Un supermercato a Lisbona prima dell’apertura. Sette donne vi lavorano. Sono immigrate, provengono da ex colonie portoghesi, da Capo Verde e Brasile. Nel ‘retrobottega’ ascoltiamo le loro storie – le vediamo ricordare l’infanzia, i balli di origine africana vietati dalla chiesa… Le ascoltiamo cantare canzoni imparate in parrocchia. Le guardiamo muoversi, a momenti scatenare la libertà del corpo nella danza, per compensarsi della fatica, dell’emarginazione, della ripetitività del lavoro servo di addette alle pulizie o alla cura. Assistiamo a qualche loro sogno.
Appartengono a generazioni diverse. Sono anziane nere, esuberanti afroamericane, giovani bianche magari con un master alle spalle o con vocazioni per la danza, in un quadro che attraversa differenti provenienze, generazioni, aspirazioni. Sempre in bilico tra la voglia di vivere e la morte metaforica, in agguato a trasformarle in zombie del dominio, del capitale.
Pendulum (Pendolari), visto all’Arena del Sole di Bologna, è una creazione del regista portoghese Marco Martins. Con momenti di interessante sincerità nelle confessioni delle protagoniste – vere immigrate, come si usa sempre più nel teatro che mette in scena spezzoni di realtà. Le loro storie vengono punteggiate da colpi di scena, irruzioni frastornanti di musica e accecanti di luci puntate sul pubblico, rotture che cercano di sostituire con l’effetto spettacolare l’assenza di una vera, efficace tessitura drammaturgica. Perciò alla fine lo spettacolo risulta una passerella di storie simili a molte altre che ci circondano, senza vero mordente, un “sacrificio” delle protagoniste sull’altare del reality trend, del teatro della realtà, e dei progetti europei (in questo caso il progetto Prospero, che raramente ci ha riservato visoni necessarie). Il difetto di questi programmi è il finanziamento di situazioni attente alle tematiche “di moda” e molto meno alla qualità e al senso di ciò che si mostra.
La scenografia, come va in questo autunno-inverno teatrale (Kepler-452, il Torero al Piccolo Teatro e questo lavoro), è fatta da una base di lamiere ondulate. Indica, certo, la necessità di tornare a trattare del lavoro, dei modi di produzione, ma è diventata già uno stereotipo visivo.
(foto di Estelle Valente, prod Artemrede, São Luiz Teatro Municipal e altri)
