrovare sguardi approfonditi, che da questioni di attualità teatrale sono in grado di ricostruire un ambiente, di enucleare problemi dell’arte e della società. Si vedano per esempio i saggi d’occasione e d’intervento di uno storico del teatro come Ferdinando Taviani, riuniti in volume come “polemiche teatrali”[189]. Ma, naturalmente, anche la scrittura di certi critici (lo abbiamo già segnalato) ha un passo accurato, capace di condurre dentro gli avvenimenti del teatro e le questioni che suscitano: soprattutto in passato, quando la recensione era più vicina all’articolo di terza pagina[190], quindi con un respiro maggiore. Si possono leggere, a tal proposito, varie raccolte di scritti. Molte sono quelle interessanti, pungenti, capaci di aprire ampi orizzonti. Fra le altre consigliamo quelle di Alberto Arbasino, Nicola Chiaromonte, Roberto De Monticelli, Gerardo Guerrieri, Italo Moscati, Angelo Maria Ripellino, Alberto Savinio[191]. Segnaliamo anche altri tipi di libri dove il critico, partendo dalla sua quotidiana esperienza di osservazione, amplia la cronaca alla dimensione di veri e propri studi su un periodo, un fenomeno, un artista: per esempio, La scena del dispiacere di Sergio Colomba[192], sul delicato passaggio tra gli anni settanta e gli anni ottanta, fra rinnovamento e restaurazione, burocratizzazione e nuove istanze, o Parola di teatro di Odoardo Bertani [193], su diversi momenti e problemi del teatro.
6.5. Lo spettatore addormentato
Altri sguardi che scavano dentro certi spettacoli fino alla radice delle loro ragioni, arrivando a coglierne l’importanza in un determinato momento, per una certa società, sono quelli di “dilettanti” della critica teatrale, di scrittori che si ritrovano titolari della rubrica di recensioni per le loro capacità letterarie, o proprio perché i direttori dei giornali provano a introdurre uno sguardo non specialistico e non prevedibile.
Si definiva “spettatore addormentato” Ennio Flaiano, che ebbe a difendere non solo la visione attenta e scaltrita, ma anche quello stato liminare vicino al sonno cui il teatro, con il suo buio, con il suo ripetersi, certe volte induce. Uno spettatore difficile da conquistare, capace di mettere in moto sensi e “visioni” sorprendenti. Con le antenne ben ritte nella sua apparente distrazione, nel torpore dichiarato con civetteria, pronto a tranciare vizi teatrali e a ricondurli al malcostume sociale. Come fa, per esempio, in un articolo che discute l’inchiesta di “Sipario” sulla frattura fra gli intellettuali (gli scrittori in particolare) e la scena. Dopo aver considerato le risposte al questionario di autori quali Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Gabriele Baldini, Natalia Ginzburg e aver avanzato alcune considerazioni sulla nostra lingua teatrale e sull’assenza di una originale drammaturgia nel dopoguerra, arriva alla fulminante, profetica conclusione:
[…] Tutto è sapere che cosa pensa, che cosa vuole oggi la nostra società. Se non vuol nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa libertà, una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio; cioè di un teatro? Che cosa deve raccontarsi, che non possa farlo con l’italiano scritto, medio, coi suoi romanzi, coi suoi elzeviri, con le sue inchieste[194]? Il teatro non è soltanto rappresentazione della realtà, ma anche trasfigurazione della realtà, è protesta, un modo di essere presenti, un modo di spiegarsi il proprio tempo, o alla peggio di negarlo[195].
Flaiano è uno dei primi a guardare, descrivere, analizzare, capire il teatro di Carmelo Bene:
Come potremmo definire Carmelo Bene? Un regista con i piedi fermamente poggiati sulle nuvole? Se non si ammira Jarry (o piuttosto la sua rablesiana spietatezza), se non si ama Laforgue (o almeno la sua poetica demistificazione delle leggende letterarie, Amleto, Salomè, Andromeda, eccetera), se non si pensa che il teatro debba essere anche una dichiarazione di follia, inutile andare a vedere il suo spettacolo al teatro delle Muse. Stavolta, ha messo in scena appunto Salomè. Si tratta naturalmente della Salomè di Oscar Wilde, anzi “di e da Oscar Wilde”. In realtà Carmelo Bene ha tirato le sontuose coperte della tragedia dalla sua parte e ci ha dato piuttosto un Erode Antipata “con Salomè schiava d’amore”. Ma non importa. Contaminazione, chiarificazione, massacro di un testo celebre? Un po’ di tutto questo. Comunque Salomè è uno spettacolo che non lascia indifferenti. Ci ha persino svegliati. Nel breve giro di due ore siamo passati dall’ammirazione al sospetto, dalla sorpresa più eccitante al fondo del dubbio.
“Di e da” Oscar Wilde. Che cosa resta valido, per Carmelo Bene, di questo testo mirabile, di questa tragedia da camera così insolente, di quest’opera con la quale Wilde porta l’estetica di Flaubert alle estreme conseguenze e scatena l’imitazione dannunziana? Resta il dramma di Erode. Gli altri drammi sono tutti manomessi e sottosopra. Quell’abile divergenza di passioni, per cui ogni personaggio sembra isolato e cova la sua tragedia fissando un suo particolare traguardo erotico, è scomposto. Se c’è un’immagine che la tragedia di Wilde, così ridotta, suggerisce alla fine, è quella di una stanza dove siano passati dei ladri “arrabbiati” e non privi di talento[196].
Nel 1964 Flaiano fiuta il genio di Bene e coglie modalità abbastanza inusuali di lavorare su un classico, sottolineando quel “di e da Oscar Wilde”. Precisa l’operazione drammaturgica, dopo aver inserito il testo originale nella sua tradizione e aver trovato ascendenti all’attore-drammaturgo (attore-autore verrà chiamato più avanti). Quindi passa a descrivere lo spettacolo con gran dovizia di particolari, ricreando abilmente le immagini di quella “stanza dove siano passati i ladri” come “una specie di cocktail party o di partouze”[197], sottolineando i “colori” e l’abbigliamento pop dell’allestimento, ben caratterizzando i personaggi, conducendoci nell’azione per poi farci ritrarre a guardarla con opportuni riferimenti, brucianti pensieri o commenti. Citiamo almeno la fine del brano, che invitiamo a leggere integralmente. Arriva dopo circa tre fitte pagine di intuizioni smaglianti buttate là come per caso, con una rara capacità di “portare dentro”, di “far vedere”, di rovesciare, rovistare, collegare per sintesi brucianti:
[…]Insomma, una Salomè pestata, che vive in una dimensione diversa da quella immaginata dall’autore, come se il testo gli attori se lo fossero tramandato oralmente, corrompendolo fino a perderne il significato[198]. […]
Quanto al pubblico… be’ al pubblico, desideroso di istruirsi divertendosi, a questo nostro pubblico che ama tenersi al sodo e detesta la follia, una Salomè così conciata può fare l’effetto di uno scherzo insolente. Ma non è uno scherzo. Per intenderci meglio: detesto chi fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate[199].
Qualche tempo dopo torna sull’argomento e risponde alle critiche mossegli dai perbenisti, scandalizzati da quell’articolo, dal fatto che un critico potesse prendere sul serio le provocazioni di un “ragazzaccio” come Bene:
Io ho tentato di darmi una spiegazione critica dello spettacolo, senza abbandonarmi alle lusinghe della cronaca e senza offendere gli attori. Ora, più vado avanti con gli anni e più mi convinco che la colpa maggiore è di non condividere lo sdegno che fa più comodo ai direttori generali dell’intelligenza. Il bello è che fra questi direttori ci sono anche persone che si ritengono moderne, spregiudicate e informate, e che io supponevo perlomeno incuriosite dai tentativi di un gruppo di attori senza ingaggio, ma non sprovveduti di letture né di una certa fede nel loro lavoro. No, rifiuto quasi totale, si addita anzi lo “sconcio” all’opinione pubblica (o bei tempi del Minculpop!) e si attendono forse provvedimenti (e questi forse verranno)[200].
L’abitudine di linciare, in modo più o meno violento, le nuove esperienze e di sconfessare chi è in grado di riconoscerle non si perderà negli anni successivi. Il nuovo non si deve vedere. Lo spettatore risvegliato, o addormentato in quell’altro senso tutto flaianeo, con i sensi più acuti, fa sempre paura:
Chi una sola volta si è appisolato a un concerto, o alla rappresentazione di un melodramma, o anche a un’opera drammatica, sa che nel momento del passaggio dallo stato di veglia al sonno, in questo punto detto la soglia, la rappresentazione o la melodia o il dialogo si liberano da ogni scoria, diventano liquidi, celestiali. I sensi fatti più acuti colgono ogni più lieve sfumatura dell’orchestra, del canto, della voce dell’attore, e li ricevono come un indimenticabile e personale messaggio. Quante volte in quegli istanti lo spettatore non ha creduto di capire tutto, anzi di intuire? E’ in quegli istanti che abbiamo lo spettatore perfetto, unico, ideale. Il problema consisterebbe a mio avviso nel mantenerlo in quello stato per tutta la durata dello spettacolo: problema difficile poiché in genere lo spettatore scivola verso il sonno profondo o viene svegliato dal suo stesso ronfare o dagli applausi. E il senso di colpa che subito lo afferra lo spinge a rifiutare quel molto che il dormiveglia gli ha comunicato di vero, di definitivo, di libero[201].
6.6. Il laboratorio: esercizi di approfondimento
Confrontare le proprie osservazioni e le proprie recensioni con lo schema proposto.
Stilare resoconti di uno o più spettacoli, di natura diversa, utilizzando lo schema.
Provare a scindere un’opera teatrale nelle sue componenti e, seguendo il filo di alcune di esse, elaborare un articolo (esempi: scrivere un pezzo a partire dalla scenografia e su essa incentrato, sulla musica, sulle luci eccetera).
Cercare di interpretare, variare, tradire lo schema per simulare articoli di trenta-sessanta-novanta righe.
Confrontare il modo di trattare uno stesso spettacolo usato da riviste specializzate militanti, riviste con un taglio più di studio o storico, siti internet.
Leggere le raccolte di recensioni e saggi d’intervento citate nel capitolo.
Individuare diversi formati di scrittura di ampio respiro: l’intervista molto lunga, l’inchiesta, lo studio di uno spettacolo, di un progetto, la corrispondenza che racconta un festival, la discussione di un avvenimento, di un fenomeno, di un movimento eccetera.
Di quali strumenti di informazione e analisi bisogna disporre per approfondire un argomento?
Scrivere un articolo di lunghezza compresa fra le diecimila e le quarantamila battute.
- Il piacere e il rischio della scrittura
7.1. Portare il lettore dentro l’evento
Finora abbiamo guardato. Sprofondati nella poltrona o ritti su scomode panche, seguendo uno spettacolo per le strade di un antico borgo o sotto le fredde arcate di capannoni industriali ridotti ormai a reperti archeologici. Abbiamo vergato sul nostro taccuino, magari al buio, mentre osservavamo, segni frettolosi e quasi illeggibili, che poi dovremo interpretare per ricollocare le immagini, per interrogarle ulteriormente. Oppure ci siamo fidati solo dello sguardo, vigile, stupito, annoiato, abbandonato. Forse ci siamo lasciati andare a quel dormiveglia che trasforma i segni in sogni, in visioni, rivelando qualcosa di più dello spettacolo o facendoci smarrire per sentieri nostri, lontano da ciò che avviene sulla scena (capita anche questo).
Abbiamo indagato anche nel retroscena, prima dello spettacolo, leggendo il testo, interrogando gli artisti, cercando di penetrarne il lavoro e le motivazioni, in qualche caso seguendo il processo delle prove. Abbiamo interrogato i protagonisti dopo aver assistito alla recita, abbiamo provato a chiarire insieme passaggi che ci erano sembrati dubbi, abbiamo discusso con loro e con altri il lavoro. Abbiamo cercato di dare un contesto all’opera e, parallelamente, di mettere da parte tutte le informazioni per incontrare direttamente lo spettacolo, con una parte di noi che nell’abbandono continuava a tenere ben sveglie le proprie facoltà, la memoria, la capacità di instaurare confronti, di analizzare elementi, di tessere fili.
La fatica dello sguardo è simile a quella dell’attore, che insieme si trasforma nel personaggio e se ne distanzia per poterlo interpretare. L’attività critica ci appare speculare al doppio passo dell’interprete raccontato da Diderot nel Paradoxe sur le comédien[202].
Ma il critico non si limita a guardare. Ogni tipo di osservazione deve trasformarsi in scrittura. E questo momento è delicato: è quello dove la visione personale diventa transitiva, cerca di far vedere ad altri, di costruire un mondo, di consegnare al lettore elementi che gli permettano di figurarsi lo spettacolo, per condurlo vicino all’opera, per fornirgli elementi per un suo giudizio.
Tanti sono i tipi di scrittura, moltissime sono le vie per rendere conto di uno spettacolo, perlomeno tanto numerose quanto quelle per guardare. Prima di tutto c’è lo stile di chi scrive; poi l’esperienza, la capacità di far vedere la materia di cui è fatto un lavoro e di arrivare al suo cuore, per portarvi vicino lo spettatore. Bisogna sintetizzare (senza semplificare), con la consapevolezza che non riusciremo mai a restituire tutto quello che abbiamo osservato, e qualche volta neppure ciò che crediamo più importante. Sul nostro modo di scrivere influiranno, necessariamente, molti elementi: il tipo di spettacolo, lo spazio a nostra disposizione, le caratteristiche della testata o del mezzo di comunicazione con cui collaboriamo, le nostre capacità e il nostro potere contrattuale.
Ancora, possono incidere su quello che scriveremo le nostre prevenzioni o i nostri punti di vista. L’affezione per un determinato autore ci farà indignare per un allestimento diverso da come l’avevamo immaginato nel nostro privato teatrino mentale; la stima per il lavoro di alcuni artisti ci farà essere, nei loro confronti, più accondiscendenti che con altri. Torna, da un differente punto di vista, la domanda già formulata altrove: il critico deve essere oggettivo o soggettivo? Ma ancora più a fondo, quale deve essere l’etica del critico, o perlomeno il suo codice di comportamento? Deve sparare a zero o deve svolgere una critica costruttiva? Ma la critica costruttiva non sarà troppo compiacente verso un sistema, quello ufficiale o anche quello alternativo, a seconda dello schieramento? D’Amico scriveva:
Critica patriottica[203], critica costruttiva, critica collaboratrice: benissimo: ma qual è, per il critico, il modo di servire il proprio paese e di collaborare a un’arte nuova, se non sceverando il buono dal mediocre o dal pessimo, combattendo il cattivo gusto, e favorendo le effettive conquiste nuove?[204]
Torna qui la critica come giudizio, ma anche il suggerimento che dovere del critico sia segnalare “le effettive conquiste nuove”. Deve anche essere capace, chi osserva e descrive, di guardare e far vedere i fenomeni allo stato nascente, tutto ciò che ancora non è diventato conquista. Ma stiamo deviando verso la morale e il senso della critica. Un argomento strettamente connesso al come raccontare: la scrittura non è mai neutra, l’oggettività non esiste in assoluto, è comunque una scelta di campo, certe volte dichiarata, certe altre di apparente equidistanza, certe altre ancora un cercare di far parlare i materiali, o un occultare la posizione di chi scrive.
7.2. Questioni di stile
Una recensione non è un pezzo di cronaca nera o politica. Ma non si tratta neanche di un brano letterario. Anche quando invochiamo lo sguardo capace di superare schemi e certezze, stiamo considerando un ambito giornalistico, dove i condizionamenti o le libertà si sviluppano comunque all’interno di un sistema di usanze consolidate, presentate come “regole” generali. In un agile manuale, scritto qualche anno fa da Nadia Tarantini, una giornalista che ha lavorato in diversi servizi dell’“Unità”, troviamo questa notazione su come scrivere per un quotidiano:
Lo stile che sceglierei per scrivere le vostre notizie, articoli, commenti e interviste, sarà il risultato della mediazione fra molti, diversi elementi:
- l’argomento
- il contesto
- i gusti del vostro capo-servizio, capo-redattore, direttore
- le vostre aspettative[205].
In ogni caso, tenendo conto delle accidentalità che caratterizzano il lavoro di chi collabora con un mezzo di informazione e deve misurarsi con una redazione, il critico deve cercare di sviluppare un particolare impegno nella scrittura. Attraverso il suo resoconto rivivrà lo spettacolo, con il suo ampio respiro o come schizzo, come successione di immagini e materiali o come racconto; rivedremo i protagonisti, entreremo nei problemi. Compito del critico è di ricostruire un’atmosfera, portando lo spettatore al suo fianco, o forse dentro i suoi stessi occhi, nel momento dell’atto vivo, là in platea o per strada o in ogni altra dislocazione che l’artista abbia previsto per chi guarda. Può eleggersi, il critico, a spettatore ideale, a rappresentante di un uditorio, ma forse è meglio che dichiari la relatività del suo sguardo, la sua singolarità di spettatore, cosicché chi legge sia sempre cosciente del fatto che si sta confrontando con una visione precisa, con un punto di vista determinato.
Descrivere è, a mio avviso, fondamentale: far vedere, far intuire la trama delle azioni e delle immagini, in certi casi più importanti delle parole; ricreare per poi smontare, per portare, attraverso materiali, connessioni di rapporti, pensieri, considerazioni, nelle ferite dell’opera, quelle che apre verso l’esterno, nel mondo che la circonda, o fino a ciò che sta racchiuso in essa, per aprire una porta verso una visione singolare, un tema sociale, un problema, una riflessione sul modo di rappresentare una realtà ambigua, sfuggente, o di creare un universo autonomo, quello stesso dell’opera d’arte, più reale delle apparenze spacciate dalla società dello spettacolo come l’esistente, nei flussi delle informazioni e delle merci, fin dentro noi stessi.
La scrittura è un passaggio delicato, che arriva vicino allo stile e alla sensibilità di ognuno. Su questa attività non si possono fornire precetti, ma solo suggerire consigli, basati sull’esperienza personale.
Il compito della scrittura è “far vedere”: e per tenergli fede non è sufficiente una descrizione piatta, bisogna essere in grado di stabilire nessi, di innescare cortocircuiti.
Lo stile: non deve essere letterario, ma deve guardare alla buona letteratura; deve sedurre senza tradire, deve far abbandonare senza sviare. Non è necessario dimostrare tutto quello che si sa e neppure aver fretta di dichiarare la propria opinione, il proprio giudizio. Non bisogna raccontare una bella storiella e neppure infarcire di notizie su tutto quello che sta intorno all’opera. Si deve trovare un equilibrio fra i diversi materiali che più volte abbiamo citato. E’ opportuno evitare le frasi fatte (com’è l’applauso? caloroso; l’attore di contorno? puntuale, eccetera, quasi come scrivere “efferato delitto” o “sordido figuro”: troppo facile). E’ consigliabile rifuggire la copiatura dei comunicati stampa o delle note di sala senza esplicita citazione, come scorciatoia per risparmiare tempo e impegno. Non guasta diffidare dei generi stessi della critica, la stroncatura, il pezzo di colore, la cronaca sapiente, quella brillante o entusiastica o sbrigativa per assenza di spazio. Il lettore deve entrare completamente nell’emozione dello spettacolo e avere, contemporaneamente, i mezzi per valutarlo.
La recensione può partire forte, o dolce, ironica, esplicativa; comunque deve catturare il lettore, mostrargli una strada, suggerirgli subito un pensiero che porti verso il cuore dell’opera, tenerlo avvinto sino alla fine nutrendone le domande, costruendo gli elementi per il suo giudizio. E’ una sfida complessa, per la quale ogni precettistica e definizione risultano riduttive. Non rimane allora che provare: a guardare interrogando l’opera, a lasciar decantare la visione, ad approfondire, rielaborare e poi scrivere, cercando la forma che renda il merito dovuto a quello che si è osservato.
Mentre scriviamo, ci accorgeremo che la materia certe volte ci impone il suo ritmo. Siamo stati per più di venti minuti davanti al foglio o allo schermo bianco, abbiamo gironzolato fra appunti, materiali, ricordi, ci siamo alzati dalla scrivania, abbiamo fatto qualcosa d’altro, siamo usciti. Poi eccolo, l’“attacco”, chiaro, soddisfacente, e il pezzo che succede come se si generasse per necessità. Ci fermiamo. Lo rileggiamo. Abbiamo tralasciato molto: se lo confrontiamo con le domande dello schema del capitolo precedente, o anche solo con l’articolazione dei punti della scaletta preventiva che avremo stilato, può venirci lo sconforto. Ma funziona. Ha una sua capacità di ritrarre l’oggetto. Ora è il momento di abbandonarlo, di farlo decantare, di allontanare da noi il compiacimento. Dopo torneremo a interrogarlo, forse lo faremo leggere a qualcuno per un consiglio, o saremo noi a scoprirne i difetti, le mancanze, ad allargare certi passaggi, a sintetizzare, chiarire, smontare e rimontare.
Nella cura della scrittura è il segreto del critico: non per cercare la bella forma fine a se stessa, ma per rendere più efficace il dialogo con l’opera, con l’artista, con i problemi che pongono alla nostra comunità più o meno disgregata e alla nostra coscienza. Lo scrivere deve essere accurato perlomeno come il guardare: lo stile non potrà essere mai sciatto, affrettato, anche quando i limiti di tempo sono tassativi, mai volutamente oscuro, eccessivamente specialistico o allusivo, mai compiacente o compiaciuto. Scrivere vuol dire guardare, scavare, confrontare, cercare possibilità, riscrivere dieci, venti volte, ancora riscrivere. In questi passaggi delicatissimi si giocano la consistenza del critico e il rapporto con il suo pubblico.
7.3. Il critico e il suo pubblico
Siamo partiti dalla consapevolezza che la funzione del critico è in discussione; incerti sono i campi di azione, i contorni del mestiere e della materia, le relazioni con redazioni e lettori. Più volte ci siamo domandati per chi scrive e abbiamo risposto che non si rivolge più principalmente allo spettatore che vuole sapere se un determinato spettacolo valga il prezzo del biglietto.
Ma oggi, accanto a un teatro in mutazione, vediamo delinearsi nuovi profili di spettatori, che cercano spettacoli diversi e i mezzi, le informazioni, le chiavi per confrontarsi in modo non superficiale con opere spesso complesse. E’ il pubblico che naviga nei siti internet, che cerca libri e riviste, che leggerebbe anche i quotidiani se questi dedicassero più spazio all’approfondimento culturale.
Le compagnie teatrali, a loro volta, non usano le recensioni solo come documentazione per le domande di finanziamento: nella parola del critico cercano, spesso, un riscontro al loro lavoro. Un altro pubblico che chiede notizie più approfondite su certi artisti, su determinate esperienze o spettacoli, è quello dei laboratori teatrali: vuole capire, sapere, per scegliere cosa provare. C’è una grande provincia, che da sempre è stata in contatto con la produzione di punta, di ricerca ma non solo, attraverso le recensioni dei quotidiani: da cittadine lontane dai centri di elaborazione culturale, dove sorgono gruppi teatrali spontanei, arrivano abbonamenti alle riviste, contatti ai siti internet. C’è fame di notizie su ciò che avviene all’estero, o in luoghi piccoli, decentrati, lontani, dove si svolgono esperienze interessanti o, addirittura, di grande importanza.
Cresce una domanda variegata di approfondimento, entro la quale il critico dovrà individuare il suo pubblico, un insieme composito di appassionati, di lettori già schierati e di semplici curiosi.
Un’indagine sociologica del 1959, sviluppata da Ithiel de Sola Pool e da Irwin Shulman, parla di «persone-immagine», lettori ideali cui si riferisce il giornalista, che possono configurarsi come «compiacenti» o «critici». Avere una differente persona-immagine può influire sul modo di tarare la notizia (o anche la scrittura). Robert Darnton, ex giornalista del “New York Times”, dopo aver riportato i risultati di Pool e Shulman, così racconta il metodo di lavoro della redazione del “New York”:
[…] gli studenti che avevano come “persona-immagine” un “compiacente” riferivano le notizie buone con maggior cura di quelle cattive, mentre quelli che avevano in mente un “critico” riferivano con più attenzione le notizie cattive. […] Non abbiamo mai scritto per le “persone-immagine” evocate dalla scienza sociale. Scrivevamo l’uno per l’altro. Il nostro “gruppo di riferimento” primario, come direbbe la teoria della comunicazione, era sparso intorno a noi fra i tavoli della redazione, o “fossa dei serpenti”, come ci piaceva chiamarla. Sapevamo che nessuno si sarebbe buttato sui nostri articoli con maggior foga dei nostri colleghi, perché i giornalisti sono anche i lettori più voraci, visto che devono conquistarsi il loro grado giorno per giorno esibendosi davanti ai loro pari sulla pagina stampata[206].
A parte i toni da “struggle for life”, molto americani, è suggestiva l’idea di un lettore ideale, come anche quella di misurarsi con lettori reali, i compagni di redazione: qualcuno che non sia addentro alle cose teatrali, o che lo sia molto, oppure se stessi. Saper osservare e mettere in crisi quello che si è scritto è fondamentale per trovare una necessità, un’efficacia al proprio stile, alla propria scrittura.
Ma scrivere è non solo riferirsi a una persona-immagine. E’ soprattutto confrontarsi con lo spettacolo o con l’operazione dell’artista. “Ricreare l’atmosfera”, abbiamo scritto. E anche di più. Dare l’idea della sequenza delle azioni, del peso, della fatica, della leggerezza, delle relazioni fra diversi agenti, elementi, arti.
Per esemplificare, si può utilmente considerare l’intervista. In essa non dobbiamo cercare solo di “essere fedeli” (a cosa poi: alla lettera del discorso, con tutti gli intercalari del parlato, le divagazioni proprie della conversazione, o al pensiero dell’intervistato?). E’ opportuno provare anche a cogliere le sfumature, il non detto, il modo di parlare, che molto spesso dà informazioni supplementari, più profonde, su chi ci sta davanti, qualcosa che può meglio aiutare a capirne le idee, o a metterle in dubbio. In questo il registratore sarà fondamentale, per poter guardare negli occhi mentre si discute, per poter ascoltare e riascoltare (il taccuino, però, consente un premontaggio, annota solo i passaggi fondamentali: è, in un certo senso, l’equivalente della visione senza annotazioni: solo ciò che veramente resta è importante). La stesura finale dell’intervista dovrà sempre dare il respiro di un incontro diretto, di un faccia a faccia in un determinato momento, evitando di costruire un “monumento” ma anche, necessariamente, riscrivendo, cercando di volgere il parlato in forma scritta, sciogliendo viluppi di frasi, divagazioni, certe semplificazioni o complicazioni, certe oscurità o sottintesi, rispettando il senso senza togliere freschezza e immediatezza all’espressione, senza tradire il sapore della lingua.
Tornando al disc orso principale, un altro pubblico potenzialmente ampio della critica è quello degli studenti in genere, che in più modi vengono fatti avvicinare al teatro, e quello degli studenti dei numerosi corsi di laurea e dipartimenti dove si studia lo spettacolo in particolare. Questi costituiscono referenti con alcune competenze di base e con una gran sete di notizie sulle arti contemporanee. E’ il pubblico dei laboratori che ho condotto, al quale è il momento di lasciare la parola.
7.4. Dai laboratori: decaloghi per la scrittura
Prima di vedere come sono stati affrontati i problemi connessi alla scrittura, è opportuno descrivere l’impostazione di tali corsi, in particolare quelli che ho condotto presso il Centro Interfacoltà di Musica e Spettacolo (CIMES) dell’Università di Bologna dall’anno accademico 1998-99 all’anno accademico 2001-2002[207].
All’inizio chiedevo a ciascuno dei partecipanti di presentarsi e di spiegare le motivazioni che lo avevano portato a frequentare questo seminario pratico (provare un laboratorio fra tanti altri, cimentarsi con l’osservazione e il resoconto degli spettacoli, capire come opera la critica e come funziona il sistema dell’informazione, acquisire strumenti per guardare il teatro contemporaneo eccetera). Si iniziava, quindi, a indagare le specificità dei diversi teatri di Bologna e dintorni, raccogliendo programmi e tracciando percorsi di visione personali e collettivi. Parallelamente, si analizzavano i problemi storici e teorici della critica teatrale, si considerava l’attività dei titolari dei principali giornali, si confrontavano i modi di operare e di recensire di critici del passato e di oggi.
Dopo aver guardato gli spettacoli, gli studenti dovevano elaborare recensioni secondo formati assegnati. Ognuna di esse veniva letta pubblicamente e discussa. Nel caso non risultasse soddisfacente, si proponeva di riscriverla; molte volte si chiedeva comunque di trasformarla, cercando di rispondere a nuove condizioni (passare dal brano breve a uno più lungo e articolato, da trenta a novanta righe, o viceversa). Oppure si suggeriva di contestualizzare la propria visione con note critiche o interviste.
In certi casi si provava anche ad analizzare collettivamente uno spettacolo e le sue componenti, cercando di individuare i mezzi e i modi per ricavare il maggior numero di informazioni su di esso e sui suoi autori, i loro propositi, gli strumenti espressivi impiegati, la loro storia e attività.
A un certo punto del percorso chiedevo di riflettere sull’atto stesso dell’osservazione e su quello della scrittura elaborando un “decalogo dei compiti del critico”. In genere questo momento si situava dopo la presentazione del prontuario per l’analisi degli spettacoli riportato nel capitolo sesto di questo libro. Non tutti gli studenti eseguivano il compito; alcune delle annotazioni prodotte, inoltre, risultavano solo la trascrizione di idee discusse nelle lezioni, oppure principi di senso comune, molte volte gli stessi che bisognava smantellare andando a fondo nell’esercizio dello sguardo e della scrittura. Altre volte, invece, emergevano spunti interessanti, in molti casi ingenui, nel senso che riflettevano elaborazioni allo stato iniziale, ma anche significativi di alcuni orizzonti di attesa nei confronti del teatro. Riproduco alcuni di tali “decaloghi”[208], in realtà scritti liberi dalla forma varia:
Troppo spesso, a teatro, capita di vedere cose agghiaccianti. A volte trascorriamo l’intero spettacolo pensando a come manifestare il nostro disgusto, limitandoci per lo più a scappare pochi minuti prima della fine, sperando che gli attori siano in quel momento rivolti verso di noi. Altre volte è solo un passaggio, un tentativo di “colpo a effetto” che ci rovina l’intera messa in scena. Ora, per “colpo a effetto” intendo qualcosa che colgo come inorganico, disgregato dal resto, spesso nemmeno bello in se stesso, aggiunto allo scopo di compiacere o scioccare il pubblico, solitamente quello impellicciato delle prime file. E’ un ricorrere a espedienti facilotti che può svelare una mancanza di idee, un’immaturità estetica o, nel peggiore dei casi, un’evidente tendenza alla svendita artistica. Io credo che ogni cosa che avviene in scena, ogni elemento che vi compare, debba avere un senso rispetto al tutto, altrimenti disturba, copre, crea attriti. Beninteso, non intendo un “senso” spiegabile ovunque e per forza a parole: benché un’esegesi sia sempre possibile (basta un po’ di fantasia), le cose che a teatro più colpiscono sono spesso quelle il cui significato logico in sé non riusciamo a cogliere.
Personalmente, alla poesia preferisco la narrativa. Anche a teatro preferisco quando viene raccontata una storia. Non che ci debba sempre essere qualcuno che narra qualcosa, ma penso che il dipanarsi di una vicenda sulla scena aggiunga significato e profondità a quello che avviene durante lo spettacolo.
Il teatro mette in campo molti fattori, molti linguaggi artistici che in altri ambiti hanno vita autonoma. E’ necessario, indispensabile conoscere i meccanismi tecnici di funzionamento di questi linguaggi, stando però attenti a non incappare in ciò che ritengo un grosso nemico di tutte le forme d’arte: la masturbazione tecnica. Il tecnicismo fine a se stesso, il chiudersi nel proprio “Ah, quanto siamo bravi!”, è troppo lontano dalla comunicazione artistica che cerco in quanto fruitore, di teatro come d’altro[209].
Entriamo nel foyer e nella sala di un teatro, seguendo una giovane cronista e le domande che rivolge a se stessa:
Sentirsi spettatore è una condizione composita; spettatore è chi guarda, chi si lascia coccolare da ciò che ha di fronte, chi è incuriosito, chi ha delle aspettative, chi giudica severamente, chi sfida… spettatore è chi osserva incuriosito tutto ciò che gli accade intorno, a partire dal pubblico di cui fa parte. Nel foyer del teatro si capiscono molte cose: giovani, di mezza età, anziani, bambini, studenti… il pubblico dà un’identità allo spettacolo. E’ curioso che agli spettacoli di danza si incontrino persone dalla corporatura minuta e atletica, mentre a uno spettacolo di prosa classico le donnone in pelliccia siano tante!
La sala gremita di gente prima dello spettacolo è un piacevole intrattenimento: la curiosità si fa forte e ci si guarda intorno scrutando la faccia di chi ha fatto la nostra stessa scelta per la serata. Perché questa gente è qui in galleria, piuttosto che in platea, di che cosa parla, cosa fa nella vita, perché va a teatro, da chi è accompagnata, e se è sola, perché? Le ultime persone prendono posto in sala… si abbassano le luci (e anche il modo di abbassare le luci in teatro è indice di maggiore o minore accuratezza!), il chiacchiericcio si placa e inizia lo spettacolo. A volte questa sequenza viene violata da un attore già in scena, da un attacco a luci accese… è l’impatto, la soglia oltre la quale ci si aspetta un mondo altro di cui non si sa nulla: da qui in poi siamo nudi di fronte al mistero: unica difesa lo sguardo, che si può posare dove lo si comanda. E qui non c’è più regola che tenga… si entra nello sconfinato universo del pensiero, incontrollabile, inconoscibile, ingiustificabile. Lo spettacolo esplode in dieci cento, mille spettacoli, quanti sono gli spettatori.
Si può tentare un elenco degli elementi caratteristici di uno spettacolo, sterile e accademico, privo della magia di qualsivoglia contestualizzazione, ma utile forse come strumento[210]. […]
Un altro “decalogo” si concentra sugli elementi da guardare nello spettacolo:
– dove mi trovo io rispetto al palcoscenico (platea, palchetti, galleria, piccionaia)
– volume di voce di ogni attore (se comprendo almeno tutte le parole e il loro significato)
– abiti e oggetti di scena
– luci, colori suoni e musiche: impressione artistica nell’insieme (quadro)
– relazione degli attori tra di loro e tra gli attori e gli oggetti di scena, lo spazio
– reazioni del pubblico attorno a me (sbadigli, risate, commenti, pettegolezzi, rumori)
– se i miei battiti cardiaci aumentano o diminuiscono
– se i miei occhi non si staccano mai dalla scena, con una visione fissa a 180 gradi
– se i miei occhi fissano ipnotizzati quelli dell’attore mentre parla
– se rimango col fiato sospeso o se mi sento molto rilassata e trasportata
– se alla fine non smetto più di applaudire fino a che non mi fanno male le mani oppure aspetto lo scemare dell’applauso generale
– commenti caldi a fine spettacolo, presentazioni o recensioni scritte o parlate[211].
Sono brani molto diversi, tutto molto sentiti. Non rispondono, magari, pienamente alle consegne date, perlomeno non esauriscono (e tante volte neppure delineano) i problemi della scrittura. Si concentrano su quelli dello sguardo, con approcci, soluzioni e stili personali. Riflettere sui modi di tradurre sulla pagina un’esperienza è difficile e poco usuale[212]. Dai frammenti citati sembra emergere, soprattutto, una forte passione per il teatro, una grande attesa nei confronti di un atto, un rito che può trasportare in dimensioni diverse da quelle quotidiane. La scrittura diventa, attraverso un processo lungo e a volte difficile, interrogazione, prova, ricerca su cosa si scatena dentro chi guarda nell’incontro con l’opera e con gli artisti che la producono, la creano. Raccontare il teatro è anche vergare su un foglio qualcosa di sé.
7.5 Dai laboratori: lo spettacolo e l’artista
Nei corsi di critica, in realtà, abbiamo discusso di prontuari e modelli solo per verificarne i limiti, per avere reagenti alla pratica, materiali di osservazione, storie, tecniche sulle quali riflettere, da smontare e rimontare secondo le abilità e le propensioni individuali e, da un certo punto in poi, del gruppo che si andava formando, che raggiungeva un amalgama minore o maggiore a seconda degli anni, delle persone, degli stessi spettacoli visti e delle occasioni collaterali che ci offrivano (incontri con gli artisti, laboratori, rassegne di video eccetera)[213].
Nel 1999-2000 e nel 2000-2001 i laboratori si sono concentrati, dopo vari esperimenti e la considerazione di fenomeni diversi, nella produzione di due pubblicazioni. Nel primo caso si è trattato di un opuscolo dedicato agli spettacoli emersi dal Premio Scenario[214], con recensioni, interviste, informazioni, un vero e proprio dossier intitolato Generazione scenario[215]. L’anno successivo è stato composto il giornale elettronico Lo sguardo che racconta, dedicato all’analisi di spettacoli del nuovo teatro in scena su in alcuni spazi bolognesi. Riportiamo integralmente la recensione di Valentina Bertolino su due lavori del Teatro delle Albe, rappresentati nella stagione della Soffitta[216]:
Assi da palcoscenico, schegge di versi, cocci di personaggi e cataste di oggetti deformati dal tempo: sono gli insoliti materiali del “Cantiere Orlando”, progetto teatrale che impegna il Teatro delle Albe in assemblaggi e restauri sulle fondamenta letterarie di un ambiguo Cinquecento.
Lo smaliziato sguardo del presente ritocca l’armonioso profilo del Rinascimento alla luce degli accenti passionali dell’Ariosto e degli scarabocchi ironici di Teofilo Folengo: incontrano così la scena le voci ribelli di Alcina, ammaliante insidia per i paladini, e Baldus, dissacrante riflesso dell’ideale cavalleresco.
La prima, novella Circe, rinasce nella campagna ravennate in un passato prossimo, e, ai nostri occhi, in un “concerto per corno e voce romagnola”; una “riscrittura per lampi” ritrae invece il secondo, con un’esuberanza che si divincola da ogni prigionia temporale.
Entrambi frutto di quella “phantasia” che, oggi come allora, confina con la realtà rivelandone le zone d’ombra, sono però ridisegnati secondo sperimentazioni espressive differenti: L’isola di Alcina e il Baldussono il risultato di “movimenti” complementari di ricerca, cui corrispondono due generazioni delle Albe, multiforme compagnia romagnola che si ramifica nei percorsi individuali per poi riannodarli in un originale contesto corale.
Il “concerto” affida così la melodia alla proprietà vocale di Ermanna Montanari, un’Alcina dai toni violenti, aspri o sofferenti, che in questa Romagna al crocevia fra l’immaginario e il reale ha un duplice volto: è qui una donna coinvolta in una vicenda d’amore e abbandono, il cui nome evoca le suggestioni del fantastico ariostesco, sfumando i confini con una dimensione magica.
In una narrazione per frammenti, che ricostruisce l’emozione e non il fatto, Alcina è voce sola, e le sue invettive descrivono la dolorosa esasperazione amorosa che ella condivide con la sorella Principessa, soffocata in un folle mutismo. Il testo si nasconde in oscuri suoni dialettali, e la regia supplisce con un linguaggio parallelo di gesti e oggetti trasfigurati in simboli: un giglio, una cornice, un divano, si inseriscono in una trama di mani che si stringono spasmodiche, si irrigidiscono, si attraggono e si respingono. Sembra un’isola il palco rialzato su cui troneggia la fisicità statica delle sorelle; sono uomini e sono cani quelle creature che mugolano o latrano nella gabbia sottostante, il canile ereditato dal padre…
Se la partitura del concerto affida la melodia alla recitazione, il ritmo è scandito da scatti di luce e buio, da rumori, da note elettroniche e dal corno, che lacera lo spazio come l’emozione il personaggio.
Si percepisce la ricerca dell’orchestrazione, della compenetrazione costruttiva di elementi drammaturgici diversi secondo principi di equilibrio. Una precisione formale quasi “rinascimentale”, e dunque necessariamente minata dall’uso estremo dei mezzi espressivi: suoni acidi e fastidiosi, toni corrosivi, e il dialetto, radice maligna estirpata con cura dall’Ariosto, che con i suoi versi coltivava le prime gemme dell’italiano letterario. Quella stessa radice che, al contrario, Folengo fece attecchire alla base degli antichi pilastri del latino, per incrinare con divertito sguardo polemico gli ideali cristallizzati delle Corti: il Baldus, secondo “movimento”, compie lo stesso processo esprimendosi nella lingua viva, moderna, dei “palotini”, giovane generazione delle Albe.
In un’epica dei contrari, questo anomalo autore faceva nascere a Cipada, piccolo villaggio “oltre il Po”, un paladino dal sangue reale, di stirpe francese: ma le premesse per un aureo destino si scontrano con la vocazione godereccia dell’eroe. Secondo il suo “codice d’onore”, cerca la rissa, si riempie la pancia e si affoga nel vino, non riconosce nessuna autorità se non quella dei suoi desideri e “combatte valorosamente” per soddisfarli.
Nelle mani dei palotini la vicenda di Baldus diventa una travolgente accozzaglia di parole, urla, risate, bottiglie che passano di mano in mano arruolando anche il pubblico fra i briganti, compagni d’avventura e piccolo esercito dai valori sovvertiti.
Sembra di assistere a un gioco nato per caso, che si prende sul serio proprio perché ingenuo: sembra che gli attori si avventino sui personaggi come bambini su un giocattolo, e che su di essi riversino la propria natura, gettando sulla scena la realtà che la circonda. Musica, fumo, insulti, gioiose volgarità e una rigorosa etica del disordine sono i cardini di questo gioco tutto al maschile, dove basta una parrucca e il falsetto a ricreare Baldovina, principessa di Francia, o un’armatura per rendere goffe le caricature di arrugginiti rappresentanti del potere.
I fatti sembrerebbero accumularsi orientati da una fantasia libera dai vincoli del testo, se Folengo non lanciasse qualche frecciata dal passato ridefinendo i caratteri del suo paladino, facendogli calpestare le vere bassezze umane, le malignità della corruzione e l’ipocrisia della forma.
Inesauribile l’energia degli attori, che non si risparmiano, correndo, gesticolando, ballando, e che, con la stessa intensità, si fermano per recitare dei versi, guardando estasiati a paradisi di birra.
Serio e ingenuo come un gioco, finisce all’improvviso, lasciando immaginare tutto il caos che il paladino irrequieto si lascerà alle spalle nelle sue ubriacanti peregrinazioni.
Il ritratto di Alcina compariva in un prezioso mosaico di emozioni; Baldo e i suoi compari irrompono senza complimenti. Nella platea dell’Isola regnava il silenzio attento di un pubblico impegnato nella ricerca di una chiave di lettura personale, approfittando magari di quella emotiva, modulata sulla voce della protagonista.
Nel covo di Baldus, al caos sonoro si aggiungono le risate degli spettatori, coinvolti anche spazialmente: l’azione straripa, e il pubblico la circonda, ma spesso ne viene circondato.
Prendendo le mosse dai classici di un secolo lontano, i due “movimenti” del “Cantiere Orlando” sembrano aver raggiunto poli opposti. Ma questa distanza è la stessa che separava Ariosto da Folengo, la Corte dal Popolino, l’Artificio dalla Natura, l’Ordine dal Disordine: l’uno non esisterebbe se non fosse il negativo dell’altro.
Così Alcina è il tumulto delle passioni confinato nell’interiorità, mentre Baldus è l’anarchia che dissolve la forma: la realtà umana, nel suo presente eterno, conserva il suo duplice volto, incurante dei secoli.
Il Teatro delle Albe coglie il rumore di fondo che accompagna il frastuono dello scorrere del tempo e, con frammenti di “ieri”, porta alla luce l’essenza velata dell’“oggi”.
Abbiamo estratto una sola delle molte recensioni prodotte da diversi studenti del laboratorio su quello spettacolo. Ugualmente a titolo di esempio, riportiamo l’intervista di Elisa Fontana e Delia Giubeli agli attori loro coetanei del Baldus[217]:
Siamo al Link, locale “underground” di Bologna. Tra lamiere luccicanti, luci coloratissime e cemento, si è svolta la grintosa performance dei “palotini” di Marco Martinelli: uno sguardo contemporaneo al Cinquecento di Teofilo Folengo, fra musica hard-core e versi in latino maccheronico, tra “montagne di frittole, cocaina, spinelli” i ventenni di Ravenna si sono destreggiati in una calibratissima esplosione di energia, facendo rivivere ai giorni nostri il Baldus di cinquecento anni fa, trovando una corrispondenza “quasi millimetrica” tra le due epoche, come afferma lo stesso regista-alchimista Marco Martinelli.
Alle ore 22.30 del 1 febbraio 2001 incontriamo gli attori dello spettacolo Baldus. Riscrittura per lampi da Teofilo Folengo andato in scena a Bologna dal 31 gennaio al 2 febbraio 2001.
Quanto di vostro avete messo nei testi, nella drammaturgia?
A parte i monologhi, i blocchi, tutto il resto è improvvisazione nostra, l’inizio, per esempio, è metà mio e metà di Folengo. La visione inizia con Folengo: “l’enorme montagna, gnocchi, frittole…” “cocaina, spinelli…” l’abbiamo aggiunto noi.
La musica è vostra?
La musica è stata scelta fra varie cassette del Number One di Brescia.
Da dove nasce il “Cantiere Orlando”? Vi piace questo progetto? Ve l’ha proposto lui o l’avete scelto insieme?
Noi abbiamo iniziato a lavorare con Jarry per I polacchi. Lavoravamo già con la “Non scuola”. Finiti I polacchi c’era già da tempo questo “Progetto Orlando” che va avanti fino a giugno 2002 quando ci sarà il terzo blocco, l’ultimo. Quindi guidati da Marco siamo stati dentro il “Progetto Orlando”.
Ma eravate più numerosi ne I Polacchi…
Sì, eravamo in dodici.
E gli altri?
Gli altri si sono scelti altre strade
Comunque avete contribuito a fare anche i testi… qualsiasi cosa venisse fuori da voi…
E’ proprio la particolarità del lavoro di Marco: lavorare sull’attore; lui succhia dall’attore ciò che può essere utile, si lavora con l’improvvisazione… Marco è come un alchimista! Un succhiatore! Che lavora sull’attore… più materiali gli dai e più Marco riesce a costruire l’architettura di tutto lo spettacolo.
( pausa… Roby, si è offeso ed è scappato perché Delia non l’ha riconosciuto ne L’Isola di Alcina in cui ricopriva la parte di Forestiero!!!)
Le prove come avvengono?
Ogni lavoro ha un tipo di prove diverso. Per I Polacchi abbiamo lavorato per tre mesi tutti i giorni sei, otto, dieci ore al giorno, era proprio intensivo, disciplina “a paletta”.
Era un laboratorio a scuola?
Il primo passo oltre, diciamo. Nel senso che il laboratorio a scuola era due giorni alla settimana.
Però voi avete cominciato a scuola.
Ma I Polacchi è tutta un’altra cosa! E’ il primo passo oltre… e poi il Baldus è un altro passo. Marco ci ha chiesto, oltre alla disponibilità, perché ne I Polacchi all’inizio c’era solo la disponibilità, di lavorare molto di più, nel senso che c’era da portare ancora più materiale su cui poi lui chiaramente ci lavora e ti dice “va bene, non va bene” , anche se alcune cose te le dice anche sul momento: dieci minuti prima (dello spettacolo) ti dice: ”No, guarda, facciamo un’altra cosa…”. ”Ma Marco, sta per entrare la gente…” rispondi tu… ma non c’è niente da fare, è un classico che ti dica una cosa del genere prima di uno spettacolo!
Perciò vi chiede di improvvisare?
Di improvvisare no, però ti chiede di esserci sempre, cioè, non puoi “smollare”, usando un termine calcistico: fino al novantesimo, anzi fino al fischio dell’arbitro… e se l’arbitro fischia al novantadue bisogna star lì fino al novantaduesimo.
Perché il Cantiere Orlando riprende dei testi così antichi, epici e li rielabora così in un modo attuale, diciamo?
Questo è un modo di lavorare “Albe”: il dare vita alle cose. Folengo, se lo leggi adesso, com’è scritto, è morto, nel senso che è di quattrocento anni fa, comunque senti che ha una vitalità interna. Per l’epoca magari quella che incomincio a dire all’inizio “gli gnocchi, frittole, dorate polpette…” era la fame vera, invece i ragazzi di oggi, le persone di oggi che cos’è che cercano? Al di là della ricchezza, che cos’è? Magari trovare fiumi di cocaina, montagne di spinelli. Roby: allora segnati questa: il lavoro delle Albe è sempre non una messa in scena, ma una messa in vita. Comunque da sempre Marco prende i testi classici: è un lavoro che fa anche con la “Non scuola”, che è l’insieme di tutti i laboratori che le Albe fanno nelle varie scuole di Ravenna, a cui partecipano più di quattrocento ragazzi. Quindi si prende il testo classico e lo si prende a sassate, lo si distrugge, per ridargli nuova vita, per ridargli la vita che aveva.
Voi non siete tutti di Ravenna…
Lui è di Castiglione di Ravenna, lui di Torre del Greco… però abitiamo tutti a Ravenna
Qualcuno vi ha definito “una compagnia teatrale che sta diventando una famiglia d’arte”.
Ah! questa tu l’hai letta in Jarry 2000[218]!!!
Comunque si vede, lavorate così uniti che alla fine lui è come un padre, no?
Che bello! E l’Ermanna è la nostra mamma! (ironico) No! No! Questo No! Ermanna ti chiedo scusa!
Chi vi fa le luci?
Vincent Longuemare lavora col Kismet, è il light designer, un genio che da ragazzo si è visto tre volte i Sex Pistol dal vivo!
E’ arrivato Marco!
Le domande vengono poste ora a Marco Martinelli, regista dello spettacolo.
Da cosa nasce il progetto “Cantiere Orlando”?
E’ nato dalla fascinazione mia e di Ermanna, che avete visto nell’Alcina, per questi poemi del nostro Rinascimento. Sono poemi di fantascienza straordinariamente moderni, futuri, non c’è psicologia dentro, ci sono psiche impazzite che schizzano di qua e di là, ci sono paladini che si perdono nei labirinti amorosi, ci sono tre rimbambiti, una narrazione molto potente, reale e fantastica allo stesso tempo, ci piace questo intreccio di realtà e fantasia, gran fantasia!
Però poi la porti nella realtà più viva, perché anche loro (i palotini) ci dicevano che questo usare i dialetti è un voler tirare fuori la vita all’interno di questi poemi, che magari leggendoli così con questa lingua arcaica sembrano morti.
In realtà, se vai sotto alla pelle, alla superficie, trovi proprio una grande forza, una grande vitalità. Folengo era il nostro Baldus, noi abbiamo fatto un’opera che uno, se la vede e non sa nulla di Folengo, dice: “Questi hanno raccontato del mondo di oggi!”. Ma è la stessa cosa che faceva Folengo del suo mondo: lui raccontava gli sballati, i malandrini, i ragazzi affamati di vita, di vitalità e io l’ho trovato assolutamente contemporaneo, quasi in maniera millimetrica. A parte che in questo lavoro ci sono proprio delle sforbiciate dal poema di Folengo, ci sono proprio delle “rasoiate”.
Hai equilibrato la drammaturgia creata dai ragazzi con la drammaturgia dei testi, ho visto che ci sono cose scritte da loro.
Sono uscite da tante improvvisazioni che abbiamo costruito. Io lavoravo avendo questi due poli così apparentemente lontani: il poema in latino maccheronico di Folengo e tutta l’improvvisazione, tutto il mondo che loro tiravano fuori. Si trattava di costruire un’architettura che tenesse in piedi questi due poli, senza che fossero appiccicati l’uno all’altro, ma che si potessero vivere dentro lo spettacolo come profondamente intrecciati, per cui nella faccia di Roberto, di questo ragazzo della statale 16, tu vedi il Baldus di cinquecento anni fa; è questo che mi piacerebbe che lo spettatore vivesse. Sono ragazzi di oggi e nello stesso tempo c’è dietro di loro una luce che li rende degli archetipi lontani.
Come fai a tirare loro fuori questa energia?
Molta ne hanno di loro, sono ragazzi, tra l’altro, scelti su uno squadrone.
Infatti i palotini erano più numerosi.
I palotini erano dodici. Poi qui abbiamo Marco (Mercante ndr.) che è stato preso apposta per fare una sorta di legame anagrafico tra Luigi Dadina l’attore che fa il re, che è diciamo un quarantenne, mentre loro sono tutti sui venti, e allora non volevo che ci fosse questo gradino troppo alto. In questo covo dei briganti lui mi fa questo link perfetto, anche per l’uso del dialetto mantovano che è proprio il dialetto di Folengo.
Ma c’è anche un equilibrio perfetto tra il loro slancio e l’insegnamento. Si vede la guida forte di un maestro, che tira fuori un’energia che viene poi indirizzata perfettamente.
Questo è uno spettacolo che, uno che lo vive, che lo vede, a parte che si diverte, ma mentre nell’Alcina la precisione maniacale viene fuori immediatamente, qui uno può anche essere tratto in inganno e pensare che questo sia il frutto di energia, spontaneità, vitalità. Queste ci sono sicuramente, ma lo spettacolo è costruito con la stessa logica dell’Alcina, cioè noi lavoriamo tutti i giorni perché il dettaglio sia costruito alla perfezione, anche in questo “caos”, ma è un caos con metodo, e proprio attraverso il metodo il caos diventa più forte. Se noi diamo una forma teatrale alla grande vitalità che abbiamo, allora arriva con potenza, altrimenti si disperde, e tante volte capita di vedere spettacoli dove c’è confusione, dove non c’è un caos organizzato e ordinato. Tutto questo viene costruito senza spegnere la loro furia, anzi, mantenendo sempre un equilibrio vivo tra furia, caos, metodo, follia, architettura, lavoro di alchimia.
Lo spettatore molto bravo e sensibile lo coglie questo.
In questo spettacolo il pubblico è molto coinvolto, mentre nell’Isola di Alcina c’è una separazione netta.
Qui siete scese nel canile!
Volevo chiedere un’altra cosa rispetto all’Isola di Alcina, sull’uso del dialetto. A livello sensoriale lo spettacolo è molto forte, perché c’è una grande cura delle luci, delle musiche, anche l’uso della voce di Ermanna è calibratissimo, però non hai mai pensato che il dialetto potrebbe creare una mancanza nello spettatore? Lo spettatore esce dal teatro sapendo che non ha capito qualcosa perché non aveva gli strumenti. Al livello sensoriale arrivano delle forti emozioni… ma si sente che mancano le parole…
Capire a teatro è un falso problema. Tutto quello che c’è da capire nell’Alcina lo dico io nelle quattro parole iniziali. Capite quelle, e quelle si capiscono perché sono in italiano, il resto è da vivere solo a un altro livello, cioè tutto ti arriva direttamente nella pancia, nel cuore, nel sesso, oppure in qualche cosa di profondo che sta nel cervello, ma che non è la comprensione razionale. E di questo abbiamo la conferma dal fatto che lo spettacolo ci è stato preso a New York, andrà in Olanda, forse in Israele e già una volta che usciamo dalla Romagna appunto, la gente non capisce nulla. Quindi il problema è comprendere a un livello profondo non tanto capire il significato razionale, come davanti a una sinfonia. Davanti a una musica tu non ti chiedi: ”ma che cosa vuol dire?” eppure questa musica ti comunica un sacco di cose, un mondo. Tra l’altro un lavoro così ti arriva al cuore indipendentemente dalla comprensione razionale. Un romagnolo che capisce tutto può rifiutarlo, non passa dalla comprensione, passa se tu ti fai travolgere dal terremoto che è la voce di Ermanna coniugata con la musica di Ceccarelli. È un terremoto, quindi puoi dire “no, non voglio questo terremoto”, oppure ti puoi lasciare trascinare da questo.
Quindi tu hai scelto il dialetto romagnolo per la sua musicalità.
No. Il romagnolo è la lingua barbara di Ermanna, è una lingua che non sembra neanche un dialetto italiano, per come lo usa lei a un certo punto diventa greco antico, diventa qualche cosa di arcaico e il modo con cui Ermanna lo fa risuonare nell’Alcina è molto diverso dal modo con cui lavoriamo sui dialetti in questo spettacolo. Lì è usato come una lingua tragica, una lingua che urla una mancanza, manca qualcosa ad Alcina, alla sua vita, al mondo e lei ce lo grida in quel modo. Qui il dialetto è usato nella maniera opposta, come un gioco linguistico, una capriola del cervello. A me piace andare in entrambe le direzioni, mi piace lavorare sul tragico come sulla farsa assoluta e totale.
Ora Marco Martinelli riunisce i suoi palotini per qualche commento allo spettacolo… proprio come fa un allenatore con la sua squadra dopo una partita di calcio.
Il capitolo lo chiudiamo con questi materiali, che rappresentano anche lo svolgimento di possibili esercizi di ricerca e scrittura.
- Per tracciare nuove mappe
8.1. Dalla scena verso il mondo
Come deve guardare il critico, cosa deve guardare? Come può scrivere e come deve ascoltare, penetrando nelle domande che l’opera pone e nelle questioni che la storia e la società rivolgono a quell’isola apparentemente sempre più marginale che è il teatro, in particolare quello che cerca un proprio ruolo per aiutare a disegnare diversi rapporti con le cose, con l’immaginario e con la realtà, non cessando di formulare quesiti laceranti?
Proviamo a rispondere, ancora, con parole di critici e di artisti, consapevoli di non avere ricette sicure. E iniziamo ancora riportando considerazioni dei “critici impuri”:.
Forse il compito [del critico] è soprattutto quello di proporre visioni. Aprire possibili (umanamente imperfetti) percorsi di letture e di sguardi a partire dalla scena e verso il mondo. In questo l’esercizio della critica è avvicinabile a quello dei programmatori più intraprendenti e consapevoli. Cercare di segnare dei tracciati di senso che s’innescano da una singola opera o – più difficile ma ancora più affascinante – da una sequenza, rafforza, sostiene e problematizza il lavoro di autori e programmatori: genera, crea e dà forma a un ambiente[219].
Gli estensori del documento sottolineano la vicinanza fra una nuova figura di critico e quella di curatore della programmazione dei teatri, con lo scopo di creare e dare forma a un ambiente. Notano, però, anche la necessità di lavorare sulle distanze, sulle fratture più che sui facili riconoscimenti, fra opera e pubblico, fra opera e visione del critico. A quest’ultimo spetta il compito di approfondire, di ricombinare i segni, di segnalare dissintonie, di interpretare, di distanziare o avvicinare, lontano da ogni facile giudizio liquidatorio:
Non sempre, anche per l’evidente molteplicità di forme della creazione, l’empatia fra autore e pubblico è dato certo o scontato. Lo scarto, la distanza, la differenza, il vuoto e il disagio nell’ambito della sfera della ricezione, sono in ogni modo anche segnali di una continuità e di una relazione con una tradizione della ricerca. La scena è fatta di segni. Si tratta di elementi da inquadrare, evidenziare, tradurre, nel senso etimologico del termine, e interpretare.
Accertata l’autenticità del processo che li genera – ed evidenziato che siamo, con grande probabilità, fuori da una dialettica della modernità scandita da innovazione e suo consolidamento in tradizione – resta da affrontare quei segni e ricombinarli, distanziandosi anche dalle fonti e dalle ombre della poetica degli autori. La loro ricomposizione in una traccia non necessariamente inedita ma percepibile come una visione, come frutto di uno sguardo, è la migliore premessa per una relazione con lo spettacolo e le arti della scena che sia autentica e soprattutto aperta. Come pubblico prenderemo forse le distanze, ma riconosceremo uno sguardo, un taglio dell’orizzonte possibile e, senz’altro, pur nel rispetto della differenza individuale, una corrispondenza con un “ambiente”. Un ambiente che sarà multiplanare, fondato su asincronie, atopie, incongruità e corrispondenze.
Di qui, per chi cerca un ambiente e per chi lavora a generarlo, la potenzialità e l’arricchimento del confronto extradisciplinare, per quanto disciplinato. Relativizzare, dichiarare il proprio cambiamento d’opinione o l’errore, la rivalutazione alla luce di…, è l’unica attitudine possibile per rigenerare il proprio sguardo e mettere costantemente in gioco la propria attendibilità. Del resto, lavorare tenendo conto della sensatezza del proporre visioni, ha il vantaggio di esporsi, mettendo in gioco la propria lettura della scena ma anche e soprattutto quella del contemporaneo. Di qui, un passaggio evidente. Il lavoro critico si dichiara direttamente politico[220].
Si delinea un complesso processo di relazioni fra l’attività interpretativa, l’opera d’arte, il pubblico, il mondo che circonda la visione del critico, l’opera e il teatro stesso. Con una sottolineatura della responsabilità, in prima persona, di chi propone “visioni”, di chi crea come di chi osserva, di chi parte da quelle dell’artista non solo per chiosarle, ma soprattutto per aprire incrinature e fornire suggestioni ulteriori.
A questi ragionamenti Oliviero Ponte di Pino, come in parte abbiamo già visto, rimprovera una certa genericità. Soprattutto rileva come sia poco chiarito il rapporto con la storia, con la società, con la politica, e sottolinea una mancanza di indicazioni sui luoghi nuovi dove esercitare un diverso sguardo critico. Tali rimozioni gli sembrano il frutto di una impostazione generale fondata “in sostanza sull’esaltazione della soggettività del critico e sul suo rapporto diretto, immediato, quasi intimo, con i processi creativi e produttivi, con l’opera e con gli artisti che li generano”[221], fino a delineare, in contrasto con la sigla scelta dai sei per definirsi, un critico “assai puro”, “un lettore e traduttore di segni, un testimone di processi, aperto e disponibile, che però fatica a trovare punti d’appoggio e un quadro di riferimento per le sue analisi”[222].
Il pericolo di trasformare la critica in registrazione, in catalogazione senza metri di giudizio e, quindi, senza punti di approdo certi, veniva segnalato già da Valentina Valentini come il difetto di un certo modo di guardare lo spettacolo nel convegno Teatro e arti visive: funzioni e linguaggi della critica[223]:
La riflessione sul teatro vivente, le sue pratiche, la sua cultura, è diventata rara: imperano le cronache, i racconti in prima persona e le catalogazioni, mettere insieme una sterminata quantità di dati, accumulare informazione senza interesse a orientarla. L’incapacità di dialogo da parte del critico con l’opera (guardarla e interrogarla da prospettive ermeneutiche) è un aspetto della critica attuale che privilegia la descrizione piuttosto che l’interpretazione. Non si tratta più di combattere il soggettivismo della critica che, sovrapponendo sull’opera l’io del critico, in una certa misura la cancella, quanto l’astensione dal giudizio che segnala la rinuncia a distinguere il vero e il bello[224].
Il problema della deriva nel soggettivismo che paventa Ponte Di Pino esiste, come pure è ampiamente diffuso un relativismo che non sa più distinguere, che assegna senza criteri un valore paritetico a ogni fenomeno, che si limita a registrare, come suggerisce Valentina Valentini[225]. Però l’apertura senza rete, il confronto diretto con l’opera, il non chiamare in causa astratti criteri e definire il rapporto con l’oggetto con cui ci si confronta sulla base della posizione relativa fra chi guarda e la cosa osservata, mi sembrano non solo atti di necessaria onestà, ma feconde metodologie di ascolto e scavo. Mi paiono le uniche possibilità per prendere atto di una crisi non tanto e non solo dello sguardo teatrale, quanto più in generale dei modi di guardare, rappresentare, valutare le cose del mondo. In sostanza, questa incrinatura è il corollario di un affievolirsi più generale di criteri e di valori, che rimette in discussione certezze e punti fermi solo ieri ben solidi, imponendo una ricerca rischiosa, da vivere intensamente, direttamente. E qui mi dichiaro d’accordo con la sostanza del ragionamento dei “critici impuri”, nonostante le loro formulazioni suonino, in certi passaggi, alquanto fumose:
Si tratta di tessere un filo tra un evento di natura teatrale e il reale, tentare una via di attraversamento del contingente, individuare dei percorsi che siano frutto di uno sguardo, che affondino in un orizzonte di senso critico, culturale, contemporaneo. Non stiamo parlando di una ricetta pronta all’uso, ma di un possibile che si confronta con una galassia di gusto che negli ultimi anni si è generata e rigenerata coagulandosi intorno a precisi e svariati oggetti culturali. Si tratta di costruire contesto, fare riecheggiare significati e percorsi diversi non tanto per “catturare” quanto per incuriosire e suscitare un confronto con i propri interlocutori. Perché questo diventi possibile è però necessario uscire dai luoghi canonici e assumersi dei rischi offrendo visioni che riflettano posizioni, non solo prendendo posizioni che riflettano visioni. A volte la durezza della presa di posizione nasconde e offusca la visione alle spalle; l’io, la soggettività, qui stanno. Nella semplicità del non nascondersi dietro a una presa di posizione forte e soggettiva, ma nell’affermare la debolezza profondamente contemporanea del proprio sguardo[226].
Se vogliamo uscire dalla crisi, dobbiamo prima di tutto conservarci aperti all’osservazione di un campo in movimento. Non possiamo solo registrare, evidentemente, ma dobbiamo cercare di conoscere prima di valutare. Osservare (e ascoltare) quello che emerge o che si è formato da poco. Provare a individuare strade e ad aprire possibilità, non con giudizi ma con domande, dubbi, questioni.
Con passione. Dichiarando il proprio punto di vista, la propria posizione, ma anche abbandonandosi alla curiosità, alla lentezza, all’incertezza, perdendosi nell’oggetto di analisi. Citiamo, a questo punto, le belle parole, pronunciate al convegno di Cosenza, di una poetessa, Mariangela Gualtieri, con Cesare Ronconi fondatrice del Teatro Valdoca:
Ora la critica, ciò che comunemente si intende con questo termine, è quasi sempre dentro l’alta velocità e l’alta velocità condanna alla superficie. Bella anche la superficie, certo, ma lì la critica non sembra più necessaria all’opera, può piuttosto servire il mercato.
L’alta velocità costringe il critico ad una intelligenza rapida, astuta, competitiva, nevrotica, acrobatica, cioè a quella intelligenza fondamentale oggi nella costruzione di qualunque potere, ma così lontana dalla comprensione vera.
Comprendere significa caricarsi le cose sulle spalle, servirle, prenderle in braccio, accoglierle, dimenticare ciò che si è e ciò che si sa, vibrare con esse. Significa essere nell’entusiasmo. E non solo. Io credo che la comprensione abbia radici anche nella ebetudine e che ogni artista sia, in un certo momento del proprio lavoro, un ebete che si perde. L’arte nasce da un reame sconosciuto, e quando lo si attraversa ci si perde per forza.
Credo che anche il critico debba avere i sigilli di quel reame ed essere capace di abbandono, di sbandamento, di capogiro, di qualcosa insomma che è prima del lucido pensare[227].
8.2. L’opera e il pubblico
Il critico deve schierarsi e abbandonarsi, lavorare negli interstizi, rimarcare fratture più che esporre certezze. Partecipare a demistificare l’intrattenimento, a rifiutare la comunicazione come destino dell’arte, perché essa, la comunicazione
[…] è stata la negazione di ogni autonomia della ricerca, il grande ricatto di cui è morto il nostro cinema e stanno morendo musica e letteratura – con poche e importanti eccezioni che hanno dovuto conoscere tutte le difficoltà dell’autonomia di pensiero e di processo […][228].
L’arte rifiuta l’omologazione dominante, non accetta di trasformarsi in merce consumabile, impone allo spettatore la fatica dello sguardo, della riflessione, dell’interpretazione, dell’empatia o dello scontro, insegnando ad abbandonare la scorciatoia delle certezze. La critica che rifiuta di trasformarsi in pura promozione può aiutare l’artista in questo compito. Certo, si tratta di una scelta di campo, che viola molte volte l’oggettività del critico, che nega la considerazione neutrale e molte volte anche il giudizio come scopo del suo sguardo. E’ un equivalente del radicalismo estetico propugnato da certi artisti:
[…] Nel teatro, nell’arte, è improbabile darsi un compito etico se questo significa, come significa, consapevolezza di ciò che è buono o cattivo per l’umana società. Trovo che l’unica funzione immediatamente sociale del teatro sia innanzi tutto nell’architettura che lo contiene, che comporta ogni volta, come effetto di rimando, l’instaurarsi di una comunità istantanea tra sconosciuti che condividono una sorta di “eucarestia” estetica della sensazione, la quale può sussistere solo a patto di una vacuità del contenuto etico dell’opera stessa. Insomma: è l’estetica che produce l’etica. Pensare il contrario significherebbe, per me, lo svanire di ogni emozione e l’instaurarsi di quella pedagogia zuccherosa, troppe volte sentita nei convegni dei buoni sentimenti. Il solo modo di giudicare è, per me, la bellezza. E una cosa bella per me, per te, solo quando ti porta via, dove tu non sai, dove non ti saresti mai aspettato di essere. La bellezza è violenta e disarmante come un lampo o una scossa. Non è giusta, la bellezza. E’ esatta solo di fronte a se stessa ed esige che siamo noi a cadere in essa. Non ha argomenti, la bellezza. Solo così è concepibile la sua violenza che è consustanziale al proprio “errore”[229].
Ancora un rapire, un portare via, in un altrove. Rapire nell’arte, in un mondo con leggi proprie, più vere, più profonde di quelle di una realtà ridotta ad apparenza, di rapporti umani sussunti nel valore di scambio e nella vendita generalizzata di pensieri, sentimenti, concezioni, credenze come merci.
Eppure il critico, con il suo schierarsi, con il suo andare dentro l’opera, sottolineare le fratture, impedire che le ferite si cicatrizzano, ha anche altri doveri, antichi. Li ricordiamo con le vecchie parole di Silvio D’Amico, tanto sbrigative contro chi mette in dubbio che il teatro sia arte, quanto rigoroso nel ricordare il dovere della cronaca:
D’accordo che il teatro può esser soltanto uno spaccio di divertimento; può esser soltanto industria e commercio; ma allora la critica non ha nessun obbligo di occuparsene: se ne occupa in quanto è arte. Quando arte non è, tutto ciò che il critico può e deve fare, nell’interesse del Teatro italiano, è dichiarare che arte non è.
E che il semplice cronista debba alterare il resoconto di uno spettacolo, tacendo per esempio le disapprovazioni da esso incontrate, o gabellando per successo autentico gli applausi compiacenti degli amici che imbottiscono la sala, questo sarebbe senz’altro menzognero e immorale. […] al pubblico che ci chiede una cronaca, cioè una notizia positiva, un dato di fatto, la relazione d’un trattenimento così come si è svolto, non possiamo raccontare quel che non è. Se facciamo diversamente, non solo commettiamo anche qui una truffa, ma, in parole povere, perdiamo il credito[230].
Oggi forse il credito è tutto da riconquistare. Come sono da reinventare le posizioni da cui ritrovarlo. I luoghi su cui scrivere, gli spazi per incontrare un pubblico, per rendere efficaci le domande all’opera, all’artista, al sistema.
La perdita di ruolo e lo smarrimento di finalità e incisività del mestiere del critico, lo abbiamo ripetuto più volte, sono arrivati a un punto di svolta. O questa figura muore, o trova sfere di azione più necessarie e incisive. Non è più sufficiente ”sporcarsi le mani”, schierarsi decisamente accanto a certi artisti, segnalare tendenze, scegliere campi. E neppure trasformarsi in uffici stampa, in organizzatori, direttori artistici, programmatori.
Certo, i giornali non permettono di sopravvivere (o lo permettono solo in pochi casi). E il teatro, al contrario, specie quello nuovo, ha bisogno di competenze conquistate attraverso l’osservazione continua, appassionata, oggettiva per quanto si può e si riesce. Il mondo teatrale spesso prova a sedurre il critico, lo invita a saltare il fosso, a trasformarsi da osservatore in operatore. Gli propone di colmare la distanza che corre fra sguardo e l’azione, per passare dietro lo specchio (dall’altra parte della scena, ugualmente lontano, in verità, dall’oggetto desiderato e proibito per molti critici, l’opera d’arte medesima).
Il passo verso la pratica diretta può essere utile in certi momenti, purché si abbia la consapevolezza di non mescolare i ruoli, di non confondere le cose sino a non poterle più distinguere, fino all’autopromozione o, peggio, al vantaggio economico acquisito mettendo la riflessione critica al servizio del proprio lavoro pratico. I confini si fanno labili, lo schieramento o l’intervento al fianco degli artisti e la compromissione corrono il rischio di sfumare gli uni nell’altra.
Non esistono ricette. Probabilmente ognuno si troverà in situazioni dove non avrebbe voluto o dovuto arrivare. Dovrà verificare e ripensare le proprie posizioni e le proprie azioni. Le condizioni imposte dal mercato sono difficili. Eppure bisogna rischiare.
8.3 Critici impuri, mutanti e altre specie nascenti
Accanto al “critico impuro”, con tutto ciò che di cattolico e di adolescenziale evoca il termine “impuro”, accostiamo un critico non tanto futuribile, quanto dilacerata figura presente: il “critico mutante”, che vede trasformarsi condizioni di lavoro, spazi produttivi, le sue funzioni, i suoi rapporti con gli artisti, con il sistema dell’informazione, con quello teatrale, con il pubblico. Un critico che si confronta ogni giorno con problemi etici non sempre facilmente risolvibili. Che però sceglie la limpidezza del punto di vista, la responsabilità della soggettività, la sfida della creazione di nuovi luoghi e mezzi di riflessione, più adatti a capire le crisi del presente, le trasformazioni di un teatro ugualmente alla deriva, di una società che ha smarrito i legami nascosti e le carte fondamentali che la definivano collettività.
Questo critico si tira fuori da un coro stonato, si chiude nelle cantine con una grande attenzione al mondo che lo circonda, capace di rimanere aperto, di raccontare, di ricreare, di interpretare processi viventi, di segnalare, di raccogliere testimonianze di artisti che propugnano l’utopia concreta di un altrove. Sfida il sistema produttivo investendo in opere di respiro diverso da quello esausto della recensione. In fondo, le più riuscite “critiche” di Quadri sono i ventisei volumi del Patalogo, o i due tomi dell’Avanguardia teatrale in Italia, una “non introduzione” e centinaia di pagine di documenti palpitanti dal nuovo teatro. E potremmo continuare, nominando i moltissimi materiali e spunti critici forniti da un altro maestro come Giuseppe Bartolucci in vari libri e riviste, la monografia di Gianni Manzella sul teatro di Leo de Berardinis[231], o altre raccolte di testimonianze e saggi che raccontano le esperienze dei gruppi di teatro e di danza degli anni ottanta e novanta[232]. Il nuovo sguardo è quello del critico delle riviste, di “Sipario” e “Teatro” negli anni sessanta-settanta, di “Scena”, che analizza, critica, polemizza intorno al teatro dei gruppi (e lo fiancheggia) alla fine degli anni settanta e all’inizio degli ottanta, o della “Scrittura scenica” diretta da Bartolucci. E’ il critico della mobile e fragile geografia odierna, delle riviste perennemente in difficoltà economica e però in cerca di una visione che colleghi il teatro alle culture dei nostri giorni, a ciò che di non previsto né prevedibile ancora nasce e alle tradizioni feconde o esaurite che si isteriliscono o che si rinnovano. E’ quel cronista curioso e problematico che sperimenta nelle radio, su internet e in altri luoghi, inventando formule capaci di interpretare, pronto a rimetterle in discussione quando non scuotono più le certezze. Il nuovo critico, per qualche caratteristica simile a quello tradizionale, per molte altre non sappiamo ancora a cosa, abbandona le sicurezze del giudizio per cercare nuovi metodi per raccontare, per scavare nei crepacci che si aprono, per approfondirli, per ritrarre dal vivo figure che attraverso tagli propongono visioni, per provare a capire il senso di un passaggio, di una dilatazione dello sguardo e dell’azione che chiede una nuova concentrazione.
Se i giornali chiudono le porte e vanno esaurendosi nella rincorsa della televisione, le nuove avventure offrono spazi a giovani che vogliano cominciare, sfidando le resistenze del sistema e se stessi, per guardare sempre più dentro, sempre più a fondo. Le definizioni, allora, scoloriscono. Accanto ai critici impuri, ai mutanti dell’ultima generazione, sguardi ulteriori nascono, ricerche di diverse possibilità. Il campo è fertile perché, come sempre, sembra completamente da rivangare.
8.4. Critici e storici
Un’altra distinzione, in questo panorama, diventa meno netta che in passato. O meglio, avvicina posizioni naturalmente diverse. La critica militante, giornalistica, frettolosa, tutta volta all’analisi del presente, si è contrapposta (ed è stata contrapposta) agli storici, volti all’analisi ponderata del passato, al lavoro sui documenti. Una nuova possibilità può nascere quando il critico assume l’abito mentale dello storico, e inizia a guardare da una distanza, proprio perché è immerso nell’occhio del ciclone. Se considera alla stregua di documenti proprio quei fenomeni in movimento dei quali è compagno di strada. L’osservazione ravvicinata, paradossalmente, richiede la capacità di distanziarsi, di fingere che il presente sia qualcosa di lontano come la storia. Così lo studio storico, a sua volta, diventa più efficace se, innervato dalla passione, riesce a rendere il passato altrettanto vicino, concreto, ricco di sfumature e di umori dell’esperienza vissuta.
Ci sembra interessante ricordare a questo proposito un’osservazione di Ferdinando Taviani:
I punti di vista sono anche luoghi materiali. Non solo ipotesi e opinioni, ma posti da cui si guarda.
L’“osservazione partecipe” non è solo un modo diverso di raccogliere dati. E’ soprattutto un processo di straniamento rispetto ai metodi precedentemente acquisiti nell’individuare, selezionare, ordinare i dati, nel tentare ipotesi e definizioni. E’ più una ricerca di nuove domande, che la ricerca delle risposte alle domande che si credeva di possedere.
Il problema per chi lavora intellettualmente sul teatro, non è tanto quello di mantenere una distanza critica dal soggetto su cui lavora, ma di distanziarsi criticamente dalle categorie metodologiche e culturali di cui è portato a servirsi automaticamente e acriticamente nel corso del suo lavoro[233].
Lo spettacolo contemporaneo ha bisogno della prospettiva, proprio da parte di chi lo guarda dall’interno, di chi si cala nel suo epicentro. Necessita del bisturi capace di incidere per andare a cogliere le ragioni nascoste. Della connessione, dell’interpretazione. Per fare cultura teatrale contemporanea c’è bisogno di qualcosa dell’atteggiamento dello storico. Qualche volta, poi, è perfino necessario lasciare da parte la storia, la cultura, e guardare direttamente le cose, i processi materiali, senza filtri ideologici. Se il presente sarà raccontato con accuratezza e in modo problematico, fornirà materiali importanti anche allo sguardo del futuro.
In tutto questo mutare si continuerà, necessariamente, a non vedere prospettive per il critico, a metterne radicalmente in dubbio il ruolo, a inventargli nuovi compiti e forse, un altro nome. Si continuerà pure a provare e a “sporcarsi le mani”.
La mappa è costellata di strade del rischio. Acuminare lo sguardo, la penna, decidere un punto di vista da cui far vedere non è semplice. Il critico non sarà più quello di prima. Solo accettando di segnare nuovi sentieri in questa incerta carta geografica, osservando, scrivendo, partecipando, ritroverà (inventerà) il terreno su cui muoversi.
Appendice
Al lavoro in un quotidiano
Il “Quaderno del Festival” di Santarcangelo
I seminari sulla critica teatrale sono sempre più diffusi. Con il nuovo ordinamento universitario è cresciuta l’offerta di laboratori finalizzati all’osservazione e alla discussione degli spettacoli che calcano le scene delle nostre città. Tali percorsi di studio possono essere principalmente storico-teorici o orientarsi decisamente verso un’attività pratica. Oppure possono far coesistere tali aspetti. Ma tutti operano in condizioni differenti da quelle in cui si trova a scrivere effettivamente un critico, in contesti protetti, ideali e astratti insieme. Tali laboratori (e altri promossi da enti teatrali o dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro) si svolgono in situazioni dove si può sperimentare, si può riflettere, nelle quali non ci si scontra con i problemi reali della professione, con la fretta, le dimensioni dell’articolo da rispettare rigorosamente, i tagli, gli obblighi della pagina, le richieste dei caposervizio, la pressione delle compagnie che chiedono “la presentazione” o “la recensione”.
La realtà, in queste esperienze, è simulata. Ci si può allenare a scrivere in misure ristrette (le trenta righe) o dilatate, ci si può cimentare con diversi tipi di intervista, di recensione, di servizio. Ma mancherà sempre il confronto con un lettore esterno, capace di verificare l’efficacia della critica. Il laboratorio dovrebbe avere un’immediata applicazione con la successiva collaborazione a un quotidiano, a una radio, a una rivista, a un sito internet.
Per questi motivi – e anche per rispondere ad alcune delle domande sul ruolo del critico, dell’informazione e della cultura teatrale esposte nel corso di questo volume – insieme ad altri ho cercato negli anni scorsi di inventare strumenti di azione e di intervento sul campo. In questa appendice racconterò, in particolare, l’esperienza della realizzazione di un quotidiano, “Il Quaderno del Festival”, in cinque diverse edizioni di “Santarcangelo dei Teatri”. Questa manifestazione, nata nel 1971[234], si tiene a Santarcangelo di Romagna, un paese nell’immediato entroterra riminese. E’ uno dei più importanti appuntamenti estivi dedicati al teatro contemporaneo, con incursioni nella nuova danza e nelle scene straniere, laboratori, incontri, momenti di studio. In dieci giorni moltissimi spettacoli (ma anche concerti, letture, mostre, proiezioni) sono distribuiti su un ampio territorio, in spazi al chiuso e all’aperto. Vi lavora uno staff composto da alcuni organizzatori, da una squadra tecnica e da un gran numero di stagisti e volontari che prestano la loro opera gratuitamente, per conoscere da vicino i meccanismi dello spettacolo (principalmente studenti universitari o di scuole di teatro, ma anche appassionati o componenti di piccoli gruppi teatrali).
Il “Quaderno” è stato realizzato per la prima volta nel 1996 come foglio fotocopiato, ideato e redatto da alcuni critici accomunati dalla voglia di sperimentare nuove possibilità di informazione. Dopo un’interruzione, dal 1999 al 2002 è uscito con una formula diversa: le redazioni erano guidate da professionisti e costituite da giovanissimi, che avevano appena frequentato i corsi del CIMES o qualche altro seminario sulla critica (per esempio quelli realizzati nella rassegna Il debutto di Amleto, organizzata in Toscana dalla Regione e dall’ETI, dedicata al teatro nascente[235]). Hanno partecipato ai lavori anche stagisti dell’università Roma 3, i vincitori di concorsi di critica promossi dal Teatro Stabile di Parma e patrocinati dall’ANCT, alcuni collaboratori di giornali locali e perfino ragazzi con pochissima o nessuna esperienza, iscrittisi al laboratorio che affiancava la produzione del giornale.
Un gesto per inventare possibilità
L’esperimento del “Quaderno” nasce sotto la direzione artistica di Leo de Berardinis[236], come tentativo di cercare nella pratica nuovi strumenti d’intervento, veloci, economici ed efficaci, per far confrontare in modo radicale lo sguardo con l’operare dell’artista. Il primo giornale è prodotto in povertà: si tratta di due o tre fogli formato A3 fotocopiati, per un totale di otto o dodici facciate a seconda dei giorni, ognuna divisa in diverse colonne. Qualche computer in affitto e qualche portatile personale, un programma di impaginazione e tutto l’occorrente per stampare in proprio servono per realizzare un prodotto che deve uscire quotidianamente (in realtà si realizzeranno sette numeri in dieci giorni).
Il giornale intende essere “piazza”, luogo di discussione e confronto per critici, artisti, tecnici, frequentatori dei laboratori, équipe del festival. Ma ha anche l’ambizione di diventare uno strumento di conoscenza per il pubblico, per consentirgli di entrare più a fondo nelle opere presentate. Il foglio è gratuito e dovrebbe essere distribuito, secondo il progetto iniziale, in un congruo numero di copie in ognuno dei numerosi luoghi di spettacolo del festival: ma risulterà impossibile tirarne più di due-trecento esemplari al giorno senza far rompere la fotocopiatrice (per motivi di budget la macchina non è delle più recenti!).
Si finisce di scrivere gli articoli dopo gli spettacoli della sera: il giornale viene distribuito, in prima edizione, nel luogo di ritrovo del festival, verso le due, le tre di notte. Gli artisti possono leggere le recensioni del loro lavoro ancora “a caldo”; interviste, “voci” raccolte fra quelli che lavorano alla manifestazione o che la guardano, resoconti di convegni lanciano temi e discussioni che continueranno per giorni.
Il “Quaderno” è scritto, impaginato e stampato da un gruppo di critici e giornalisti di diverse città ed esperienze: Gianni Manzella, che firma da direttore, Antonio Cipriani, Alessandra Giuntoni, Andrea Porcheddu, Paolo Ruffini, Cristina Ventrucci e me. Ma molti saranno gli interventi di artisti o critici presenti, magari solo per pochi giorni, al festival. Come anche di stagisti, tecnici, spettatori, volontari, iscritti ai diversi laboratori. Gli scopi e l’ambito in cui nasce e intende muoversi sono chiariti dall’editoriale del primo numero, firmato da Manzella:
Questo giornale
Comincia così di regola l’editoriale di presentazione di ogni giornale, con una dichiarazione di indipendenza da tutti i poteri e un misto di buoni propositi. Non vogliamo certo sottrarci a una nobile tradizione giornalistica anche se questa gazzetta è una voce effimera, destinata a durare soltanto per i giorni del festival. Poche pagine, quelle che avete fra le mani, e una veste del tutto artigianale. Con l’impegno però a esserci tutti i giorni, al momento in cui la piazza di Santarcangelo si anima con gli eventi del festival. E’ un gesto, prima di tutto. Si parla tanto di crisi dell’informazione teatrale. Se ne è parlato anche qui, due estati fa, negli incontri al giardino Noi della Rocca[237]. E questa primavera all’assemblea permanente sulle “leggi del teatro”, al San Leonardo bolognese[238], che non a caso qui trova il suo seguito. Lo spazio dedicato al teatro dai mezzi di informazione è sempre più ridotto, si dice con qualche ragione. Soprattutto lo è lo spazio della riflessione critica, schiacciata da un giornalismo in cerca di spettacolo che consuma gli eventi prima che si siano prodotti. Non vale solo per il teatro, si potrebbe aggiungere. Non è comunque una consolazione. Ma limitarsi alla rivendicazione serve a poco e alla lunga è paralizzante, come l’estenuante interrogarsi sull’estinzione della funzione della critica. Meglio provare a vedere se è possibile farla in altri modi, l’informazione teatrale. Cioè inventandosi gli spazi, se non ci sono. Non è proprio questa la prima lezione venuta dal teatro delle tanto mitizzate “cantine”? Togliere di mezzo il superfluo, per fare emergere il necessario. Usando gli strumenti di bordo, come insegnavano i vecchi maestri.
Questo giornale dunque è un gesto. E Antigone ci ha insegnato quanto contino i gesti, anche se all’apparenza inutili, e non soltanto a teatro. Ma è anche uno strumento, che davvero si vorrebbe a disposizione di tutti. L’invito a portare parole, pensieri, immagini da condividere, davvero non è formale. Perché anche queste pagine siano un pezzetto di quella “piazza”, di quel luogo centrale di una collettività, luogo d’incontro di artisti e spettatori, che il nostro teatro aspira ad essere – e che Santarcangelo si porta dietro come un marchio di origine non dimenticato. Intanto a voi, presenti da subito a questo appuntamento, l’augurio di una buona navigazione[239].
Il giornale riflette i temi discussi nel festival, soprattutto quelli, lanciati da Leo de Berardinis, di un “teatro pubblico popolare” e della “riunificazione delle arti sceniche”, in una prospettiva che rifiuta lo spettacolo come intrattenimento e mira a rompere gli steccati tra il teatro e lo spettatore e tra le diverse arti, la musica, la danza, il teatro. Se molti dei propositi editoriali si scontrano con le difficoltà di far uscire, in pochi, con mezzi rudimentali, un quotidiano, in questa prima esperienza si tracciano alcune linee che saranno riprese e approfondite negli anni successivi. Il giornale dà molto la parola agli artisti, con interviste ma anche con interventi diretti. Le recensioni su uno stesso spettacolo sono spesso più di una, con visioni e pareri diversi. Si accolgono e si stimolano gli interventi di approfondimento di studiosi che seguono con grande attenzione il festival (fra tutti gli altri ricordiamo Claudio Meldolesi, Laura Mariani, Renata Molinari, Daniele Seragnoli, Gerardo Guccini, Cristina Valenti). Molto vivace è la rubrica “La piazza” che ospita pensieri, lettere, poesie, riflessioni, pagine di diario di chiunque voglia intervenire.
Il “Quaderno” deve, purtroppo, anche inventarsi un’edizione speciale, in occasione della morte improvvisa e prematura di Cristina Garattoni, presidente della Provincia di Rimini, una delle personalità politiche più vicine da sempre al festival. Un’amica e promotrice della manifestazione, che come sindaco di Santarcangelo aveva propiziato la crescita e il consolidamento istituzionale della rassegna.
Gli ultimi numeri, dopo vari tentativi fallimentari di pubblicare fotografie, sono illustrati con i disegni al tratto di Oreste Zevola, che segue il festival per schizzarne una memoria grafica. Le recensioni vengono chiamate “testimonianze”, proprio per rompere l’idea di un giudizio oggettivo, e per lasciare a chi guarda e scrive la responsabilità di una visione soggettiva e parziale, da confrontare con altre. Non mancano schede informative, rubriche di servizio, di satira (“La frusta teatrale”), discorsi sulla stampa del settore (e sulla sua crisi o inefficacia) o racconti di come si cerca di fare cultura teatrale in parti lontane del mondo[240]. Così pure si possono trovare interventi eccentrici, come uno di Pulcinella in persona[241] o come il racconto di una notte con i fantasmi pascoliani, vissuta dal Teatrino Clandestino a Villa Torlonia di San Mauro Pascoli[242].
La discussione si accende intorno alle “critiche”, che dividono: si sceglie di non avere una linea unica, di pubblicare visioni anche molto contrastanti, e anche alcune reazioni di artisti ai rilievi avanzati ai loro lavori. Si cerca di andare dentro le visioni, polemizzando, chiedendo spiegazioni, cercando di capire.
Verso un “Quaderno” laboratorio
Nel 1997 e nel 1998 il “Quaderno” non esce. Le discussioni sulla critica e la necessità di inventare nuovi strumenti di sguardo e dibattito portano a divisioni, ma anche a molti esperimenti nuovi. Anche il festival “Inteatro” di Polverigi, nel 1997, si dota di un foglio quotidiano[243] e lancia un progetto di diario di bordo on line, “La scatola nera”, diretto da Carlo Infante; a Santarcangelo il gruppo del “Quaderno” dell’anno prima si scinde: nel festival viene organizzato un “Laboratorio di Scrittura Critica”, diretto da Andrea Porcheddu, Antonio Cipriani e Andrea Bianchi, che produce alcuni numeri di un giornalone murale, chiamato “novecento e mille” come l’edizione del festival, l’ultima diretta da Leo de Berardinis; nel 1998 anche un’altra importante manifestazione estiva, “Volterrateatro”, vedrà la realizzazione di due diversi fogli d’informazione.
A Santarcangelo, nel 1999, il quotidiano torna a vivere in una nuova forma. La direzione artistica è passata l’anno precedente a Silvio Castiglioni, mentre condirettore è chi scrive queste note. Il nuovo progetto produttivo è costruito con Roberto Naccari, direttore organizzativo, e Werther Casali, consulente del quotidiano “La Voce di Rimini”. Questa volta si esce come inserto di quattro pagine, due intere, due con piedi pubblicitari, all’interno di un vero giornale. “Il Quaderno del Festival”, quindi, sarà leggibile in tutta la riviera[244], da un pubblico ampio, non esclusivamente teatrale.
A scriverlo sono chiamati giovani che intendono cimentarsi con l’attività di cronista e critico teatrale o premiati in concorsi di critica. Affianco al lavoro di scrittura, redazione, impaginazione si svilupperà anche un progetto pedagogico, che inizia subito prima del festival e che continuerà soprattutto con l’osservazione degli spettacoli e la redazione del ”Quaderno”. Il principio è quello di riflettere e fare, sperimentare e ragionare su ciò che si è prodotto. Questa parte è curata da Gianni Manzella e dall’Associazione ART’o, che intanto hanno fondato l’omonima rivista, tentando un’ulteriore risposta ai problemi agitati negli anni precedenti[245].
Anche in questa edizione del quotidiano, come in quella del 1996, ci sono spazi aperti ad artisti, critici, studiosi, personale che lavora al festival, spettatori. Fra gli altri contributi esterni a quelli della redazione segnaliamo, perché particolarmente stimolanti, quelli di Goffredo Fofi, un maestro della critica polemica, che anche negli anni successivi si confronterà con i giovani che scrivono il “Quaderno” con consigli simili a caustiche provocazioni contro ogni pigra visione e consuetudine.
Il gruppo è coordinato da Simona Pari. Il lavoro si rivela molto duro: ogni giorno bisognerebbe consegnare il dischetto con i pezzi impaginati entro le cinque del pomeriggio. Le attività iniziano alle nove del mattino e proseguono fino alle ore piccole, quando si accendono accanite discussioni sugli spettacoli visti. I ritmi concitati mettono in crisi la resistenza e la scrittura di molti: eppure l’esperimento arriva alla fine e sembra funzionare.
A parte qualche errore grafico (chi cura l’impaginazione non ha mai lavorato per un quotidiano e anche tutti gli altri non hanno esperienza diretta di redazione) e qualche ripetizione, il giornale riesce a essere uno sguardo vivo sul festival. Continua a trattare gli avvenimenti secondo più punti di vista: a una presentazione o intervista ampia sull’evento principale della giornata seguono “ritratti” di tutti i debutti, interviste, rubriche di alleggerimento sulla vita del festival, con numerosi e gustosi “dietro le quinte” che rivelano profili poco conosciuti di un evento complesso. Dopo i primi numeri iniziano ad apparire le recensioni, sempre a più voci, fino a vere e proprie stroncature, che accendono il dibattito: può il giornale di una manifestazione demolire spettacoli invitati dallo stesso festival? Può, perché chi scrive si assume le responsabilità della propria visione. Perché si cerca di evitare la censura e di far circolare il più possibile le informazioni, ma soprattutto gli sguardi appassionati.
Lo stile di scrittura deve tenere presenti due esigenze apparentemente inconciliabili: parlare alle tribù del festival e risultare comprensibile al lettore della “Voce”, per incuriosirlo e, se possibile, portarlo nei luoghi di spettacolo. Il “Quaderno” non è più principalmente un organo interno: è anche un mezzo di promozione del festival su un ampio territorio, attiguo ma profondamente diverso dall’ufficio stampa. E’ uno strumento rivolto non solo al pubblico specialistico, spesso molto informato e fortemente motivato, ma a uno spettatore più casuale. Deve risultare leggibile senza banalizzare, rendere le diverse anime della manifestazione, trasmettere la passione di chi vi scrive, affascinare per contagio. La sfida giornalistica sta qui: e il giornale funziona, attrae, vince le diffidenze iniziali della redazione della “Voce”, diventa una mappa dettagliatissima del festival, rivelando i contorni generali, ma anche i rivoli secondari di un progetto artistico che riunisce differenze in un unico contenitore, in un unico spazio-tempo extraquotidiano che di per sé cambia la percezione e il rapporto, andando a costruire un ulteriore oggetto, il festival stesso, originale rispetto alla somma dei singoli avvenimenti contenuti.
Il giornale diventa, ogni giorno di più, un febbrile laboratorio: ogni numero è discusso a lungo, ogni pezzo pubblicato viene analizzato dettagliatamente il giorno dopo. Si scrive e si dialoga, per cercare di capire come si può raccontare lo spettacolo contemporaneo.
Il successo e i punti di crisi
“Il Quaderno” viene venduto in edicola con la “Voce di Rimini”; oppure, come estratto, è distribuito gratuitamente nei luoghi di spettacolo. Per chi arriva dopo qualche giorno dall’inizio della manifestazione costituisce una insostituibile memoria di un percorso lungo vari giorni e moltissimi spettacoli, laboratori, incontri.
Il primo anno il festival paga per farlo pubblicare. Qualche pubblicità serve ad ammortizzare i costi, che prevedono anche l’affitto delle macchine necessarie a scriverlo e impaginarlo. In redazione sono remunerati (poco) solo il grafico e la coordinatrice. Uscendo su un quotidiano, questa volta si possono stampare fotografie: le prime pagine sono spesso montate facendo dialogare i testi con immagini forti, molto grandi.
Nei tre anni successivi si ripeterà, con alcune varianti, la stessa formula. Le edizioni del 2000 e del 2001 sono ancora ospitate dalla “Voce di Rimini”. Ma un segno del successo del “Quaderno” (e anche del tipo di scrittura scelta) è che i costi vengono sempre più coperti dalla pubblicità. L’inserto viene inserito anche nelle edizioni della “Voce” diffuse in altre province del centro Italia. Nel 2002 “Il Quaderno” è conteso fra i due quotidiani riminesi, “La Voce” e “Il Corriere di Rimini”, affiliato al “Corriere di Romagna”. Si sceglierà di uscire come inserto di quest’ultimo.
Col tempo si perfeziona il meccanismo della relazione fra laboratorio e redazione. Il seminario precede di qualche giorno il festival e l’uscita del giornale. Si discute sul taglio da dare agli articoli, si preparano materiali, si imposta una divisione dei compiti che permetta di coprire tutti gli eventi. Si cura il reperimento delle immagini, sia studiando quelle disponibili nell’archivio di Santarcangelo, sia ordinando al fotografo del festival scatti particolari per i debutti e i progetti speciali. Quando è possibile, si seguono le prove delle novità per anticipare le informazioni.
Nel 2000, ancora, la redazione è composita: alcuni redattori hanno frequentato precedenti seminari di critica teatrale; altri si sono iscritti al laboratorio del giornale del festival e, in molti casi, sono privi di esperienza specifica[246]. Il coordinamento redazionale e l’impaginazione vengono affidati a Luigi Weber, collaboratore delle pagine culturali della “Voce”, dottorando di italianistica, una guida sicura sia da un punto di vista tecnico e giornalistico, sia per la scrittura. Oltre a dare indicazioni utili nel momento stesso in cui legge e revisiona gli articoli per impaginarli e titolarli, garantisce una grafica più precisa e il rispetto dei tempi per la chiusura delle pagine.
Ogni articolo viene discusso preventivamente, analizzato, in molti casi aggiustato o riscritto interamente. Si cerca la precisione e l’efficacia. Sugli argomenti impegnativi si mettono a lavorare insieme o parallelamente due o più persone, per poter confrontare le opinioni, allargare gli argomenti, mettere in relazione competenze diverse. Spesso il gruppo di lavoro è impegnato su pagine tematiche, alle quali ognuno può contribuire con apporti personali (intervista, schede informative, recensioni, contestualizzazioni eccetera). Si preferisce, come già in passato, accumulare su uno stesso spettacolo più “punti di vista”, o recensioni.
Eppure, nonostante il coordinamento competente e appassionato di Weber, il mio intervento costante in qualità di direttore, la presenza di alcuni “veterani” che già hanno collaborato all’edizione dell’anno precedente[247], la diversità di esperienze e vocazioni dei partecipanti fanno sì che ci sia squilibrio fra i pezzi, con alcuni articoli che risultano stesi in modo decisamente superficiale. Negli anni successivi si deciderà di chiamare a collaborare solo giovani già conosciuti in laboratori precedenti.
Un altro problema che si manifesta è quello della relazione fra il giornale e il festival. Un redattore del “Quaderno” nota che una delle produzioni di “Santarcangelo dei Teatri”, Natale in casa Babbaluck, di una compagnia partenopea (Babbaluck, appunto), “appare di fatto casuale e caotico, a tratti completamente privo di ritmo, sicuramente disarticolato e poco convincente dall’inizio alla fine”[248]. Accanto al suo articolo, una vera e propria stroncatura, chiedo a Silvio Castiglioni di interviene a spiegare perché ha scelto di scommettere su quel giovane gruppo che presenta una propria lettura, particolarissima, di Natale in casa Cupiellodi Eduardo de Filippo, trasformato in una specie di presepe vivente di una degradata Napoli di oggi, disteso ai piedi e lungo il pendio di una collina. La redazione critica la scelta di dare tanto rilievo all’opinione del direttore artistico, che necessariamente schiaccia quella del giovane recensore.
Nell’ultimo numero del “Quaderno” si confrontano due posizioni, su temi centrali nella discussione sulla situazione della critica, latenti in tutta l’esperienza del giornale. La prima è la mia:
Trovo inutile […] smontare uno spettacolo senza sforzarsi di capirne le ragioni. Abbiamo sempre contrapposto più voci sugli spettacoli quando i giudizi erano divergenti. E nella piazza del festival che questo giornale voleva essere la voce del direttore vale quanto quella di un altro qualsiasi di coloro che vi lavorano, e viceversa. Ma la questione è più profonda. E’ di sguardo. Di sensibilità. Di capacità di cambiare un vecchio modo di fare. La critica che ci piace è quella che ci ha insegnato Giuseppe Bartolucci, uno sguardo a trecentossenta gradi, in movimento, che si “sporca” con il teatro. Uso il plurale perché credo che non si tratti solo di idee mie, ma di una parte di una generazione. Odiamo il Re-censore. Chi si erge con sussiego a giudice. Erigendo schermi fra sé e la possibilità di capire le smarrite domande di necessità del teatro[249].
La replica di gran parte della redazione è affidata a Paolo Maier:
Dal nostro punto di vista, Castiglioni non aveva alcuna necessità di argomentare e difendere la propria scelta, quantomeno non nelle modalità secondo cui ciò è avvenuto – con un box all’interno di una recensione, richiesto espressamente dal condirettore per avere un’altra voce sullo spettacolo.
Le modalità del suo intervento ci hanno sorpresi: il suo fondo avrebbe potuto uscire prima dello spettacolo o magari anche dopo, come è stato, ma non affiancato alla voce contraria di un redattore. Perché le due voci non stanno su piani paritetici o paragonabili e l’ufficialità di Castiglioni svilisce le posizioni legittime di chi ha guardato con attenzione uno spettacolo, cercando di raccontare perché non gli è piaciuto. Per noi giovani appassionati scrivere un articolo di recensione in queste pagine non è stato e non è un mero esercizio stilistico di espressione dei propri giudizi, secondo un semplicistico approccio naif del tipo “mi è piaciuto/non mi è piaciuto”.
Si è sempre cercato di dare conto con responsabilità, anche e soprattutto per una questione di rispetto nei confronti delle compagnie, di quanto uno spettacolo riesca a comunicare e laddove ciò non avveniva, l’intervento di scrittura critica era ed è mirato a informare di ciò gli attori prima di tutto, perché solo così uno spettacolo può crescere, in un confronto artistico dialettico e leale. Il lavoro della compagnia Babbaluck deve potersi difendere da sé. Il loro lavoro merita rispetto e non accondiscendenza e al loro spettacolo si deve riconoscere la dignità di una stroncatura, non invece l’imbarazzo della difesa, o della giustificazione, o della spiegazione […][250].
Mi sembra che questa polemica contenga alcuni dei temi caldi, non facilmente risolvibili, che abbiamo affrontato in tutto il volume E’ difficile assegnare, a distanza di tempo, torti e ragioni: sicuramente si confrontano due concezioni di fare critica, inacidite dai rispettivi ruoli, che diventano troppo rigidi in un ambito che si dichiara “piazza” aperta. La direzione artistica, chi difende un lavoro e alcune scelte, e il giornalista, che cerca di tenersi distante. Se non si crea l’incontro, se dalla contraddizione non escono esperimenti capaci di creare nuovi terreni di scambio fra chi fa e chi guarda, se le posizioni si polarizzano, sia l’ambito di sperimentazione della programmazione, sia lo sguardo ne risultano diminuiti. In fondo il giornale del festival voleva essere anche un confronto stretto fra chi fa e chi guarda. Voleva anche provare a mischiare, almeno un po’, le carte, per cercare strade inesplorate.
Contraddizioni e consigli per non concludere
Sicuramente il problema si ripresenta nelle successive edizioni, legato a quello della censura più o meno esplicita e della libertà come sguardo penetrante. Mentre il successo del giornale cresce, questo viene percepito dagli organizzatori del festival come un corpo sempre più estraneo, fino all’esplosione di diverse crisi nel 2002: nel 2003 si decide di non dar più corso all’esperimento. Per ripensare il giornale, o per eliminare una voce discordante non riassorbita?
Nel 2001 alla supervisione di chi scrive si accosta un altro occhio-guida, quello di Andrea Nanni, con il coordinamento redazionale di Weber[251]. Si aprono ancor di più le collaborazioni esterne, specie con alcuni redattori della rivista “Lo straniero”, diretta da Fofi. Il giornale è più preciso, con spazi più ampi e con un’appendice on line, curata da Jean Claude Capello, sul sito http://www.tuttoteatro.com. Le foto, specie in prima pagina, sono forti, non descrittive. Il primo numero è illustrato esclusivamente dai disegni di Gianluigi Toccafondo per il festival.
Nel 2002 decido di abbandonare il coordinamento del giornale per dargli maggiore autonomia dalle scelte del festival e perché l’incarico di condirettore lascia sempre meno tempo libero. Andrea Nanni e Alessandro Leogrande, della rivista “Lo straniero”, si succedono alla guida del foglio; Weber coordina il lavoro, Capello cura le immagini e il sito web[252]. Vengono introdotte nuove rubriche: in una colonna, intitolata “Le idee”, si parte dagli spettacoli visti per allargarsi a trattare temi più generali. Il “Quaderno” ospita anche gli interventi di un gruppo di giovani drammaturghi, coordinati da Renata Molinari[253], che osservano e raccontano giornalmente, con molta libertà e inventiva, il festival e i suoi spettacoli. Nella redazione, inoltre, sono inserite anche tre giovanissime liceali, provenienti da un laboratorio svoltosi presso il Teatro del Giglio di Lucca[254].
Il modo di lavorare si basa, ancora, sulla collaborazione: i servizi, come le recensioni, vengono attribuiti a più persone; si cerca di ragionare più sulla pagina che sul singolo pezzo, mettendo a confronto opinioni, discutendo gli spettacoli e il modo di trattarli; si cura molto il “taglio” con cui affrontare ogni argomento. La redazione continua a essere laboratorio: luogo di confronto fra visioni di giovani con diverse competenze ed esperienze.
I conflitti, questa volta, si manifestano dopo la pubblicazione di un articolo critico nei confronti del Circo Inferno Cabaret, il luogo di ritrovo del dopo-festival, un tendone circense dove si sente musica, si tira tardi, si mangia e si beve. Un luogo di incontro pieno di gente fino a notte fonda, molto rumoroso, poco adatto a scambiare opinioni, ma essenziale per far incrociare le diverse anime del festival. La critica lo definisce un luogo della globalizzazione, non tanto dissimile da altri punti di divertimento della riviera. Arriva una risposta sferzante degli organizzatori, che non sarà pubblicata perché ritenuta offensiva, aprendo una frattura fra chi il festival lo fa e chi lo guarda. Siamo alla fine di un processo.
Forse la formula del giornale si sta anche ripetendo. Sicuramente ci sarebbe bisogno di una ancora maggiore autonomia dalla “proprietà”, ma anche di uno sguardo più aperto e approfondito. La velocità di lavoro e l’inesperienza portano a volte a giudizi schematici, non sufficientemente fondati. O, viceversa, il potere di far arrivare la propria opinione che dà il giornale viene vissuto come un corpo estraneo dalla gente del festival.
Non mancano gli errori giornalistici, causati dalla fretta e dalla poca esperienza: il raccogliere voci senza verificarle, lo schierarsi preconcetto, il mostrare molto entusiasmo già nella presentazione, prima di aver visto lo spettacolo, il preferire il commento o l’esplicazione di una propria visione generale del teatro alla notizia, o il mescolarli troppo, il rinchiudersi nel teatro come in una cittadella non comunicante con l’esterno… Tutte queste difficoltà, insieme ai meriti del gruppo che comunque ha saputo fare un lavoro spesso accurato e pungente, vengono rilevati in una lettera finale ai redattori di Alessandro Leogrande, dalla quale cito due passaggi, due consigli al giovane critico, che appaiono come ulteriori possibili tasselli di questo accidentato mosaico di domande:
[…] una buona recensione parla di uno spettacolo visto (o di un libro letto o di un film visto) avendo in mente molto più del singolo spettacolo, libro, film che si ha davanti ai propri occhi. Bisogna tener presente: il percorso intellettuale/estetico/politico/esistenziale dell’autore, le sue opere precedenti, la letteratura critica, le opere di altri autori affini e di quelli non affini. Personalmente non mi piacciono le recensioni che raccontano troppo ciò che si è visto. Preferisco quelle che sanno penetrare quel “molto di più” di cui prima dicevo. E per fare questo bisogna studiare e vedere, analizzare e farsi consigliare. Insomma, saperne di più. […]
Il festival di Santarcangelo è tutto sommato un’isola felice, ma il teatro non è una campana di vetro slegata da tutto ciò che teatro non è. Fosse davvero così, sarebbe troppo facile e troppo sterile. Meglio guardare al teatro (da spettatori, giornalisti, critici…) come a un’arte al fianco di altre arti (un’arte che prende o non prende, che si distingue o non si distingue dalle altri arti). E guardare alle arti come legate (e nella consonanza e nella dissonanza) al mondo, alla società e alla sua cultura: ora espressione del mondo e della sua cultura, ora critiche del mondo e della sua cultura, ora volutamente distanti/lontane dal mondo e dalla sua cultura. Bisogna farsi critici generali, o almeno provarci.
Il giornale, comunque, si rivela una macchina pedagogica: luogo di confronto (e di conflitto) sulle contraddizioni di un ruolo, quello del critico, in profonda crisi, bisognoso di ridefinizioni. Sul campo i problemi scoppiano. Nella loro violenza. Emerge tutta la responsabilità dello sguardo e della scrittura. Fuori dalle protezioni dei laboratori, ci si rende conto della difficoltà del lavoro di osservare il teatro e provare a esserne coscienza riflettente, e della necessità di ripensare le proprie metodologie di sguardo e la propria posizione.
In queste difficoltà anche il teatro, chi fa teatro, si misura con la propria (falsa) coscienza, con il proprio narcisismo, la propria voglia di approvazione, e con la necessità di inventare nuovi modi di raccontarsi e di ascoltare. Senza far finta che contraddizioni, difficili da risolvere, non esistano, o che i problemi, i dubbi, non abbiano la legittimità di essere formulati. In questione è qualcosa di forse più importante ancora: i nuovi confini di necessità di quest’arte, dell’arte in generale, e il nostro stesso modo di guardare e di fare, di assumere posizioni, la nostra libertà, la nostra dolorosa crisi nei confronti della realtà e dei modi per rappresentarla, viverla, spostarla.
Bibliografia
Appunti per la ricerca
Memoria insostituibile dello spettacolo e della critica del Novecento sono una miriade di pubblicazioni di diversa natura, periodici vari, riviste specializzate, programmi di teatri, di rassegne e festival: una massa di documenti difficilmente riducibile nei limiti di una contenuta bibliografia.
Per gli anni più vicini a noi la situazione si complica ulteriormente con l’attività dei siti internet, con le rubriche radiofoniche o televisive, con le altre fonti ed esperienze che abbiamo ricordato nelle pagine precedenti. Grande importanza e utilità per la descrizione dello spettacolo contemporaneo e per la riflessione critica assumono raccolte di materiali, testimonianze dei protagonisti della scena, interviste, pubblicazioni di scritti creativi, di poetica, d’intervento. In questa direzione vanno i lavori di Bartolucci e Quadri già citati, altre loro opere, numerosi contributi di autori solo in parte menzionati. Elencare tali testi, fondamentali sia come fonti di informazione che per le impostazioni metodologiche usate, allargherebbe troppo i nostri ambiti: si tratterebbe di compilare una bibliografia molto ampia dedicata al nuovo teatro, che a tutt’oggi manca e che è particolarmente auspicabile.
A conclusione del percorso proponiamo pertanto soltanto alcuni orientamenti per la lettura, suggerendo vie da percorrere per iniziare ricerche o sviluppare approfondimenti personali.
Saggi generali sulla critica del Novecento sono:
ANTONUCCI G., Storia della critica teatrale, Studium, Roma 1990.
BARSOTTI A., La critica teatrale italiana e il ‘900, in Teatro contemporaneo, diretto da M. Verdone, Lucarini, Roma 1986 (vol. III).
PULLINI G., La critica militante nel teatro italiano del primo Novecento, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Liviana, Padova 1970.
ID., Pubblico e critica in Teatro italiano del Novecento, Cappelli, Bologna 1971 (II ed.).
Il libro di Antonucci, in particolare, riassume il percorso della critica fra Ottocento e Novecento, analizzando le sue figure di maggior spicco. Si tratta di un’opera decisamente schierata a favore di un’idea tradizionale di teatro, che censura gli orientamenti non in sintonia con quelli dell’autore; in definitiva, di un lavoro che affastella una buona quantità di dati e nozioni in modo storicistico, senza andare veramente a fondo di molte questioni. Esso è comunque utile, perché contiene un’ampia bibliografia (cfr. pp.228-256).
Quadri più sintetici dei temi che ci interessano li forniscono opere generali di consultazione, più volte ricordate:
Enciclopedia dello spettacolo, fondata da S. D’Amico, Le Maschere, Roma 1954-68 (in particolare le voci Cronache dello spettacolo, vol. III, Stampa specializzata e Storiografia e critica, vol. IX).
ATTISANI A. (a cura di), Enciclopedia del teatro del ‘900, Feltrinelli, Milano 1980 (in particolare la voce Critica, a cura di E. Capriolo).
CAPPA F., GELLI P. (a cura di), Dizionario dello spettacolo del 900, Baldini & Castoldi, Milano 1998 (in particolare la voce Critica).
Le discussioni, emerse a partire dagli anni sessanta, sulla crisi del ruolo che consideriamo, si possono seguire su varie riviste e pubblicazioni:
A proposito di “Critica impura”, in “Lo straniero”, a. VIII, n. 42/43, dicembre 2003-gennaio 2004.
Critici e autori: complici o avversari?, Marsilio, Venezia 1976, (atti del convegno di Ferrara, 9-10 novembre 1974).
Il critico impuro, in “Lo straniero”, a. VII, ottobre 2003, n. 40.
Il senso della critica, in Patalogo 18. Annuario 1995 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 1995.
La crisi della critica teatrale, sezione monografica in “Biblioteca teatrale”, Bulzoni, Roma, n. 54, aprile-giugno 2000 (atti del convegno di Cosenza, 4 maggio 1998).
La critica teatrale, sezione monografica in “Quaderni di teatro”, anno II, n.5, agosto 1979.
Per Roberto De Monticelli. Per il teatro, Lupetti, Milano 1997 (atti del convegno di Milano, 2-3 dicembre 1996).
BOGGIO M., Sporcarsi le mani: cinque serate con i critici di teatro, Bulzoni, Roma 1974.
CARLUCCI S. (a cura di), L’opinione negata, Associazione Nazionale Critici di Teatro, Roma 1988.
DE ADAMICH D., RANIERI G. (a cura di), Il mestiere del critico, Bulzoni, Roma 1971 (atti del convegno di Venezia, 28-30 settembre 1969).
URSINI URŠIČ G. (a cura di), Spettacolo e informazione: lo spazio della critica, La casa Usher, Firenze 1983 (atti del convegno di Milano, 6-7 giugno 1980).
Una memoria insostituibile del teatro degli ultimi decenni è costituita dai volumi del Patalogo. Annuario dello spettacolo, pubblicati dalle edizioni Ubulibri dal 1979.
Ognuno potrà utilmente ricostruire un quadro storico leggendo le raccolte delle recensioni e degli interventi dei principali critici, confrontandosi con la loro quotidiana attività di scrittura, capace in molti casi di trasmetterci il clima e i problemi del teatro di un’epoca e, nei casi migliori, dell’epoca stessa. E qui la produzione si fa cospicua, dall’affermarsi di questa figura fino alle crisi contemporanee. Ricordiamo, nel paragrafo seguente, solo i titoli di alcune raccolte di autori operanti nel Novecento (di ogni opera indichiamo la prima edizione): rimandiamo chi voglia approfondire temi e personaggi ottocenteschi alla bibliografia contenuta nel libro di Antonucci.
Raccolte di scritti dei critici
ALBINI E., Cronache teatrali, 1891-1925, a cura di G. Bartolucci, Edizioni del teatro stabile, Genova 1972.
ALVARO C., Cronache e scritti teatrali, a cura di A. Barbina, Abete, Roma 1976.
ARBASINO A., Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli, Milano 1965.
BERTANI O., Parola di teatro, Garzanti, Milano 1990.
BOUTET E., Le cronache drammatiche, Raponi e C., Roma 1899.
ID., Le cronache teatrali, Società editrice nazionale, Roma 1900-1901.
CARDARELLI V., La poltrona vuota, a cura di G. A. Cibotto, B. Blasi, Rizzoli, Milano 1969.
CHIAROMONTE N., Scritti sul teatro, Einaudi, Torino 1976.
CIRIO R., Serata d’onore. Diletto e castigo a teatro, Bompiani, Milano 1983.
CODIGNOLA L., Il teatro della guerra fredda e altre cose, Argalia, Urbino 1969.
COLOMBA S., La scena del dispiacere. Ripetizione e differenza nel teatro italiano degli anni Ottanta, Longo, Ravenna 1984.
D’AMICO S., Il teatro non deve morire, EDEN, Roma, 1945.
ID., Palcoscenico del dopoguerra (1943-1952), ERI, Torino 1953 (2 voll.).
ID., Cronache del teatro, a cura di E. F. Palmieri e S. D’Amico, Laterza, Bari 1963-64 (2 voll.).
ID., Cronache 1914-1955, a cura di A. D’Amico, L. Vito, Novecento, Palermo 2001 (3 voll.).
ID., La vita del teatro: cronache, polemiche e note varie. 1914-1921: gli anni della guerra e della crisi, a cura di A. D’Amico, Bulzoni, Roma 1994.
DE FEO S., In cerca del teatro, a cura di L. Lucignani, Longanesi, Milano 1972.
DE MONTICELLI R., L’attore, a cura di O. Bertani, Garzanti, Milano 1988.
ID., Le mille notti del critico, a cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli, Bulzoni, Roma 1996-98 (4 voll.).
DURSI M., Cinque festival nelle critiche teatrali di Massimo Dursi, a cura di C. A. Cappelli, Cappelli, Bologna 1956.
FIOCCO A., Teatro italiano di ieri e di oggi, Cappelli, Bologna 1958.
ID., Sipario aperto, Trevi, Roma 1981.
FLAIANO E., Lo spettatore addormentato, a cura di E. Giammattei e F. Bernobini, Rizzoli, Milano 1983.
FOFI G., La grande recita, Colonnese, Napoli 1990.
GADDA C. E., Un radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo, a cura di C. Vela, Il saggiatore, Milano 1982.
GARBOLI C., Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, a cura di F. Taviani, Sansoni, Firenze 1998.
GOBETTI P., Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti e C. Gobetti, Einaudi, Torino 1974.
GRAMSCI A., Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950.
GUERRIERI G., Lo spettatore critico, prefazione di M. Prosperi, Levi, Roma 1987.
ID., Il teatro in contropiede. Cronache e scritti teatrali 1974-1981, a cura di S. Chinzari, Bulzoni, Roma 1993.
JACOBBI R., Teatro da ieri a domani, La Nuova Italia, Firenze 1972.
ID., Le rondini di Spoleto, Munt Press, Samedan 1979.
MOSCATI I., La miseria creativa. Cronache del teatro non garantito, Cappelli, Bologna 1978.
ID., Manuale di sopravvivenza al teatro, Solfanelli, Chieti 1992.
OLIVA D., Il teatro italiano nel 1909, Quintieri, Milano 1911.
ID., Note di uno spettatore, Zanichelli, Bologna 1911.
PAGLIARANI E., Il fiato dello spettatore, Marsilio, Padova 1972.
PALMIERI E. F., Bene gli altri, Edizioni Aldine, Bologna 1931.
ID., Teatro italiano del nostro tempo, Testa, Bologna 1939.
ID., Del teatro in dialetto, a cura di G. A. Cibotto, Edizioni del Ruzante, Venezia 1977.
PANDOLFI V., Spettacolo del secolo, Nistri-Lischi, Pisa 1953.
ID., Teatro del dopoguerra italiano, Guanda, Parma 1956.
ID., Teatro italiano contemporaneo, Schwarz, Milano 1959.
POSSENTI E., Dieci anni di teatro (cronache drammatiche), Nuova Accademia, Milano 1964.
POZZA G., Cronache teatrali di Giovanni Pozza (1886-1913), a cura di G. A. Cibotto, Neri Pozza, Vicenza 1971.
PRAGA M., Cronache teatrali, Treves, Milano 1920-29 (9 voll.).
ID., Cronache teatrali del primo Novecento, a cura di R. Rimini, Vallecchi, Firenze 1979.
PROSPERI M., Maestri e compagni di ventura, Serarcangeli, Roma 1986.
PULLINI G., Sipario rosso: cronache teatrali 1965-1997, Guerini studio, Milano 1999.
QUADRI F., Teatro ’92, Laterza, Bari 1993.
QUASIMODO S., Il poeta a teatro, a cura di A. Quasimodo, Spirali, Milano 1984.
REPACI L., Teatro d’ogni tempo, Ceschina, Milano 1967.
RIDENTI L., Teatro italiano fra le due guerre, Della Casa, Genova 1968.
RIPELLINO A. M., Siate buffi: cronache di teatro, circo e altre arti: “L’Espresso” 1967-77, a cura di A. Fo, A. Pane, C. Vela, Bulzoni, Roma 1989.
ROMAGNOLI E., In platea, Zanichelli, Bologna 1924-25 (serie I e II).
RONFANI U., Il sabba di Spoleto. Dialoghi parzialmente immaginari con le streghe del Macbeth sulle meraviglie e sugli orrori del teatro, Spirali, Milano 1985.
SAVINIO A., Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi 1982.
SHAW G. B., Di nulla in particolare e del teatro in generale, a cura di E. Artese, Editori Riuniti, Roma 1984.
SIMONI R., Trent’anni di cronaca drammatica, SET-Ilte, Torino 1951-60 (5 voll.).
TAVIANI F., Contro il malocchio. Polemiche teatrali 1977-97, Textus, L’Aquila 1997.
TERRON C., Una vita in platea: critiche teatrali dal 1950 al 1977, a cura di C. M. Pensa, Sipario, Milano 1999-2001 (2 voll.).
TILGHER A., Il problema centrale. Cronache teatrali 1914-1926, a cura di A. D’Amico, Edizioni del teatro stabile, Genova 1973.
TORDI CASTRIA R. (a cura di), Montale a teatro, Bulzoni, Roma 1999.
VOLLI U., La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989.
WILDE O., Il critico come artista, a cura di A. Ceni, Feltrinelli, Milano 1995.
ZAMPA G., Le quattro stagioni (Cronache teatrali 1967-1968), De Donato, Bari 1969.
Ringraziamenti
Ringrazio Marco de Marinis, che ha voluto questo volume, e Gerardo Guccini, che ha seguito e propiziato tutto il percorso dei miei laboratori di critica teatrale, dal 1998 al “Festival della Terra delle Gravine” e poi al CIMES dell’Università di Bologna. Ma sono stati importanti anche i suoi consigli, che mi hanno aiutato precisare il piano dell’opera.
Alcune delle idee contenute in questo libro nascono dalle lunghe conversazioni con Leo de Berardinis e Paolo Ambrosino, seguite all’apertura del Teatro Laboratorio San Leonardo (Bologna, 1995), da riflessioni ed esperienze sviluppate con Gianni Manzella e altri amici e colleghi, dal dialogo con i tanti allievi di questi anni.
Il libro ha assunto la sua fisionomia anche grazie ai consigli di mia moglie Rita.
INDICE DEI NOMI
Acca, F.; 32
Adolphe, J.M.; 81
Adriatico, A.; 111
Albertazzi, G.; 100; 101
Albini, E.; 185
Alighieri, D.; 91
Alvaro, C.; 54; 185
Amara, L.; 194
Antolini, C.R.; 32
Antonucci, G.; 10; 183; 184
Arbasino, A.; 54; 143; 184
Arcelloni, R.; 55; 185
Ariosto, L.; 162; 163; 164
Aristofane; 89
Artaud, A.; 23; 140
Artese, E.; 185
Attisani, A.; 36; 48; 183
Babel, I.E.; 30
Baldini, R.; 144
Barba, E.; 75
Barberio Corsetti, G.; 30; 100; 101; 111
Barbina, A.; 185
Barile, M.; 201
Barsotti, A.; 183
Bartolucci, G.; 14; 44; 45; 46; 57; 76; 77; 78; 79; 98; 138; 179; 182; 185; 199
Barzilai, S.; 54
Bassani, A.; 194
Bausch, P.; 141
Bel, J.; 81
Bellocchio, M.; 46
Bene, C.; 46; 75; 100; 101; 144; 145; 146
Benedetti, C.; 12; 83; 84; 131
Berardi, C.; 194
Berisso, M.; 81
Bernardini, F.; 120
Bernobini, F.; 15; 185
Bertani, O.; 40; 41; 143; 185
Bertinetti, P.; 117
Bertolino, V.; 158; 162; 200
Bianchi, A.; 193
Bianchi, G.; 56
Bianchi, P.; 56
Blum, L.; 54
Boggio, M.; 15; 186
Bompiani, V.; 45
Borboni, P.; 42
Boutet, E.; 34; 184
Brecht, B.; 30; 41; 42; 43
Brie, C.; 193
Brignone, L.; 42
Buazzelli, T.; 42
Bussotti, S.; 46
Cagalli, E.; 158
Cagnoli, L.; 194
Cannella, C.; 117
Canziani, R.; 120
Capello, J.C.; 162; 197; 200; 201
Capitta, G.; 106; 107; 108; 120
Cappa, F.; 120; 183
Capriolo, E.; 36; 45; 46; 51; 52; 65; 66
Carloni, C.; 133
Carlucci, S.; 186
Caroli, F.; 92
Casaleggio, M.; 36
Casali, G.; 200; 201
Casali, W.; 194
Casi, S.; 111
Castellani, N.; 194
Castellucci, C.; 22; 177
Castellucci, R.; 21; 22; 23; 134; 135; 136; 137; 139; 140; 141; 142; 177
Castiglioni, S.; 194; 198; 199
Cavani, L.; 46
Cecchetti, M.; 162; 197
Cecchi, C.; 75
Ceni, A.; 186
Cenni, R.; 158
Chiaromonte, N.; 42; 43; 143; 185
Chimenti, T.; 61
Chinzari, S.; 24; 80; 81; 143; 176; 179; 186
Ciaravino, R.; 201
Cibotto, G.A.; 184
Cipriani, A.; 190; 193
Cirio, R.; 185
Colomba, S.; 143; 185
Colucci, M.; 194; 197; 198; 200
Comaschi, G.; 101
Coppi, M.; 194; 197
Cordelli, F.; 55; 92; 136; 138
Costa, S.; 15
Cruciani, F.; 7; 183
Cuomo, F.; 17
Cussini, A.; 201
Cuticchio, M.; 99; 100
D’Amico, A.; 37; 184
D’Amico, S.; 27; 33; 34; 37; 38; 54; 62; 63; 131; 150; 151; 177; 183; 184
Dadina, L.; 168
Dallagiovanna, E.; 139; 197
D’Amico, A.; 185
Dante, E.; 118
Danzuso, D.; 18
Darnton, R.; 155
De Adamich, D.; 14; 15; 18; 186
De Berardinis, L.; 20; 23; 46; 75; 100; 111; 179; 190; 191; 192; 194
De Cola, L.; 201
De Feo, S.; 185
De Filippo, E.; 30; 198
De Filippo, famiglia; 38
De Filippo, L.; 100
De Fusco, L.; 100
De Gaulle, C.; 134
De Marinis, M.; 16; 17; 24; 117
De Monticelli, G.; 55; 185
De Monticelli, R.; 15; 40; 41; 42; 44; 55; 57; 68; 69; 70; 71; 143; 185
Debord, G.; 13
Delbono, P.; 101
Della Monica, F.; 90
Di Marco, M.; 117
Diderot, D.; 150
Donatini, E.; 32
Doninelli, L.; 55; 91; 92
Dumas, A. figlio; 35
Durzi, P.G.; 194
Eisner, K.; 54
Fadini, E.; 45; 46
Fallini, S.; 158
Fanti, S.; 81; 179
Farnè, F.; 201
Faroldi, F.; 194
Fava, C.; 194
Fellini, F.; 137
Ferrari, A.; 158
Ferrati, S.; 42
Ferretti, G.L.; 30
Ferrone, S.; 117
Fierro, E.; 201
Flaiano, E.; 15; 54; 87; 144; 145; 146; 147; 185
Flaubert, G.; 145
Fo, A.; 87; 185
Fofi, G.; 48; 118; 142; 176; 186; 194; 200
Folengo, T.; 162; 163; 164; 165; 166; 167; 168
Fontana, E.; 158; 160; 165; 200; 201
Forte, I.; 90
Franceschetti, S.; 133
Furlanis, F.; 194
Gabardini, C.G.; 201
Gadda, C.E.; 12
Galanti, G.; 200
Galli Martinelli, L.; 55; 185
Garattoni, C.; 192
Garboli, C.; 55; 63; 64; 186
Garcìa, R.; 31
Gasparini, F.; 194
Gelli, P.; 120; 183
Genet, J.; 92; 108
Giacchè, P.; 20; 142
Giammattei, E.; 15; 185
Giancotti, M.; 197
Gibbons, S.; 134
Ginzburg, N.; 144; 147
Giorgetti, M.M.; 116
Giubelli, D.; 158; 161; 165
Giuliani, C.; 134
Giuntoni, A.; 190
Gobetti, P.; 34; 54; 184
Goethe, J.W.; 16
Gourfink, M.; 81
Gramsci, A.; 34; 35; 39; 54; 184
Gregori, M.G.; 41; 120
Grosso, G.; 201
Grotowski, J.; 57; 75
Gualtieri, M.; 175
Guccini, G.; 118; 125; 192
Guerra, A.; 194
Guerrieri, G.; 55; 143; 186
Guidi, C.; 22; 177
Ibsen, H.; 67
Infante, C.; 121; 193
Iori, I.; 64
Irrera, A.; 201
Jacobbi, R.; 185
Jarry, A.; 144; 165
Kastlunger, V.; 201
Kleist, H. von; 30
Kubrick, S.; 137; 140
Laforgue, J.; 144
Latella, A.; 92
Le Roy, X.; 81
Leogrande, A.; 201; 202
Leysen, Frie; 177
Liotta, G.; 121
Lissoni, A.; 32
Lombardi, S.; 90; 91
Longo, T.; 158; 200
Longuemare, V.; 167
Lucignani, L.; 185
Lupatelli, L.; 158
Luzzati, L.; 46
Lynch, D.; 140
Macciò, M.; 194; 197
Macdonald, D.; 85
Maier, G.; 200
Maier, P.; 194; 197; 199
Manzella, G.; 106; 107; 108; 118; 135; 136; 138; 179; 190; 191; 192; 194; 197
Marchesani, A.; 162; 197; 201
Mariani, L.; 192
Marino, M.; 120; 125; 128; 194; 197; 199
Marotti, F.; 117
Martinelli, M.; 118; 165; 166; 167; 170
Martini, F.; 54
Martini, V.; 60
Martone, M.; 83; 84; 101; 110
Mattioli, C.; 64
McCarthy, M.; 85
Meldolesi, C.; 101; 103; 118; 192
Mercante, M.; 168
Merlini, E.; 42
Messina, N.; 116
Miller, A.; 30
Minoia, V.; 118
Mirandola, G.; 200
Molinari, C.; 117
Molinari, R.; 24; 57; 115; 179; 192; 201
Montanari, E.; 162; 167; 169
Monteverdi, A.M.; 119
Moravia, A.; 144
Moscati, I.; 143; 186
Müller, H.; 90
Mussolini, B.; 134; 137
Naccari, R.; 194
Nanni, A.; 32; 57; 99; 100; 142; 189; 200; 201
Niccodemi, D.; 34; 35
Nicolini, R.; 120
Oliva, D.; 184
Oriolo, R.M.; 197
Orlandi, E.; 162
Orlandini, T.; 201
Pagnani, A.; 42
Palazzi, R.; 90; 120
Palmieri, E.F.; 34; 37; 55; 57; 184
Pandolfi, V.; 184
Pane, A.; 87; 185
Panzani, I.; 201
Paolini, M.; 31
Parenti, F.; 90; 91
Pari, S.; 194; 195
Pasolini, P.P.; 12; 100; 144
Perlini, M.; 75; 138
Perniola, M.; 98; 174
Pezzoli, C.; 90
Picciaiola, S.; 162
Pinter, H.; 30
Pirandello, L.; 30
Pischedda, S.; 158
Ponchielli, B.; 32; 194; 197; 200; 201
Ponte di Pino, O.; 24; 57; 100; 106; 107; 108; 115; 119; 139; 140; 173; 174; 179
Pontiggia, G.; 11; 12
Porcheddu, A.; 120; 191; 193
Possenti, E.; 184
Pozza, G.; 184
Pozzi, E.; 118
Praga, M.; 64; 184
Pullini, G.; 183; 186
Punzo, A.; 101
Quadri, F.; 14; 45; 46; 55; 56; 57; 68; 69; 70; 71; 84; 85; 87; 90; 91; 98; 114; 134; 135; 179; 182; 186
Quartucci, C.; 75
Quasimodo, A.; 185
Quasimodo, S.; 55; 185
Quintiliano; 23
Raboni, G.; 55; 69; 70; 71
Ranieri, G.; 14; 15; 18; 186
Ravera, V.; 120
Reiter, E.; 107
Ricci, M.; 75; 138
Ricci, S.; 201
Ripellino, A.M.; 55; 87; 143; 185
Romagnoli, E.; 184
Romasco, L.; 158; 200
Ronconi, C.; 175
Ronconi, L.; 46; 75; 89; 100; 101
Ronfani, U.; 117; 185
Ruffini, P.; 24; 80; 81; 176; 179; 189; 191
Russo, L.; 201
Ruzante; 91
Sacchettini, R.; 32; 200; 201
Salmon, T.; 118
Savarese, N.; 183
Savinio, A.; 54; 68; 143; 185
Scabia, G.; 32; 46
Scuro, S.; 125
Seragnoli, D.; 192
Shakespeare, W.; 30; 41; 91
Shaw, G.B.; 66; 67; 185
Simoni, R.; 34; 36; 184
Strehler, G.; 41; 42; 43; 55
Strocchi, A.; 111
Sue, E.; 35
Surianello, M.T.; 120
Tamburrino, G.; 125
Tarantini, N.; 151; 152; 156
Tarantino, Q.; 31
Tassinari, F.; 111
Taviani, F.; 7; 16; 64; 108; 143; 181; 186
Testori, G.; 90; 91; 100
Tian, R.; 24
Tiezzi, F.; 90; 91
Tilgher, A.; 34; 54; 185
Tinterri, A.; 68; 185
Toccafondo, G.; 201
Tofano, S.; 6
Tondelli, P.; 31
Tordi Castria, R.; 186
Trenti, S.M.; 194
Trionfo, A.; 46
Turco Liveri, D.; 162
Ursini Uršič, G.; 17; 24; 186
Valenti, C.; 192
Valentini, V.; 173; 174
Valli, B.; 201
Vasilicò, G.; 75; 138
Vazzoler, F.; 81
Vela, C.; 87; 185
Ventrucci, C.; 24; 32; 57; 142; 179; 191
Vercellone, C.; 162
Verdone, M.; 183
Vito; 30
Volli, U.; 19; 185
Wagner, R.; 35
Weber, L.; 197; 200; 201
Wilde, O.; 145; 186
Zeami, M.; 101
Zevola, O.; 192
Žižek, S.; 98
[1] Tali laboratori, articolati in dieci-dodici incontri di due ore l’uno, si sono svolti fino all’anno accademico 2001-2002.
[2] La definizione è tratta da S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Rizzoli, Milano 1962 (poi Bulzoni, Roma 1985), un fortunato e importante volumetto sul sistema delle compagnie capocomicali italiane prima dell’avvento della regia.
[3] Vedi i contributi di F. Cruciani e F. Taviani alla sezione monografica La critica teatrale, in “Quaderni di teatro”, anno II, n.5, agosto 1979, pp. 3-95.
[4] Si veda, in proposito, G. Antonucci, Storia della critica teatrale, Edizioni Studium, Roma 1990, a tutt’oggi l’unico ampio studio su questi temi.
[5] Pontiggia, Se c’è aria di crisi va tutto benissimo, in “la Repubblica”, 24 ottobre 1998.
[6] C. Benedetti, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p.7.
[7] “Gadda la chiamava ‘euresi’, o anche, con formula logica, un tendere dell’n verso l’n +1, dove l’n sta per l’acquisito e l’n+1 per l’acquisendo, ancora ignoto (…)”, ibidem.
[8] Ivi, p.11.
[9] Per un’analisi della “società dello spettacolo” si veda G. Debord, La Société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris 1971 e Id., Commentaires sur la Société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris 1988, (traduzione italiana Sugarco, Milano 1990).
[10] Il termine “realtà” non vuole evocare né il vecchio realismo, né il neorealismo. Per una discussione più approfondita di questi concetti, centrali nella ricerca estetica contemporanea, si rinvia ai capitoli successivi.
[11] Cfr. gli atti dell’incontro, D. De Adamich, G. Ranieri (a cura di), Il mestiere del critico, Bulzoni, Roma 1971.
[12] Su questi temi cfr. G. Bartolucci, La scrittura scenica, Lerici, Roma 1968 e F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (Materiali 1960-1976), Einaudi, Torino, 1977, 2 voll. (in particolare l’introduzione e le pp.135-148 del vol. I). Entrambi i testi riportano interpretazioni e documenti essenziali per capire quegli anni
[13] R. De Monticelli, La figura del critico dal dopoguerra ad oggi: condizioni di lavoro, in De Adamich, Ranieri (a cura di), Il mestiere del critico cit., p. 17.
[14] Tale espressione, utilizzata più volte in quegli anni, diventa anche il titolo di un libro che discute questi problemi, M. Boggio (a cura di), Sporcarsi le mani: cinque serate con i critici di teatro, Bulzoni, Roma 1974.
[15] De Monticelli, La figura del critico dal dopoguerra ad oggi: condizioni di lavoro cit., p. 20. Alle considerazioni dell’autore si potrebbe aggiungere anche la distanza fra critici militanti e mondo accademico, precisatasi in seguito: negli anni sessanta l’insegnamento delle discipline dello spettacolo nelle università era appena all’inizio.
[16] La rivista “Sipario” nel 1965 interroga numerosi scrittori sulla frattura fra gli intellettuali e la scena. Si veda l’articolo con cui Ennio Flaiano commenta questa inchiesta, Un personaggio in cerca del cappello, pubblicato sull’ “Europeo”, 11 luglio 1965, ora in Id., Lo spettatore addormentato, a cura di S. Costa, Bompiani, Milano 1996, pp. 226-229 (prima edizione a cura di E. Giammattei e F, Bernobini, Rizzoli, Milano 1983).
[17] F. Taviani, L’acritica, gli attori, in “Quaderni di teatro” cit., p.25.
[18] M. De Marinis, Le aporie della critica. Note di metodo per uno statuto critico, in G. Ursini Uršič (a cura di) Spettacolo e informazione: lo spazio della critica, La casa Usher, Firenze 1983, pp.11-12.
[19] Ivi, p.14.
[20] In De Adamich, Ranieri (a cura di), Il mestiere del critico cit., pp. 32-33.
[21] Ivi, p. 50.
[22] U. Volli, Critica del giudizio, in “Quaderni di teatro” cit., p. 35; l’articolo è stato ripubblicato in versione ampliata in Id., La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 123-135.
[23] Ivi, p. 39.
[24] Cfr. P. Giacchè, Il teatro come “attore” del terzo sistema, in In compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale, Emilia Romagna Teatro, Modena 1999, pp.40-62.
[25] La dichiarazione dell’attore e regista si può leggere nella sezione Il senso della critica, in Patalogo18. Annuario dello spettacolo 1995, Ubulibri, Milano 1995, p. 118.
[26] Ibidem.
[27] R. Castellucci, La critica e il ronzio del Coro, in R. Castellucci, C.Guidi, C. Castellucci, Epopea della polvere. Il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio 1992-1999, Ubulibri, Milano 2001, pp. 303-304. Il breve saggio costituiva un intervento al convegno Teatro e arti visive: funzioni e linguaggi della critica, tenutosi a Cosenza il 4 maggio 1998, promosso dai corsi di Storia del Teatro e dello Spettacolo e Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università della Calabria. E’ stato pubblicato una prima volta in “Biblioteca teatrale”, n. 54, aprile giugno 2000, pp. 121-125.
[28] Ivi, p. 304.
[29] Ivi, p. 305.
[30] Si veda l’intervento di De Marinis al convegno di Milano del 1980. Lo studioso rileva come fattori di involuzione “il ritorno del ‘mattatore’ e il recupero di una concezione riduttivamente letteraria dello spettacolo”: in Ursini Uršič (a cura di) Spettacolo e informazione: lo spazio della criticacit., p. 20, nota 3.
[31] Si veda R. Tian, Alla ricerca di una nuova professionalità, ivi, pp. 27-31.
[32] Sulla resistenza e le trasformazione della ricerca negli anni ottanta cfr. O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano 1975-1988, La casa Usher, Firenze1988. Sui nuovi gruppi emersi intorno al 1995 si vedano perlomeno P. Ruffini, C. Ventrucci (a cura di) I gruppi 90, in Patalogo 19. Annuario 1996 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 1996; S. Chinzari, P. Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima generazione, Castelvecchi, Roma 2000; R. Molinari, C. Ventrucci (a cura di) Certi prototipi di teatro. Storie, poetiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Ubulibri, Milano 2000 (con materiali e interventi dei “gruppi” Fanny & Alexander, Masque Teatro, Motus, Teatrino Clandestino).
[33] Enciclopedia dello spettacolo, Le Maschere, Roma 1954-1968, 9 voll. più appendici.
[34] Cfr. vol. IX.
[35] Cfr. vol. III.
[36] Cito dalla ristampa, Enciclopedia dello spettacolo, UNEDI, Roma 1975, vol. III, p. 1740.
[37] Ibidem.
[38] A. M. Monteverdi, Il set teatrale di Flicker. Lo spettacolo multimediale di Caden Mason (Big Art Group) a in teatro, in “ateatro, n.55, 20 luglio 2003, cit. nel programma della stagione teatrale 2003-2004 di Emilia Romagna Teatro, Modena 2003.
[39] La definizione è di G. Scabia: cfr. la sua Introduzione a: Gruppo di Drammaturgia 2 dell’Università di Bologna, Il Gorilla Quadrumàno. Fare teatro/fare scuole. Il teatro come ricerca delle nostre radici profonde, Feltrinelli, Milano 1974, p. 9.
[40] Sempre Scabia parla a lungo di “dilatazione del teatro”: crf. Id., Teatro nello spazio degli scontri, Bulzoni, Roma 1973, passim, sulle esperienze di azioni di teatro a partecipazione nei quartieri di Torino nel 1969-70 e in altre situazioni.
[41] Fabio Acca, Carla Romana Antolini, Andrea Lissoni, Andrea Nanni, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci.
[42] Organizzato a Prato nel giugno 2003 dal Teatro Metastasio – Stabile della Toscana, con la direzione artistica di Edoardo Donatini.
[43] Il critico impuro, in “Lo straniero”, anno VII, n. 40, ottobre 2003, p 93.
[44] Ibidem.
[45] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 1971, pp.313-315.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, p. 316.
[48] E. Capriolo, Critica, in A. Attisani (a cura di), Enciclopedia del teatro del ‘900, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 400-404.
[49] Ivi, p.401.
[50] Gruppi Universitari Fascisti.
[51] Pubblicata una prima volta in due puntate sul “Giornale d’Italia” (19 dicembre e 18 febbraio 1943), quindi in S. D’Amico Il teatro non deve morire, EDEN, Roma, 1945, in seguito in Id., Cronache del Teatro, a cura di E. F. Palmieri e S. D’Amico, Laterza, Bari 1963, si trova ora in Id., La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie. 1914-1921: gli anni della guerra e della crisi, a cura di A. D’Amico, Bulzoni, Roma 1994, pp.1-21.
[52] Non è contemplata la possibilità che il critico sia una donna.
[53] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico, in Id., La vita del teatro cit., pp.8-9.
[54] E’ sempre quello il punto nodale: il testo dell’autore.
[55] Capotipografo, quando le matrici delle pagine dei giornali venivano composte con i caratteri in piombo.
[56] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., p. 9.
[57] R. De Monticelli, Una ricerca d’identità, in Id., L’attore, a cura di O. Bertani, Garzanti, Milano 1988, p. 269-70. Il volume piuttosto che recensioni raccoglie interventi di più ampio respiro, scritti per le pagine culturali del “Corriere della Sera”, per convegni e altre occasioni: il contributo citato fu pubblicato per la prima volta in M. G. Gregori (a cura di), I signori della scena. Regista e attore nel teatro moderno e contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1978, pp.111-121.
[58] Ivi, p. 271.
[59] Ivi, p. 273.
[60] Id., Lilla Brignone regina di solitudine, in “Corriere della Sera”, 25 marzo 1984, ora in Id., L’attore, cit., p.160.
[61] N. Chiaromonte, Brecht-Strehler, “Galileo”, “Il Mondo”, 24 marzo 1964, ora in Id., Scritti sul teatro, Einaudi, Torino 1976, p. 174.
[62] R. De Monticelli, Troppo rumore in palcoscenico, in “Corriere della Sera”, 10 aprile 1985, ora in Id., L’attore cit., p. 464.
[63] Si veda G. Bartolucci, La scrittura scenica cit.; cfr. anche più avanti, parr. 4.1 e 4.2.
[64] Per un convegno sul nuovo teatro, documento programmatico per il convegno di Ivrea del 1967, firmato da attori, registi, critici, organizzatori, fra i quali Bartolucci, Bellocchio, Bene, Bussotti, Capriolo, Cavani, de Berardinis, Luzzati, Quadri, Ronconi, Scabia, Trionfo, pubblicato in “Sipario”, n. 247, novembre 1966, pp. 2-3 , e poi in Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia cit., vol. I, pp. 135-137.
[65] Ivi, p. 136.
[66] Pubblicato su “Teatro”, n. 2, 1967-68, pp. 18-25 e poi in Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia cit., vol. I, pp.135-148.
[67] Tutte le espressioni virgolettate qui di seguito sono tratte da quel documento.
[68] Ivi, p. 141.
[69] Ivi, p. 145 e sgg.
[70] Questi sviluppi sono ben testimoniati sulle pagine di “Scena, rivista di teatro popolare”, importante mensile uscito fra il 1976 e il 1982, diretto prima da Antonio Attisani e poi da Goffredo Fofi.
[71] Il critico impuro cit., p.93.
[72] Capriolo, Critica cit., pp.403-404.
[73] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., p. 4.
[74] In quell’occasione fu presentata la raccolta delle sue cronache teatrali, R. De Monticelli, Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro raccontati da uno spettatore, a cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli, Bulzoni, Roma 1996-1998, 4 voll. Nel primo volume sono comprese le critiche scritte fra il 1953 e il 1963 sui giornali “La Patria”, “Il Giorno”, “Epoca”; nel secondo quelle uscite fra il 1963 e il 1973 su “Il Giorno” e su “Epoca”; quelle per il “Corriere della Sera” sono distribuite negli ultimi due volumi: le critiche dal 1974 al 1980 nel terzo volume, quelle dal 1981 al 1987 nel quarto.
[75] F. Quadri, La solitudine del critico, in Per Roberto De Monticelli. Per il teatro, Lupetti, Milano 1997. (atti del convegno di Milano, 2-3 dicembre 1996), pp. 103-105.
[76] Cronache dello spettacolo, in Enciclopedia dello spettacolo cit., p.1751.
[77] Progettazione e Gestione dell’Arte e dello Spettacolo.
[78] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., pp.20-21.
[79] C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, pp.166-167. Il saggio che dà il titolo al volume e da cui citiamo era la prolusione ai corsi della Facoltà di Architettura dell’Università di Parma per l’anno accademico 2001-2002; è stato pubblicato una prima volta nel 2001 dalla stessa università della città emiliana in tiratura limitata, con tavole inedite di C. Mattioli e prefazione di I. Iori.
[80] F. Taviani, Alla foce, prefazione a C.Garboli, Un po’ prima del piombo, Sansoni, Milano 1998, p. XLVII.
[81] Ivi, p.L.
[82] Capriolo, Critica cit., p.401.
[83] Ivi, pp. 401-3.
[84] G. B. Shaw, Di nulla in particolare e del teatro in generale, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 25-26.
[85] Il critico impuro cit., p. 89.
[86] A. Savinio, Il teatro è fantasia, in “Scenario”, febbraio 1938, ora nella raccolta delle critiche drammatiche, Id., Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Adelphi, Milano 1982.
[87] Quadri, La solitudine del critico cit., pp. 106-107.
[88] G. Raboni, La consegna della scrittura, in Per Roberto De Monticelli. Per il teatro cit., pp. 39-40.
[89] Ivi, p. 40.
[90] Quadri, La solitudine del critico cit., p. 108.
[91] Ivi, pp. 108-109.
[92] Quadri, La solitudine del critico cit., p.106.
[93] Bartolucci, La scrittura scenica cit., p.8.
[94] Ibidem.
[95] Ivi, pp. 8-9.
[96] Ivi, p. 9.
[97] Id., Per un nuovo linguaggio critico, in Id., La scrittura scenica cit., p. 152.
[98] Il riferimento, in questo caso, è a Edipo. Tragedia dei sensi per uno spettatore del Teatro del Lemming, uno spettacolo del 1996 cui si partecipa da soli, bendati, e si viene sottoposti a esperienze sensoriali: cfr. M.Berisso, F. Vazzoler, Teatro del Lemming, Zona, Rapallo (GE) 2001, pp.67-76.
[99] Chinzari, Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima generazione cit., p. 198; sulla sintassi della scena italiana degli anni novanta, cfr. in particolare la sezione Linguaggi, articolata nelle voci Corpo, Scena, Sguardi, Mito e nuove ritualità, Suoni (e rumori, respiri, ronzii…), Vhs, Pensieri e parole, pp. 191-209.
[100] J-M. Adolphe, Nascita di un corpo critico, in S. Fanti, Xing (a cura di) Corpo sottile. Uno sguardo sulla nuova coreografia europea, Ubulibri, Milano 2003, p.14 (il volume contiene materiali su esponenti della nuova danza europea e italiana, in particolare Jérôme Bel, Xavier Le Roy, Myriam Gourfink, Kinkaleri, MK).
[101] Gli esempi riguardano Bologna (e Modena) per ovvi motivi: i laboratori si sono svolti principalmente nel capoluogo emiliano.
[102] Cfr. Benedetti, Il tradimento dei critici cit., in particolare il capitolo Il potere che ognuno conosce e nessuno racconta. Il caso Martone, pp.183-214.
[103] Quadri, La solitudine del critico cit., p.109.
[104] Cfr. D. Macdonald, Masscult & Midcult, e/o, Roma 2002, p.111 (edizione originale in “Partisan review”, n. 4, 1960; prima edizione italiana 1997).
[105] Ibidem.
[106] Raccolte ora in Flaiano, Lo spettatore addormentato cit.
[107] Raccolte ora in A. M. Ripellino, Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti (“L’Espresso” 1969-1977), a cura di A Fo, A. Pane, C. Vela, Bulzoni, Roma 1989.
[108] In gergo giornalistico l’apertura è l’articolo più importante, situato nella posizione di maggior rilievo in una pagina o in una sezione.
[109] A ben osservare, le rubriche settimanali dei principali quotidiani si muovono nella direzione aperta da questa pagina del “Sole”.
[110] R. Palazzi, Testori, la giostra dei sentimenti, in “Il Sole 24 Ore”, 7 ottobre 2001.
[111] F. Quadri, L’ultimo giro di giostra per l’Ambleto di Testori, in “la Repubblica”, 18 settembre 2001.
[112] Cfr. L. Doninelli, Intervista con Testori, Parma, Guanda 1993.
[113] L. Doninelli: Testori stravolto e perfetto, con occhiello A Milano una rivoluzionaria rilettura dell’“Ambleto” firmata da Lombardi e Tiezzi, in “Avvenire”, 4 ottobre 2001.
[114] M. G. Gregori, I Negri, in “del Teatro”, 11 ottobre 2002 (http://www.delteatro.it).
24 F. Cordelli, Bianchi o neri, si recita a soggetto, con occhiello Il Genet di Latella, ad alta temperatura, sconfina quasi nel dionisiaco, in “Corriere della Sera”, 16 gennaio 2002.
[115] Sulla tendenza dell’arte contemporanea, non solo del teatro, a cercare di scalfire l’apparenza dello spettacolo, per arrivare più vicino a una realtà sentita come sfuggente o mistificata, esiste un’ampia pubblicistica. In proposito vedi M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, un testo che delinea alcuni interessanti ambiti problematici di tale “ritorno alla realtà”, attinto spesso per choc, per discese nelle estetiche del disgusto, dell’eccesso, del trauma, dell’abiezione. Sui limiti e i problemi della relazione fra realtà, spettacolo, rappresentazione, cfr. anche S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002.
[116] Cfr. gli scritti di Bartolucci e di Quadri citati nel precedente capitolo.
[117] A. Nanni, Generazione 90; bilancio di un decennio, in “Hystrio”, anno XVI, n. 4, ottobre-dicembre 2003, pp. 36-38. Ma cfr. anche, sul tema degli spazi della ricerca nel nostro paese e del peso di un tradizionalismo soffocante, Id., Teatro: chi cerca trova, in “Lo straniero”, anno VI, n. 23, maggio 2002, pp. 43-46.
[118] Tale dibattito si può leggere in “ateatro”, n. 60, 28 novembre 2003 (all’indirizzo http://www.ateatro.it), e in “Lo straniero”, anno VIII, n. 42/43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp. 114-119.
[119] O. Ponte di Pino, Lettera aperta ai critici impuri, in “ateatro”, n. 60 cit., e in “Lo straniero”, anno VIII, n. 42/43 cit., p. 115.
[120] Direttore del Teatro Stabile del Veneto.
[121] Giorgio Albertazzi viene chiamato alla guida del Teatro Stabile di Roma dopo l’estromissione di Martone.
[122] Cfr. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984.
[123] I “critici impuri”, Caro Oliviero…, in “ateatro”, n. 60 cit., e in “Lo Straniero”, anno VIII, n.42/43 cit., p.117.
[124] I problemi collegati sono molti. Per esempio dove si scrive: se su riviste o strumenti di informazione e cultura teatrale “alternativi”, o sui quotidiani; se si opera come fiancheggiatori di un determinato tipo di teatro o da un’altra prospettiva eccetera.
[125] Sono tutte espressioni tratte Il critico impuro cit.
[126] Sulla nascita e le caratteristiche dell’attore “funzionale” cfr. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi cit., in particolare il paragrafo. L’epoca delle sovvenzioni e dell’attore funzionale, pp. 23-36.
[127] Capitta e Manzella lavorano in quel ”laboratorio” del “Manifesto” cui abbiamo accennato. Ponte di Pino vi ha collaborato a lungo; negli ultimi anni se ne è distaccato e si è dedicato alla rivista “ateatro”. Ponte di Pino, come Manzella, ha gravitato anche intorno al Patalogo. E Manzella è, con Elfi Reiter e me, il fondatore di una delle riviste di cui parleremo più avanti, “ART’o”.
[128] Si riferiscono allo “scandalo” giornalistico creato ad arte (e per superficialità) intorno a uno spettacolo dei Magazzini Criminali, Genet a Tangeri, rappresentato nel luglio 1985, nell’ambito del festival di Santarcangelo di Romagna, all’interno del mattatoio di Riccione. Molti giornali titolarono il falso, scrivendo che i Magazzini “uccidevano” un cavallo in scena, mentre lo spettacolo veniva ambientato nel mattatoio funzionate per creare un cortocircuito fra una realtà quotidiana e rimossa e un evento drammatico come il massacro dei palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Al riguardo cfr. F. Taviani, Contro il mal occhio. Polemiche teatrali 1977-1997, Textus, L’Aquila 1997, pp.105-127: la penetrante analisi dello studioso è incentrata proprio sui meccanismi di un’informazione mirante a creare il “caso” più che ad analizzare e a capire.
[129] Il documento, G.F Capitta, G. Manzella, O. Ponte di Pino, Ivrea 87. Realtà e utopie. Intorno al “nuovo teatro”, si può leggere integralmente in “ateatro”, n. 44, 28 ottobre 2002.
[130] A una di queste pubblicazioni, “Il Quaderno del Festival”, prodotto durante alcune edizioni del festival “Santarcangelo dei Teatri”, è dedicata l’appendice di questo volume.
[131] E’ uscita dal 1999 al 2001, con nove numeri bimestrali editi dalle edizioni Minimum fax di Roma.
[132] “Danza musica teatro”, due numeri su teatro e danza pubblicati nel 1999 e “Annex. Testi riflessioni e idee dalla Biennale”, cinque numeri, usciti fra il 2000 e il 2001, dedicati al teatro, alla danza, al circo.
[133] “In scena”, a cura di F. Tassinari e A. Strocchi, Edisal, Ferrara.
[134] Il teatro bolognese, diretto da Leo de Berardinis, ha pubblicato fra il 1995 e il 2000 alcuni volumetti dedicati agli artisti presenti nelle sue stagioni e agli spettacoli prodotti dalla compagnia, con saggi, raccolta di recensioni, diari di lavoro, documenti, interventi vari.
[135]A partire dal 1992 hanno gestito diversi spazi, per poi avviare la ristrutturazione di una ex piscina della periferia bolognese, trasformata in un complesso con due sale teatrali.
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[136] Di “Società di pensieri” sono usciti tredici numeri e due supplementi, dall’aprile 1992 al dicembre 1996.
[137] E’ consultabile all’indirizzo hppt // www. teatridivita.it/news.html.
[138] Al momento è spenta; è stata sostituita da pubblicazioni dei singoli teatri affiliati, di più ristretti orizzonti. La manifestazione “Percorsi internazionali” ha subito anch’essa una trasformazione che sa di ridimensionamento. L’Ente Teatrale Italiano sta vivendo una mutazione che gli ha fatto abbandonare molti dei progetti più impegnativi e interessanti degli scorsi anni e corre il rischio di ridursi a un’agenzia di distribuzione e gestione dello spettacolo.
[139] Kinkaleri, <OTTO>, artout – m&m –maschietto&ditore, kinkaleri, Firenze e Prato 2003, p. 5.
[140] Teatro in Italia. Cifre dati novità della stagione di prosa, pubblicato dalla SIAE.
[141] L’Agenda teatrale pubblicata per alcuni anni dall’Eti, era un annuario con informazioni su spazi teatrali, agenzie e scuole di teatro. Teatro e dintorni. Guida alle Arti Sceniche 2002/2003, Editoria&Spettacolo, Roma 2002, fornisce informazioni tecniche, logistiche e culturali sul mondo delle arti sceniche: se ne trova on line una versione aggiornata, all’indirizzo http://www.teatroedintorni.it.
[142] Il Patalogo. Annuario dello spettacolo, pubblicato dal 1979 dalla casa editrice Ubulibri di Milano, è arrivato nel 2003 alla ventiseiesima edizione.
[143] R. Molinari, O.Ponte di Pino, Il metapatalogo, in Patalogo 20. Annuario 1997 dello spettacolo, Ubulibri, Milano1997, pp. 255-277.
[144] “Sipario”, mensile diretto da Mario Mattia Giorgetti, è pubblicato a Milano dal 1946.
[145] Sono ancora di utilissima consultazione quelle annate e quelle dei primissimi anni settanta, ricche di numeri monografici che raccontavano le nuove tendenze e sperimentazioni in Italia e all’estero.
[146] “Prima fila”, mensile diretto da Nuccio Messina, è pubblicato a Roma dal 1993.
[147] “Hystrio”, trimestrale di teatro e spettacolo fondato da Ugo Ronfani e diretto attualmente da Claudia Cannella, è pubblicato a Milano dal 1998.
[148] “Prove aperte “, mensile diretto da Mario Di Marco, è pubblicato a Roma dal 1995.
[149] “Biblioteca teatrale”, nuova serie, trimestrale diretto da Ferruccio Marotti e Cesare Molinari, è pubblicato dal 1986 da Bulzoni editore, Roma.
[150] “Culture teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo”, rivista diretta da Marco De Marinis, viene redatta presso il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e pubblicata dalla casa editrice I Quaderni del Battello Ebbro di Porretta Terme (BO) dall’autunno del 1999.
[151] “Il Castello di Elsinore”, quadrimestrale di saggi, materiali, spettacoli, diretta da Paolo Bertinetti, pubblicata dal DAMS dell’Università di Torino, presenta ricerche storiche e saggi su spettacoli d’oggi; esce dal 1988.
[152] “Drammaturgia”, rivista diretta da Siro Ferrone, è pubblicata dal 1994 da Salerno editore di Roma. Ogni anno escono un numero e un “Quaderno” dedicato ai libri e agli spettacoli di cinema, opera, teatro, danza.
[153] “Prove di drammaturgia”, semestrale diretto da Claudio Meldolesi e Gerardo Guccini, è pubblicato dal 1995 dal CIMES dell’ Università di Bologna, Dipartimento di Musica e Spettacolo.
[154] “ART’o, rivista di cultura e di politica delle arti sceniche” diretta da Gianni Manzella, con cadenza inizialmente trimestrale e poi quadrimestrale, è pubblicata a Bologna dal 1998.
[155] “Catarsi. Teatri delle diversità”, trimestrale diretto da Emilio Pozzi e Vito Minoia, stampato a Cartoceto (PU), esce dal 1996.
[156] “Lo straniero”, rivista diretta da Goffredo Fofi, pubblicata a Roma da Contrasto, esce dal 1998, con cadenza prima trimestrale e dal 2001 mensile.
[157] Nel n. 39-40 si può leggere una presentazione del progetto.
[158] Fra le altre ricordiamo quelle di Renato Palazzi, critico del “Sole 24 Ore”, di Maria Grazia Gregori, critica de “l’Unità”, di Andrea Porcheddu, critico e saggista.
[159] F. Cappa, P. Gelli (a cura di), Dizionario dello spettacolo del 900, Baldini & Castoldi, Milano 1998.
[160] La rivista ha tra i collaboratori Francesco Bernardini, Roberto Canziani, Gianfranco Capitta, Claudio Facchinelli Massimo Marino, Renato Nicolini, Valeria Ravera.
[161] Contrastata è stata ed è la vita di questa associazione, attualmente presieduta da Giuseppe Liotta, sospesa da sempre fra una natura sindacale senza potere effettivo di contrattazione e quella di gruppo di opinione, organizzatore di appuntamenti culturali.
[162] L’archivio del Piccolo Teatro di Milano, per esempio, http://www.piccoloteatro.org, dichiara di contenere circa cinquecento bozzetti scenografici, tredicimila cronache giornalistiche dal 1947 a oggi, diecimila foto a colori o in bianco e nero e altri documenti.
[163] Un festival, diretto dal compositore Giovanni Tamborrino, dedicato agli intrecci fra teatro e musica, fra esperienze di ricerca e arte “popolare”. Si è svolto per alcuni anni in provincia di Taranto, nei comuni di Laterza, Castellaneta, Ginosa e Mottola.
[164] Salvatore Scuro della “Gazzetta del Mezzogiorno”.
[165] Questo schema fu precisato insieme ai partecipanti al laboratorio e soprattutto grazie alle osservazioni e ai consigli di Gerardo Guccini; si può leggere nella sua prima forma in M. Marino, Voci dal Festival della Terra delle Gravine nel dossier Teatro e musica. Per una ricerca aperta e popolare, in “Konsequenz, rivista semestrale di musiche contemporanee”, anno V, luglio-dicembre 1998, pp. 80-86.
[166] Usiamo qui la parola “drammaturgo” alla tedesca, distinguendo fra autore del testo e colui che su di esso, eventualmente, interviene per un adattamento, per una riduzione, per trasformarlo in relazione con la scrittura scenica del regista. In certi teatri, specialmente all’estero, compiti del “drammaturgo” sono anche quelli di fornire alla compagnia informazioni approfondite sul testo, l’autore, il periodo storico eccetera, e di preparare materiali sullo spettacolo per il pubblico.
[167] Marino, Voci dal Festival della Terra delle Gravine cit., p. 84.
[168] L’emozione sta diventando sempre di più un criterio quasi esclusivo di valutazione. Sintomo di un accentuazione del valore dell’esperienza soggettiva a teatro, ma anche di riduzione delle domande che si pongono allo spettacolo. Di un appannamento delle aspettative critiche.
[169] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., p. 16.
[170] Benedetti, Il tradimento dei critici cit., p. 9.
[171] E’ andato in scena dal 21 al 30 novembre 2003 al teatro Valle, nell’ambito di “Romaeuropa Festival”.
[172] Si intitolano “Idioma Clima Crono” e sono pubblicati in proprio dalla Socìetas Raffaello Sanzio a Cesena.
[173] Da apparizioni ai festival di Zagabria e Vienna e dalla coproduzione di Amleto con le “Wiener Festwochen”, agli inizi degli anni novanta, le tournée all’estero della compagnia sono cresciute in modo esponenziale, portandola in quasi tutti i continenti, con una presenza spesso più forte fuori d’Italia che nel nostro paese.
[174] F. Quadri, Sanzio, prove tecniche di potenza espressiva, in “la Repubblica”, 24 novembre 2003.
[175] Si veda il diverso tenore di uno scritto che sintetizza varie fasi del progetto all’interno di un resoconto sul “ritorno della tragedia”, in F. Quadri, L’esigenza del tragico, in Patalogo 26. Annuario 2003 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 2003, pp. 284-287.
[176] Quadri, Sanzio, prove tecniche di potenza espressiva cit.
[177] G. Manzella, Il labile enigma della tragedia, in “il Manifesto”, 23 novembre 2003.
[178] Ibidem.
[179] F. Cordelli, La Socìetas Raffaello Sanzio tra Kubrick e “Otto e mezzo”, in “Corriere della Sera”, 26 novembre 2003: si può notare che i tre giornali considerati hanno ospitato le cronache nelle rubriche fisse di teatro e musica, non considerando il progetto un avvenimento tale da far notizia, per l’impegno produttivo, per la dimensione internazionale, fuori dai normali contenitori.
[180] Ibidem.
[181] In realtà esistono i giornali “Idioma Clima Crono”, i video, e varie interviste a Castellucci su riviste straniere ma anche italiane.
[182] La sigla “teatro immagine” rimanda agli scritti di Bartolucci, alla “scuola romana” di Ricci, Perlini e Vasilicò e tanti altri artisti degli anni sessanta-settanta.
[183]Manzella, Il labile enigma della tragedia cit.
[184] Socìetas Raffaello Sanzio, R. Castellucci, Epitaph, Ubulibri, Milano 2003. La recensione si può leggere all’indirizzo http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro60.asp#60and82.
[185] E. Dallagiovanna, Teatro Valdoca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003. La recensione si può leggere all’indirizzo http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro60.asp60and81.
[186] O. Ponte Di Pino, Tragedia Endogonidia R.#07, in “ateatro”, n. 60, 28 novembre-03, http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro60.asp#60and20
[187] Ibidem
[188] Sulla Tragedia Endogonidia, si può leggere un ampio dossier, con un’intervista a Castellucci di Cristina Ventrucci e con interventi di Goffredo Fofi, Piergirogio Giacchè, Andrea Nanni, anche in “Lo straniero”, anno VIII, n.44, febbraio 2004, pp. 50-65.
[189] Taviani, Contro il mal occhio. Polemiche teatrali 1977-1997 cit.
[190] La pagina del quotidiano un tempo riservata agli articoli culturali e agli interventi d’autore.
[191] A. Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli, Milano, 1965; Chiaromonte, Scritti sul teatro cit.; De Monticelli, L’attore cit; G. Guerrieri, Il teatro in contropiede. Cronache e scritti teatrali 1974-1981, a cura di S. Chinzari, Bulzoni, Roma 1993; I. Moscati, Manuale disopravvivenza al teatro, Solfanelli, Chieti 1992; Ripellino, Siate buffi: cronache di teatro, circo e altre arti: “L’Espresso” 1967-77 cit.; Savinio,Palchetti romani cit.
[192] S. Colomba, La scena del dispiacere. Ripetizione e differenza nel teatro italiano degli anni Ottanta, Longo, Ravenna 1984. Colomba è da molti anni critico del “Resto del Carlino”.
[193] O. Bertani, Parola di teatro, Garzanti, Milano 1990. Bertani fu critico dell’“Avvenire d’Italia” e dell’“Avvenire”.
[194] Con la sua televisione, aggiungeremmo noi, oggi.
[195] E. Flaiano, Un personaggio in cerca del cappello cit., p.229.
[196] Id., Salomè, in “L’Europeo”, 15 marzo 1964, in Id., Lo spettatore addormentato cit. p.187.
[197] Ibidem.
[198] Coglie, con sensibilità e lungimiranza difficilmente riscontrabile nella critica coeva, nella drammaturgia dell’attore il segno più importante dello spettacolo.
[199] Ivi, p. 190.
[200] Id., “Salomé” di Carmelo Bene, in “L’Europeo”, 19 aprile 1964, in Id., Lo spettatore addormentato cit., p.198.
[201] Id., “La segretaria” di Natalia Ginzburg, in “L’Europeo”, 23 novembre 1967, in Id., Lo spettatore addormentato cit., pp. 292-293.
[202] Edizione italiana: D. Diderot, Paradosso sull’attore, a cura di P. Alatri, Editori Riuniti, Roma 1972.
[203] Ricordiamo che siamo nel 1942: l’articolo era inizialmente una conferenza per i Gruppi Universitari Fascisti.
[204] D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., p. 13.
[205] N. Tarantini, Il nostro giornale quotidiano. Il mestiere di giornalista, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1998, p.191.
[206] R. Darnton, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano 1994,pp. 158-9.
[207] I programmi e alcuni materiali prodotti si possono consultare nel sito del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, all’indirizzo http://www.muspe.unibo.it/attività/cimes.
[208] Sono tutti materiali ricavati dal laboratorio svolto nel 2000-2001. I partecipanti erano: Enrico Cagalli, Raffaella Cenni, Simonetta Fallini, Andrea Ferrari, Elisa Fontana, Delia Giubeli, Tiziana Longo, Livia Lupatelli, Silvia Pischedda, Laura Romasco, Valentina Bertolino.
[209] A Ferrari, Qualche idea di visione teatrale, materiale dei laboratori Cimes 2000-2001, in “Lo sguardo che racconta”, leggibile nel sito del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna all’indirizzo http://www.muspe.unibo.it/attività/cimes/00-01.
[210] E. Fontana, Lo spettatore nudo di fronte al mistero, in “Lo sguardo che racconta” cit.
[211] D. Giubeli, Noi critici, in “Lo sguardo che racconta” cit..
[212] Nella scuola italiana si scrive poco e male, in modo astratto, senza compiti concreti, senza interessi e passioni: e ancor meno si analizzano i modi per farlo.
[213] Un campo di osservazione privilegiato è stata la programmazione della Soffitta, il teatro dell’Università; circa i caratteri della sua attività cfr. sopra, par. 4.3.
[214] E’ un premio biennale che, in un articolato percorso di osservazione, esamina progetti di spettacoli di giovani artisti. Nelle semifinali e nella finale i selezionati devono presentare studi di durata non superiore ai venti minuti e sostenere un colloquio con la giuria, formata da critici, operatori, attori e registi. Il vincitore e tre segnalati saranno sostenuti in una vetrina che mostra le opere finite.
[215] Vi hanno collaborato gli studenti che hanno seguito il corso fino in fondo: Jean Claude Capello, Morena Cecchetti, Alberto Marchesani, Elisa Orlandi, Samanta Picciaiola, Daniela Turco Liveri, Cristina Vercellone.
[216] V. Bertolino, Concerto per Circe romagnola, in “Lo sguadro che racconta” cit. I due spettacoli considerati sono L’isola di Alcina e Baldus, i primi due “atti” di un progetto intitolato “Cantiere Orlando”.
[217] E. Fontana, D. Giubelli, Baldus, nostro contemporaneo, in “Lo sguardo che racconta” cit.
[218] M. Martinelli, E. Montanari (a cura di), Jarry 2000. Ricerche, scoperte, invenzioni da Perhinderion a I Polacchi, Ubulibri, Milano 2000.
[219] Il critico impuro cit., p.90.
[220] Ibidem.
[221] Ponte Di Pino, Cari “critici impuri” cit, p. 115.
[222] Ibidem
[223] Cosenza, Università della Calabria, maggio 1998.
[224] V. Valentini, Sulla (im)possibilità di esistenza della critica, in “Biblioteca teatrale”, n.54,cit. p. 14.
[225] Altri segnalano questi problemi in diversi ambiti, per esempio nel campo delle arti visive: cfr. Perniola, L’arte e la sua ombra cit., in particolare cap. Il terzo regime dell’arte, pp.62-78.
[226] I “critici impuri”, Caro Oliviero… cit., p.119.
[227] M. Gualtieri, La critica e i frequentatori di abissi, in “Biblioteca teatrale”, n.54 cit., p.114.
[228] G. Fofi, Prefazione a Chinzari, Ruffini, Nuova scena italiana cit., p.6.
[229] R. Castellucci, Etica ed estetica. Una lettera di Romeo Castellucci a Frie Leysen, in Castellucci, Guidi, Castellucci, Epopea della polvere cit., p. 306.
[230] . D’Amico, Esame di coscienza del cronista di teatro detto critico drammatico cit., pp. 13-14.
[231] G. Manzella, La bellezza amara. Il teatro di Leo de Berardinis, Pratiche, Parma 1993.
[232] Cfr.i libri di Ponte di Pino, Chinzari e Ruffini, Molinari e Ventrucci, Xing e Fanti, ma anche molti altri importanti documenti, solo in parte citati nelle pagine precedenti.
[233] Taviani, L’acritica, gli attori cit., p. 20.
[234] Sulle origini e i primi anni di tale festival, inizialmente di teatro negli spazi aperti della città, cfr. R. Giannini, Una storia meravigliosa. Il Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo, Sapignoli, Torriana (RN) 1993.
[235] Cfr. Il debutto di Amleto. Teatro e giovani, vol. Documenti 2**, Titivillus, Corazzano (PI) 2002, contenente il resoconto del progetto Visto da noi, commenti e impressioni di giovani critici con la guida di Paolo Ruffini e Andrea Nanni,.
[236] De Berardinis ha diretto il festival di Santarcangelo dal 1994 al 1997.
[237] Si riferisce a un incontro sulla funzione della critica teatrale e sulle sue prospettive, coordinato dallo stesso Manzella durante il festival del 1994.
[238] Le leggi del teatro. Assemblea permanente fu una manifestazione voluta da Leo de Berardinis nel teatro bolognese che dirigeva. Dal 10 al 18 aprile 1996 si tennero incontri, seminari, spettacoli e soprattutto dibattiti, su vari aspetti della politica teatrale, nei quali si contrapponeva un’idea dinamica di “leggi” del teatro all’ipotesi allora ventilata di arrivare a una legge nazionale del teatro.
[239] G. Manzella, Questo giornale, in “Il Quaderno del Festival”, 6 luglio 1996.
[240] Per esempio, nel numero del 10 luglio 1996, Cesar Brie racconta la rivista latino-americana “El tonto del pueblo”, pubblicata in Bolivia dal suo Teatro de los Andes.
[241] Pulcinella: aggio passato o’ guaio, in “Il Quaderno del Festival”, 7 luglio 1996.
[242] Teatrino Clandestino presentava uno spettacolo ispirato al mondo poetico di Pascoli, Mondo (Mondo). La giovane compagnia era ospitata nella villa dove fu fattore il padre del poeta, quella della Cavallina storna. Cfr. “Il Quaderno del Festival”, 10 luglio 1996.
[243] “News. La città dei teatri”.
[244] “La Voce di Rimini” usciva insieme alla “Gazzetta dello Sport”.
[245] L’ultimo numero riporta l’elenco dei partecipanti all’esperienza: Marco Coppi, Marco Colucci, Francesca Gasparini, Federica Furlanis, Barnaba Ponchielli, Lorenzo Cagnoli, Sandra Maria Trenti, Lucia Amara, Federica Faroldi, Massimo Macciò, Paolo Maier, Alessio Guerra, Chiara Fava, Andrea Bassani, Pier Giacomo Durzi, Gianni Manzella, Massimo Marino, Simona Pari, Cristina Berardi, Nunzio Castellani. In “Il Quaderno del Festival”, 11 luglio 1999.
[246] Nel 2000 la redazione è costituita da Jean Claude Capello, Morena Cecchetti, Marco Colucci, Marco Coppi, Emanuela Dallagiovanna, Marzia Giancotti, Massimo Macciò, Paolo Maier, Gianni Manzella, Alberto Marchesani, Massimo Marino, Rosa M. Oriolo, Barnaba Ponchielli, Luigi Weber.
[247] Questa rimarrà una scelta di fondo, anche negli anni successivi: accostare i nuovi a qualcuno che già ha fatto l’esperienza. A partire dal 2000 alcuni dei “vecchi”, inseriti in ruoli di responsabilità, avranno anche un compenso, come riconoscimento di una professionalità in formazione. Si tratterà, in realtà, di un piccolo rimborso spese: il budget del giornale rimarrà sempre ridottissimo.
[248] M. Colucci, Natale con la SIAE, in “Il Quaderno del Festival”, 15 luglio 2000.
[249] M. Marino, Siamo contro i Re-censori, “Il Quaderno del Festival”, 16 luglio 2000.
[250] P. Maier, Tutta colpa di Babbaluck. La redazione si è spaccata sull’intervento di Silvio Castiglioni, ibidem.
[251] In redazione troviamo Valentina Bertolino, Jean Claude Capello, Greta Casali, Marco Colucci, Elisa Fontana, Georgia Galanti, Tiziana Longo, Paolo Maier, Giulia Mirandola, Barnaba Ponchielli, Laura Romasco, Rodolfo Sacchettini.
[252] Partecipano alla redazione Valentina Bertolino, Jean Claude Capello, Greta Casali, Alessandra Cussini, Liliana De Cola, Fabio Farnè, Erica Fierro, Elisa Fontana, Alberto Irrera, Alberto Marchesani, Barnaba Ponchielli, Rodolfo Sacchettini.
[253] Partecipano Magdalena Barile, Renata Ciaravino, Carlo Giuseppe Gabardini, Gaia Grosso, Valentina Kastlunger, Letizia Russo, Barbara Valli.
[254] Teresa Orlandini, Irene Panzani, Sara Ricci.